Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25849 del 14/10/2019

Cassazione civile sez. I, 14/10/2019, (ud. 15/05/2019, dep. 14/10/2019), n.25849

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25830/2017 R.G. proposto da:

ACEA S.P.A., rappresentata dall’Avv. Giuseppe Del Villano, in proprio

e nella qualità di mandataria con rappresentanza della ACEA ATO 2 –

GRUPPO ACEA S.P.A., rappresentata e difesa dall’Avv. Fabio Lepri,

con domicilio eletto in Roma, via Pompeo Magno, n. 2/b;

– ricorrente –

contro

ROMA CAPITALE, (già Comune di Roma), in persona del Sindaco p.t.,

rappresentata e difesa dall’Avv. Domenico Rossi, con domicilio

eletto in Roma, via del Tempio di Giove, n. 21, presso l’Avvocatura

Capitolina;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 5224/17,

depositata il 1 agosto 2017.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 maggio

2019 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Acea S.p.a., in proprio e nella qualità di mandataria con rappresentanza dell’Acea ATO 2 – Gruppo Acea S.p.a., gestore del servizio idrico integrato nel territorio di Roma, convenne in giudizio il Comune di Roma, proponendo opposizione a due ingiunzioni emesse il 10 agosto 2006, con cui era stato intimato all’Acea S.p.a. UDB il pagamento della somma di Euro 23.400,00, relativa all’anno 2004, ed all’Acea ATO 2 il pagamento della somma di Euro 623.570,00, relativa agli anni 2003, 2004 e 2005, a titolo di penali per violazione dell’art. 26-bis del Regolamento Scavi Stradali, approvato con Delib. 20 ottobre 2005, n. 260, a causa di ritardi nella restituzione di aree occupate per la posatura e la manutenzione di condotte, l’esecuzione di allacciature ed altre attività connesse.

Premesso che l’ingiunzione notificata all’Acea UDB era nulla, trattandosi di soggetto inesistente, mentre quella notificata all’Acea ATO 2 era generica, l’attrice contestò l’applicabilità dell’art. 26-bis del Regolamento, osservando che, in qualità di gestore del servizio pubblico integrato, l’Acea ATO 2 era assimilabile agli organi comunali. Sostenne che le penali previste dall’art. 26-bis cit. erano qualificabili come sanzioni amministrative, denunciandone l’illegittimità per contrasto con la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1, con l’art. 23 Cost. e con il D.Lgs. n. 18 agosto 2000, n. 267, art. 7-bis introdotto dalla L. 16 gennaio 2003, n. 3, art. 16. Aggiunse che le ingiunzioni recavano l’indicazione di somme complessive, senza specificare le ragioni delle singole richieste, nonostante l’elevato numero delle violazioni.

Si costituì il Comune, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.

1.1. Con sentenza del 2 luglio 2009, il Tribunale di Roma rigettò la domanda.

2. L’impugnazione proposta dall’Acea è stata parzialmente accolta dalla Corte d’Appello di Roma, che con sentenza del 1 agosto 2017 ha condannato l’Acea ATO 2 al pagamento della somma di Euro 623.570,00, senza nulla disporre in ordine al pagamento della somma dovuta dall’Acea UDB.

Premesso infatti che Acea ed Acea ATO 2 avevano regolarmente ricevuto la notifica della seconda ingiunzione e si erano regolarmente costituite in giudizio, difendendosi nel merito, la Corte ha escluso l’inesistenza del predetto provvedimento, ritenendo invece fondata l’analoga eccezione sollevata nei confronti della prima, in quanto l’Acea UDB era risultata inesistente.

Ritenuta inoltre corretta la qualificazione della somma indicata nella seconda ingiunzione come penale contrattuale, in tal senso deponendo sia il tenore letterale del Regolamento comunale, sia la ratio della norma applicata, volta a liquidare anticipatamente il danno derivante da comportamenti inadempienti del titolare della concessione di occupazione di suolo pubblico e dell’autorizzazione alla esecuzione di lavori, ha ritenuto inapplicabile la L. n. 689 del 1981. Ha quindi rilevato che il Comune aveva dato adeguatamente conto dei criteri di calcolo applicati, mentre la debitrice si era limitata a depositare un prospetto di calcolo alternativo, senza provare nè che i ritardi fossero imputabili al caso fortuito o a cause di forza maggiore, nè la data effettiva di ultimazione dei lavori, nè il rispetto dei termini pattiziamente fissati. Ha ritenuto pertanto corretta la quantificazione dell’importo dovuto, escludendo la possibilità di ridurlo d’ufficio ad equità, in mancanza della allegazione e della prova dei fatti dai quali risultava l’eccessività della penale.

