Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25850 del 16/11/2020

Cassazione civile sez. III, 16/11/2020, (ud. 09/09/2020, dep. 16/11/2020), n.25850

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCODITTI ENRICO – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26658-2018 proposto da:

SOC CLEAR CHANNEL AFFITALIA SRL, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIALE REGINA MARGHERITA 46, presso lo studio dell’avvocato RUGGERO

FRASCAROLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ANDREA FRASCAROLI;

– ricorrente –

contro

ROMA CAPITALE, elettivamente domiciliata in ROMA, V. DEL TEMPIO DI

GIOVE 21, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO ROSSI, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1254/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

09/09/2020 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

La società Clear Channel Affitalia SRL ricorre per la cassazione della sentenza n. 1254/2018 della Corte d’Appello di Roma, resa pubblica il 24 febbraio 2018, articolando tre motivi.

Resiste con controricorso Roma Capitale.

La società ricorrente espone in fatto di avere convenuto in giudizio Roma Capitale per ottenere l’annullamento degli avvisi di pagamento del canone di locazione dal n. 1953 al n. 1963, aventi ad oggetto la richiesta di pagamento della complessiva somma di Euro 192.501,66 dovuta per il parziale pagamento del canone di affitto su impianti comunali – cosiddetto SPQR – dati in concessione per l’anno 2005.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 3234/2015, accogliendo le domande dell’attrice – avvenuta prescrizione quinquennale nella misura del 75% del diritto al canone, mancata decurtazione nella misura del 30% dal dovuto così come stabilito dalla Delib. consiglio comunale n. 86 del 2099 – dichiarava l’insussistenza del diritto di Roma Capitale a percepire i suddetti canoni di locazione e la condannava al pagamento delle spese di giudizio.

Con atto di appello contenente un unico motivo di gravame – basato sulla pretesa violazione della Delib. n. 86 del 1999 per mancata applicazione della decurtazione del 30% del canone – Roma Capitale chiedeva la riforma della sentenza n. 3234/2015 e la conferma degli avvisi di pagamento.

In particolare, l’Avvocatura comunale sosteneva la non estensione all’ipotesi per cui è causa della disciplina regolamentare, contenuta nelle Delib. n. 260 del 1999 e Delib. n. 86 del 1999, che aveva disposto la riduzione del 30% della tariffa dei canoni di affitto degli impianti di proprietà comunale.

L’odierna ricorrente, costituitasi in giudizio, eccepiva la inammissibilità e la improcedibilità dell’appello per avvenuta acquiescenza parziale, ex art. 329 c.p.c., comma 2, al capo di sentenza non fatto oggetto di gravame, relativo all’intervenuta parziale prescrizione dei canoni di affitto nella misura del 75%, e deduceva la infondatezza, sia in fatto che sotto il profilo istruttorio, di quanto sostenuto dall’Avvocatura di Roma Capitale. Rappresentava, a tal fine, che la Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 4049/2010, resa tra le medesime parti in un’altra controversia avente per oggetto una questione analoga, avrebbe accolto la domanda di rimborso del 30% del canone versato sia relativamente agli impianti privati sia riguardo agli impianti pubblici SPQR, mostrando di avere aderito alla consolidata giurisprudenza del Tribunale di Roma che più volte avrebbe attribuito al canone di affitto/locazione relativo agli impianti pubblicitari SPQR natura e finalità analoghe a quelle del canone di concessione relativa agli impianti privati, sottoponendoli entrambi alla disciplina contenuta nella Delib. n. 86 del 1999 quanto alla riduzione del 30%; e ancora che la Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 4683/2014, passata in giudicato, avrebbe confermato tale orientamento.

La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza oggetto dell’odierno ricorso, riteneva fondata l’eccezione di avvenuta acquiescenza parziale al capo di sentenza non fatto oggetto di gravame ed accoglieva l’unico motivo di appello formulato dall’Avvocatura Comunale; di conseguenza, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarava la sussistenza del diritto di Roma Capitale a percepire dalla Clear Channel Affitalia i canoni di locazione SPQR richiesti con gli avvisi di pagamento nn. 1953-1963 dell’8 luglio 2010, nella misura del 25% delle somme in essi riportate.

La trattazione del ricorso è stata fissata in Camera di Consiglio ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., n. 1 e non sono state depositate conclusioni scritte da parte del PM.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Va in primo luogo esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata, nel controricorso, da Roma Capitale, avente ad oggetto l’omessa notifica dello stesso al procuratore costituito ex art. 170 c.p.c., con conseguente richiesta di dichiarare passata in giudicato la sentenza impugnata.

La tesi argomentata dalla controricorrente può così riassumersi:

– Roma Capitale si era costituita in giudizio tramite l’avv. Domenico Rossi, munito di procura alle liti ex art. 83 c.p.c., non esistendo una disposizione che preveda il patrocinio ex lege dell’Avvocatura Comunale, ed aveva eletto domicilio presso gli uffici dell’Avvocatura comunale, (OMISSIS);

– il ricorso per cassazione era stato notificato tramite Pec all’indirizzo riferibile all’amministrazione di Roma Capitale, diverso da quello del difensore costituito;

– pertanto, la notificazione sarebbe avvenua in violazione dell’art. 170 c.p.c., a mente del quale dopo la costituzione in giudizio tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno al procuratore costituito, salvo che la legge disponga diversamente.

L’eccezione va respinta.

Il vizio della notifica è da ritenere sanato dalla costituzione in giudizio del destinatario del ricorso.

Va preso atto, infatti, che presso la giurisprudenza di questa Corte si è fatto strada un atteggiamento orientato a restringere l’ambito di operatività della nozione di “inesistenza” della notificazione, la quale può essere affermata “in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità.

Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi ex lege eseguita).

Restano, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa” (in termini: Cass., Sez. Un., 20/07/2016, n. 14916).

Con particolare riguardo alla notificazione di un atto attraverso posta elettronica certificata, la pronuncia fondamentale è la n. 7665 del 18/04/2016, a mente della quale “l’irritualità della notificazione di un atto (nella specie, si trattava del controricorso in cassazione) non ne comporta la nullità se la consegna telematica (nella specie, in “estensione.doc”, anzichè “formato.pdf”) ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale”.

In motivazione, il fondamento del principio enunciato è sviluppato, ponendo l’accento sul fatto che i ricorrenti avessero lamentato i vizi della notifica, senza addurre alcuno specifico pregiudizio al loro diritto di difesa. Ne era seguita la precisazione che “la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme di rito non tutela l’interesse all’astratta regolarità del processo, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione (Cass. n. 26831 del 18/12/2014). Ne consegue che è inammissibile l’eccezione con la quale si lamenti un mero vizio procedimentale, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o possa comportare altro pregiudizio per la decisione finale della Corte”.

Va aggiunto, per completare il ragionamento, che la notificazione è altresì inesistente soltanto se effettuata in un luogo o consegnata ad un soggetto diversi da quelli dovuti ed in difetto di qualsivoglia attinenza, riferimento o collegamento di quel luogo o di quel soggetto con il destinatario rituale dell’atto: negli altri casi, tra i quali ricade quello per cui è causa, la notifica è meramente nulla (Cass., Sez. Un., 20/07/2016, n. 14916, cit. e successiva giurisprudenza conforme) e può essere sanata o mediante la costituzione in giudizio del destinatario dell’atto o mediante il rinnovo, ove ancora possibile, della notificazione eseguito dal notificante spontaneamente o iussu iudicis.

Tali principi di diritto, più volte ribaditi da questa Corte, trovano applicazione nella vicenda per cui è causa, non essendo stati offerti argomenti pertinenti che convincano questo Collegio a discostarsene.

Per concludere, deve affermarsi che la notificazione del ricorso in luogo diverso da quello indicato non ha procurato alcuna lesione del diritto di difesa di Roma Capitale che, infatti, ha potuto tempestivamente e pienamente resistere con controricorso. Si osserva, peraltro, che la giurisprudenza citata dalla difesa di Roma Capitale, quando non risulta inconferente (Cass. n. 15422/2018 e Cass. n. 16590/2017 riguardano il verificarsi degli effetti acceleratori e sollecitatori per l’esercizio dell’impugnazione), si riferisce ad ipotesi in cui la notificazione è stata considerata “nulla” e non “inesistente”, con conseguente conferma dell’invocabilità del principio del raggiungimento dello scopo, per essersi Roma Capitale regolarmente difesa.