Qualificata infine l’obbligazione come debito di valuta, ha ritenuto che sull’importo dovuto dovessero essere riconosciuti soltanto gl’interessi legali, escludendo invece la rivalutazione, in assenza della prova del maggior danno ed in considerazione della causa del credito, consistente in una penale contrattuale.

3. Avverso la predetta sentenza l’Acea ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sette motivi, illustrati anche con memoria. Ha resistito con controricorso Roma Capitale (già Comune di Roma).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 1, dell’art. 23 Cost., del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, artt. 25 e 26, del D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495, artt. 65,66 e 67 e degli artt. 1362,1363,1382 e 1383 c.c., censurando la sentenza impugnata per aver qualificato come penali contrattuali somme che, in quanto imposte in via autoritativa, avevano natura di sanzione amministrativa. Premesso che, pur avendo ritenuto applicabile il Regolamento comunale approvato con Delib. n. 260 del 2005, la Corte distrettuale ha ritenuto condivisibile la tesi sostenuta dalla sentenza di primo grado, fondata invece sul riferimento al Regolamento comunale approvato con Delib. 17 maggio 2002, n. 56, afferma che la predetta natura emergeva sia dal tenore letterale della disposizione applicata, che prevedeva la penale a tutela del pubblico interesse alla fruibilità delle strade, in relazione all’inosservanza di un termine fissato da un provvedimento amministrativo, sia da altre norme regolamentari, che attribuivano all’Amministrazione il potere di prorogare il termine per l’esecuzione dei lavori (art. 8), nonchè di revocare l’autorizzazione in caso d’inosservanza dello stesso (artt. 9 e 23), e di disporre il ripristino dello stato dei luoghi (art. 25). La pretesa azionata dal Comune trovava dunque fondamento non già in un rapporto privatistico instaurato su basi paritarie, ma, come confermato anche dall’emissione delle ingiunzioni, nel rapporto di concessione ed autorizzazione all’uso, nell’ambito del quale l’Amministrazione agiva in veste di autorità: tale rapporto non aveva subito alcun mutamento per effetto dell’accettazione delle condizioni dettate dalla concedente, stabilite da quest’ultima con atto unilaterale e non negoziabili dalla concessionaria. In quanto qualificabile come sanzione amministrativa, la penale si poneva poi in contrasto con il principio di legalità previsto dall’art. 23 Cost. e dalla L. n. 689 del 1981, art. 1 essendo prevista da un Regolamento che disciplinava l’esecuzione di scavi nelle sedi stradali, emanato in assenza di una norma di legge che consentisse l’imposizione di prestazioni patrimoniali.

1.1. Il motivo è infondato.

Nel confermare la natura contrattuale della penale, la Corte territoriale ha infatti richiamato la sentenza di primo grado, rimasta incensurata sul punto, la quale aveva accertato l’avvenuta accettazione da parte dell’Acea ATO 2 delle condizioni e degli obblighi previsti dal Regolamento comunale, in sede di sottoscrizione dell’istanza di rilascio della concessione per la posa di condutture nel suolo pubblico, ribadendo che in tal senso deponevano sia il tenore letterale della norma regolamentare che la ratio della stessa, consistente nel prevenire, attraverso il meccanismo della liquidazione anticipata del danno, comportamenti inadempienti della concessionaria, ed escludendo pertanto l’applicabilità dei principi e del rito previsti dalla L. n. 689 del 1981.