Disattesa l’eccezione di inammissibilità si può passare allo scrutinio del ricorso.

2. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 2909 c.c., art. 324 c.p.c. e art. 1306 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in ragione della contrarietà della sentenza impugnata ad altra pronuncia resa dalla Corte d’Appello di Roma, la n. 4683/2014 (divenuta definitiva precedentemente all’udienza di discussione innanzi al giudice a quo) che aveva ritenuto che la società Clear Channel Affitalia avesse diritto ad ottenere la riduzione del 30% sulle somme richieste a titolo di canone di locazione per gli impianti pubblicitari SPQR ad essa concessi in affitto. Di detta sentenza la ricorrente invoca in questa sede l’effetto di giudicato esterno, essendo stata resa tra le medesime parti e per la medesima questione di fatto e di diritto oggetto della controversia in corso.

La richiesta non merita accoglimento.

Il Collegio rileva, infatti, che:

a) in primo luogo, la pretesa formazione del giudicato esterno è avvenuta prima dell’udienza utile entro la quale avrebbe dovuto essere allegata, vale a dire quella del 23 febbraio 2018, in cui la causa venne decisa ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., ma non risulta che la società ricorrente abbia prodotto entro quella data il documento contrassegnato con il n. 3. Infatti, non vengono indicate nè la sede nè il momento di produzione di detto documento nel giudizio di merito. Tanto integra gli estremi della violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, secondo quanto stabilito da questa Corte con la pronuncia, a sezioni unite, n. 28547 del 2/12/2008 (e in precedenza con l’ordinanza n. 22303 del 4/09/2008), cui si rinvia.

b) si rileva, in subordine, che, sempre incorrendo nella violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, parte ricorrente non ha neppure provveduto a descrivere la fattispecie costitutiva del diritto azionato in giudizio nè del rapporto fondamentale da cui originavano le pretese oggetto del presente giudizio, sì da poter ricostruire il rapporto esistente tra il giudizio in corso e quello oggetto della decisione d’ Appello di cui si invoca l’applicazione con effetti di giudicato esterno.

3. Con il secondo motivo, proposto in via subordinata nell’eventualità del mancato accoglimento del primo mezzo, la ricorrente censura la sentenza gravata per violazione dell’art. 111 Cost., artt. 134 e 348 ter c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente ritiene la sentenza gravata fondata su una motivazione perplessa e non idonea a rivelare la ratio decidendi alla base della decisione di non applicare la riduzione del 30% della tariffa del canone dovuto.

La Corte d’Appello, premesso che la decurtazione riguardava le sole annualità 1994 e 1999, perchè la Delib. n. 86 del 1999 limitava l’applicazione di tale decurtazione al periodo intercorrente tra l’entrata in vigore della Delib. n. 1016 del 1994 ed il completamento del riordino, da compiersi entro il 30 novembre 1999, concludeva che i canoni di affitto di impianti pubblicitari di proprietà comunale non rientravano nella procedura di riordino e non potevano quindi beneficiare della riduzione del 30% del dovuto.

La tesi della ricorrente è che erroneamente il giudice a quo abbia fato coincidere la data del 30 novembre 1999 con la conclusione della procedura di riordino, perchè detta procedura che “avrebbe dovuto concludersi entro il 30 novembre del 1999”, si chiuse, invece, con oltre un decennio di ritardo o comunque non prima dell’inserimento nella Nuova Banca dati degli impianti di tipo SQPR. Tanto emergerebbe dalla Delib. assemblea capitolina 30 luglio 2014, n. 50 recante modifiche ed integrazioni alla Delib. consiliare n. 37 del 2009 avente ad oggetto modifiche ed integrazioni alla Delib. consiliare 12 Aprile 2006, n. 100 riguardante il regolamento in materia di esposizione della pubblicità e di pubbliche affissioni, ove si prevedeva che, in conformità con le Delib. n. 116 del 2013 e Delib. n. 425 del 2013, l’inserimento degli impianti pubblicitari nella nuova banca dati ha determinato la chiusura del procedimento di riordino.