L’ammissibilità di siffatte pattuizioni nell’ambito di rapporti di tipo concessorio è ricollegabile alla natura complessa della fattispecie della concessione-contratto, con la quale la Pubblica Amministrazione, sia pure sulla base di un proprio provvedimento, attribuisce ad un soggetto privato la facoltà di svolgere un’attività che di regola si accompagna al trasferimento al concessionario di funzioni pubblicistiche, ma che in concreto può anche prescinderne: tale figura, come precisato da questa Corte, è caratterizzata dalla contemporanea presenza di elementi pubblicistici e privatistici, per effetto della quale, come si è detto, un soggetto privato può divenire titolare di prerogative pubblicistiche, mentre l’Amministrazione viene a trovarsi in una posizione particolare e privilegiata rispetto all’altra parte, in quanto dispone, oltre che dei pubblici poteri che derivano direttamente dalla necessità di assicurare il pubblico interesse in quel particolare settore al quale inerisce la concessione, anche dei diritti e delle facoltà che nascono comunemente dal contratto (cfr. Cass., Sez. III, 25/09/1998, n. 9594; 3/09/1998, n. 8768), tra i quali può essere previsto anche quello di esigere dalla controparte il pagamento di una penale in caso d’inadempimento degli obblighi posti a suo carico. La stessa giurisprudenza amministrativa, pur osservando che il rapporto fondato sulla concessione-contratto, proprio in ragione delle peculiarità originate dall’inerenza all’esercizio di pubblici poteri, non ricade in modo immediato, e tanto meno integrale, nell’ambito di applicazione delle disposizioni del codice civile, non ha escluso in linea di principio la legittimità della previsione di clausole penali: ha infatti evidenziato la riferibilità della disciplina dettata dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 11 anche ad accordi con contenuto patrimoniale, ma afferenti al previo esercizio di potestà pubbliche, confermando l’applicabilità agli stessi dei principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, ai sensi dell’art. 11 cit., commi 2 e 4, e limitandosi a precisare che, ove manchi ogni substrato patrimoniale, l’immanenza dell’esercizio di pubbliche potestà e le finalità di pubblico interesse cui le predette potestà sono teleologicamente orientate impongono necessariamente un adattamento dei predetti principi; ha osservato in proposito che, nelle ipotesi di esercizio di un potere amministrativo ampliativo della sfera giuridica dei privati (e quindi non solo concessorio, ma anche autorizzatorio), pur essendo chiara la natura latamente contrattuale dell’atto bilaterale, volto a regolare aspetti patrimoniali, l’inosservanza delle condizioni concordate si riflette sull’interesse pubblico che costituisce la causa della concessione o dell’autorizzazione ed il fine al quale dev’essere orientata l’azione del concessionario (al di là delle ovvie finalità individuali), con la conseguenza che la penale svolge una duplice funzione, quella di sanzione per l’interesse pubblico violato e quella più squisitamente civilistica di determinazione preventiva e consensuale della misura del risarcimento del danno derivante dall’inadempimento o dal ritardo nell’adempimento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 3/12/ 2015, n. 5492).

In un siffatto contesto, contraddistinto dalla compresenza di profili sovraindividuali ed aspetti strettamente patrimoniali strettamente intrecciati tra loro, il cui modo di atteggiarsi in concreto dipende dalle caratteristiche specifiche della fattispecie e la cui disciplina è destinata a confluire nell’accordo complessivamente raggiunto tra le parti, pretendere di ravvisare il fondamento della penale nel potere sanzionatorio attribuito agli enti territoriali per garantire il rispetto delle disposizioni dettate dai rispettivi regolamenti, con le conseguenti ripercussioni in termini di assoggettamento al principio della riserva di legge, soprattutto ai fini della determinazione della sanzione, significa voler ignorare la complessità degli accordi di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 11 e la loro autonomia rispetto al potere regolamentare dei predetti enti, nonchè la natura prettamente pubblica degl’interessi presidiati dalle sanzioni contemplate in passato dal R.D. n. 383 del 1934, art. 106 ed oggi dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 7 b che impone di riconoscere alle stesse una funzione radicalmente diversa da quella di una penale contrattualmente concordata. Nella specie, d’altronde, la stessa ricorrente, pur ponendo in risalto i poteri autoritativi riservati al Comune per l’ipotesi dell’inadempimento dell’accordo, riconosce che quest’ultimo era volto a contemperare il diritto dell’Acea ATO 2 di operare sui propri impianti interrati, in qualità di gestore di un servizio pubblico, e l’interesse collettivo alla fruizione della strada, cui occorre aggiungere quello prevalentemente patrimoniale ad un corretto ripristino dello stato dei luoghi, nonchè l’interesse dello stesso Comune al funzionamento dei predetti servizi. Nell’interpretazione dell’accordo, non occorre infatti trascurare la particolarità della posizione dell’Acea ATO 2, la quale non era un qualsiasi soggetto privato intenzionato ad eseguire lavori nel sottosuolo della strada pubblica per finalità esclusivamente individuali, ma una società cui era affidata la gestione del servizio idrico integrato nell’ambito del territorio comunale, nonchè una controllata dell’Acea, avente a sua volta come azionista di riferimento proprio il Comune.

Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha conferito rilievo per un verso al tenore letterale della norma regolamentare recepita nell’accordo, che attribuiva espressamente natura civilistica alle penali contemplate per il caso dell’inadempimento, prevedendone l’applicazione in aggiunta alle altre sanzioni, e per altro verso all’assetto complessivo degli interessi coinvolti nella fattispecie autorizzatoria, in tal modo pervenendo all’esclusione della riconducibilità della penale all’ambito di applicazione della L. n. 689 del 1981, ed al conseguente rigetto della richiesta di disapplicazione formulata dalla ricorrente.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce, in subordine, la nullità della sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 2 luglio 2010, n. 104, art. 39 e dell’art. 2909 c.c., censurando la sentenza impugnata per non aver tenuto conto della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio dell’11 aprile 2011, n. 3161, emessa nel corso del giudizio e passata in giudicato, che aveva annullato gli artt. 26 e 26-bis del regolamento comunale. Tale decisione, pronunciata su ricorso della Società Italiana per il Gas S.p.a. in un giudizio nel quale essa ricorrente aveva spiegato intervento, aveva comportato il venir meno della fonte originaria delle richieste avanzate dal Comune: proprio in attesa della stessa, essa ricorrente aveva avanzato istanza di sospensione del presente giudizio, non accolta dal Giudice di primo grado.

2.1. Il motivo è infondato.

Il giudicato invocato dalla ricorrente si è formato in epoca anteriore alla pronuncia della sentenza impugnata, e precisamente a seguito del decreto emesso il 15 ottobre 2014, con cui il Presidente del Consiglio di Stato ha dichiarato perento l’appello proposto dalla Società Italiana per il Gas avverso la sentenza emessa dal Tar Lazio, ma non è stato fatto valere nel giudizio di merito, nel quale le appellanti si sono limitate a depositare la predetta sentenza ed a chiedere la sospensione del giudizio in attesa della decisione del Consiglio di Stato, senza produrre successivamente l’attestazione del passaggio in giudicato nè il decreto di perenzione. La produzione di tali documenti, avvenuta soltanto in sede di legittimità, risulta inammissibile ai sensi dell’art. 372 c.p.c., il quale, vietando il deposito di documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, fatta eccezione per quelli riguardanti la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso, limita la rilevabilità d’ufficio del giudicato esterno, e conseguentemente anche la deducibilità dello stesso, a quello emergente da atti già prodotti nel giudizio di merito o a quello formatosi successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata (cfr. Cass., Sez. II, 22/01/2018, n. 1534; Cass., Sez. V, 18/10/2017, n. 24531; 19/10/2016, n. 21170).

3. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta, ancor più gradatamente, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e degli artt. 1343, 1418 e 1421 c.c., sostenendo che, anche a non volere tener conto del giudicato amministrativo, l’art. 26-bis Regolamento comunale avrebbe dovuto essere considerato illegittimo, e quindi disapplicabile, con la conseguente nullità del rapporto negoziale, rilevabile anche d’ufficio, in quanto lo stesso trovava la sua fonte in un atto amministrativo illegittimo. Tale nullità, specificamente eccepita nell’atto di citazione e non presa in considerazione dalla sentenza impugnata, non era esclusa dalla natura contrattuale della penale, compatibile anche con la qualificazione della stessa come prestazione imposta, in quanto riferibile ad un servizio riservato alla mano pubblica e regolato da condizioni unilateralmente ed autoritativamente fissate, non negoziabili dall’utente.

3.1. Il motivo è infondato.

L’insistenza della ricorrente sull’illegittimità dell’art. 26-bis Regolamento comunale si pone infatti in contrasto con la natura negoziale riconosciuta dalla sentenza impugnata alla fonte della penale, che, in quanto ravvisata esclusivamente nell’accettazione da parte della concessionaria delle condizioni e degli obblighi imposti dall’Amministrazione, per effetto della quale gli stessi dovevano considerarsi recepiti nel regolamento contrattuale, esclude la possibilità di far valere ulteriormente, in questa sede, l’invalidità derivata dell’accordo, per effetto di quella originaria del Regolamento che ne costituiva il presupposto.