La Corte d’Appello, in contrasto con le risultanze documentali e riformando in parte qua la decisione di prime cure, la quale aveva rilevato, a p. 4, che quanto ai requisiti di ammissibilità al beneficio della riduzione del 30% del canone, la società attrice aveva prodotto le schede di partecipazione alla procedura di riordino di tutti gli impianti interessati degli avvisi di pagamento e due note del dipartimento VIII, U.O. Affissione pubblicità del Comune di Roma, con le quali, facendo riferimento anche agli impianti di proprietà comunale, si dava conto dell’ultimazione della procedura di verifica amministrativa dell’inserimento degli impianti nell’elenco di quelli in possesso di titolo idoneo per il rinnovo pur dovendo svolgersi ulteriori verifiche e aggiungeva che la società attrice aveva prodotto il prospetto, realizzato dal servizio affissioni e pubblicità, nel quale erano indicati i numeri identificativi degli per cui è causa tra quelli inseriti nella banca dati comunale.

Il mezzo impugnatorio condivide la sorte del primo motivo di ricorso, perchè, anche in questo caso, è stato del tutto pretermesso, da parte della società ricorrente, il rispetto di quanto prescritto dall’art. 366 c.p.c., n. 6 con riferimento alle numerose delibere richiamate a supporto della censura formulata.

4. Con il terzo motivo la ricorrente imputa al giudice a quo la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, comma 1, lett. b in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il Giudice d’Appello, relativamente alla contestazione sull’applicazione dell’IVA, in aggiunta al canone di affitto/locazione, aveva rilevato che la questione esulava dalla sua competenza, rientrando in quella delle commissioni tributarie.

La ricorrente prospetta, al contrario, la giurisdizione del giudice ordinario, tenuto conto che, secondo la giurisprudenza, la controversia avente ad oggetto il diritto di rivalsa esercitato dal soggetto passivo d’imposta non può ritenersi compresa tra quelle devolute alla commissioni tributarie dal D.Lgs. 31 dicembre 1999, n. 546, art. 2, comma 1, lett. b perchè detta controversia, tra il soggetto passivo il soggetto attivo della rivalsa IVA, riguarda il rapporto tra i contraenti dell’operazione tassabile, ma non il rapporto tributario. La terzietà dell’amministrazione rispetto a tale controversia non verrebbe meno quando il cessionario committente contesti il presupposto della rivalsa, perchè l’indagine richiesta da tale deduzione resterebbe sul piano dell’accertamento incidentale, non introducendo una causa pregiudiziale nè potendola introdurre, spettando al debitore d’imposta sollecitare il sindacato giudiziale sull’an o sul quantum del credito tributario. Premessa dunque la competenza del giudice ordinario in materia IVA, la conclusione della ricorrente è che l’IVA non avrebbe potuto essere richiesta in aggiunta al canone di affitto/locazione, avuto riguardo alla norma eccezionale di esenzione d’imposta previsto dal D.P.R. n. 633 del 1973, art. 10, comma 1, n. 8 che espressamente esonera dall’IVA le locazioni e gli affitti di terreni agricoli nonchè di aree diverse da quelle destinate a parcheggi, per le quali non è prevista una vocazione edificatoria, non potendo qualificarsi le strade pubbliche come beni immobili strumentali che per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni per i quali la locazione o l’affitto è soggetta ad IVA secondo il disposto del D.L. n. 69 del 1989 convertito in L. n. 154 del 1989.

Il motivo è fondato.

Premesso che il motivo viene scrutinato, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., si ritiene che appartenga alla giurisdizione ordinaria, e non a quella del giudice tributario, la controversia che non investa, come in questo caso, il rapporto tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, ma la questione di esclusivo rilievo privatistico relativa all’indebita applicazione dell’IVA, come è desumibile da Cass., Sez. Un., 2064 del 28/01/2011 (cui adde Cass. Sez. Un. 04/04/2016, n. 6451; Cass., sez. Un., 31/05/2017, n. 12721), la quale afferma che, in tal caso, l’oggetto della controversia non è il rapporto tributario tra il contribuente e l’amministrazione finanziaria, bensì il rapporto privatistico tra soggetti.

5. In conclusione, i primi due motivi sono inammissibili; il terzo ed ultimo motivo è fondato.

6. Di conseguenza, la decisione viene cassata in relazione al motivo accolto e la controversia viene rinviata alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, cui viene demandato anche il compito di provvedere alla n(liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie l’ultimo motivo di ricorso, dichiara inammissibili i primi due; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sezione Terza civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2020

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