Non a caso il Giudice amministrativo, nel dichiarare illegittimo l’art. 26-bis cit., ha tenuto a sottolineare che nel caso da lui esaminato non sussisteva la prova documentale dell’avvenuta riproduzione o del richiamo della clausola penale negli atti di autorizzazione o di concessione, precisando che proprio questi ultimi, e non il Regolamento, costituivano la sedes materiae appropriata per l’apposizione della clausola stessa, riguardante esclusivamente il rapporto civilistico del quale l’atto amministrativo rappresentava solo il presupposto giuridico e fenomenico, e quindi inidonea a mutare il quadro degli assetti tra la parte pubblica e quella privata, se non nella fase di realizzazione e gestione dello scavo, che resta confinata nell’alveo civilistico. Ciò significa che la penale in tanto è stata ritenuta illegittima in quanto prevista da un regolamento comunale che disciplinava imperativamente la materia dell’effettuazione degli scavi, e quindi qualificabile per un verso come sanzione amministrativa non conforme al principio di legalità sancito dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 7 bis e per altro verso come duplicazione civilistica degli effetti della predetta sanzione: tale ragionamento non può essere esteso alla fattispecie in esame, essendo stato accertato che la penale prevista dal Regolamento comunale era stata espressamente recepita dall’accordo, del quale era divenuta parte integrante, ed essendo venuto meno anche il rischio di una sovrapposizione della stessa alla sanzione amministrativa, per effetto dell’annullamento della norma regolamentare che la prevedeva.

L’inquadramento della sanzione in esame nella nozione civilistica di penale, consentendo di ravvisarne il fondamento nell’art. 1382 c.c., giustifica anche l’esclusione del prospettato contrasto con il principio di legalità sancito dall’art. 23 Cost., che subordina l’imposizione di qualsiasi prestazione patrimoniale di carattere sanzionatorio o deterrente alla riconducibilità della stessa ad un’espressa previsione normativa; nell’istituto della penale, la funzione latamente sanzionatoria della prestazione, quale forma di coercizione all’adempimento, si coniuga d’altronde con quella più propriamente risarcitoria, essendo la clausola volta a liquidare anticipatamente il danno derivante dall’inadempimento o dal ritardo nell’adempimento, del quale la prestazione rappresenta il ristoro; la circostanza che la sua quantificazione abbia luogo in via preventiva non ne esclude il costante collegamento con il pregiudizio concretamente subito dal creditore, testimoniato dal potere di riduzione che l’art. 1384 c.c. attribuisce al giudice, in relazione all’eccessività del relativo ammontare ed all’interesse del creditore all’adempimento.

5. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1218 e 2697 c.c., osservando che, nel porre a suo carico la prova dell’insussistenza del credito o dell’adempimento dell’obbligazione, la sentenza impugnata ha violato i principi fondamentali in tema di ripartizione dell’onere della prova, in virtù dei quali lo stesso incombe al creditore della prestazione controversa, anche quando, come nella specie, il giudizio sia stato instaurato dal debitore con un’azione di accertamento negativo. Premesso dunque che spettava al Comune l’allegazione e la prova dei ritardi nell’ultimazione dei lavori, dell’entità di ciascun ritardo e delle somme dovute a titolo di penale, afferma di aver contestato la quantificazione degl’importi richiesti anche mediante il deposito di un prospetto di calcolo alternativo, che riassumeva il contenuto della documentazione prodotta a sostegno dell’opposizione.

5.1. Il motivo è infondato.

In tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato che il creditore che agisca tanto per la risoluzione contrattuale quanto per il risarcimento del danno o per l’adempimento deve soltanto provare la fonte negoziale o legale del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre incombe al debitore l’onere di fornire la prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento (cfr. Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533; Cass., Sez. I, 3/07/2009, n. 15677; 26/01/2007, n. 1743); tale ripartizione dell’onere probatorio, che non subisce modificazioni nel caso in cui sia il debitore ad agire per l’accertamento negativo dell’inadempimento (cfr. Cass., Sez. III, 12/12/2014, n. 26158; Cass., Sez. VI, 4/10/2012, n. 16917), opera anche a fronte della deduzione dell’inesatto adempimento, e segnatamente dell’inesattezza consistente nel ritardo nell’adempimento, incombendo al creditore che intenda far valere il diritto al risarcimento soltanto l’onere di allegare la data di scadenza dell’obbligazione e quella successiva in cui ha avuto luogo l’adempimento, e spettando invece al debitore la prova di aver tempestivamente eseguito al prestazione (cfr. Cass., Sez. I, 24/05/2012, n. 8242; Cass., Sez. lav., 23/02/ 2004, n. 3579).

Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata ha ritenuto che il Comune avesse adempiuto l’onere di allegazione posto a suo carico attraverso la produzione di un prospetto delle somme dovute e l’indicazione dei criteri di calcolo, fondati sul riferimento alle autorizzazioni rilasciate ed alle comunicazioni dell’avvenuta ultimazione dei lavori trasmesse dalla ricorrente, la quale non avrebbe dovuto limitarsi a contestare i ritardi addebitati, ma, come affermato dalla Corte territoriale, avrebbe dovuto fornire la prova di aver riconsegnato le aree occupate nei termini fissati dalle autorizzazioni, ovvero di non avervi potuto provvedere per causa ad essa non imputabile.

6. Con il quinto motivo, la ricorrente deduce, in ulteriore subordine, la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 1384 c.c., rilevando che la Corte distrettuale ha rigettato la richiesta di riduzione delle penali, per difetto di allegazione e di prova dei fatti attestanti l’eccessività della stessa, senza prendere in considerazione gli elementi acquisiti agli atti, ed in particolare il prospetto di calcolo e la documentazione prodotta, da cui risultava l’erroneità dei calcoli effettuati dal Comune.

6.1. Il motivo è inammissibile.

Premesso che l’apprezzamento in ordine all’eccessività dell’importo concordato dalle parti contraenti a titolo di penale, per il caso d’inadempimento o di ritardo nell’adempimento, così come in ordine alla misura della riduzione equitativa dell’importo medesimo, è rimesso alla discrezionalità del giudice di merito, il cui esercizio è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizio di motivazione (cfr. Cass., Sez. II, 1/10/2018, n. 23750; 16/03/2007, n. 6158; 23/05/2002, n. 7528), si osserva che, nel censurare la predetta valutazione, la ricorrente si limita ad insistere sulla valenza probatoria degli elementi acquisiti agli atti, senza indicare le lacune argomentative o le carenze logiche del ragionamento seguito dalla Corte territoriale, in tal modo dimostrando di voler sollecitare un nuovo apprezzamento dei fatti, non consentito a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, nonchè la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, ai sensi dello art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. VI, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. V, 4/ 08/2017, n. 19547).

7. Con il settimo motivo, il cui esame risulta logicamente e giuridicamente prioritario rispetto a quello del sesto, la ricorrente denuncia, per il caso di rigetto delle precedenti censure, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1364 e 1371 c.c., osservando che nell’accertamento dei ritardi la sentenza impugnata ha fatto riferimento non già alla data di ultimazione dei lavori, come previsto dall’art. 26-bis Regolamento comunale, ma a quella della relativa comunicazione, conformemente alla sentenza di primo grado, che aveva però applicato erroneamente il Regolamento previgente. In quanto volto ad assicurare la disponibilità della strada per l’uso collettivo, l’art. 26-bis cit. prevedeva infatti l’applicazione della penale esclusivamente in caso di ritardo nell’ultimazione dei lavori, e non anche in caso di ritardo nella relativa comunicazione, in tal senso deponendo sia la lettera della clausola, sia la disciplina dalla stessa complessivamente dettata, non applicabile in via analogica, trattandosi di sanzione afflittivi; la predisposizione unilaterale della clausola da parte del Comune ne imponeva d’altronde l’interpretazione contra auctorem, mentre la natura onerosa del rapporto richiedeva che fosse assicurato un equo contemperamento degli interessi delle parti.

7.1. Il motivo è inammissibile, riflettendo una questione che non risulta trattata nella sentenza impugnata, e non può quindi trovare ingresso in sede di legittimità, implicando un’indagine di fatto, concernente il comune intento perseguito dalle parti attraverso il recepimento della norma regolamentare, e non essendo stato precisato se la questione sia stata sollevata nel precedente grado di giudizio (cfr. Cass., Sez. II, 9/08/2018, n. 20694; 22/04/2016, n. 8206; Cass., Sez. I, 13/06/2018, n. 15430).

La stessa ricorrente ammette d’altronde che, nel fare riferimento alla data di comunicazione dell’avvenuta ultimazione dei lavori, anzichè a quella in cui gli stessi sono stati effettivamente completati, la sentenza impugnata si è limitata a fare propria l’interpretazione della clausola contrattuale risultante dalla sentenza di primo grado; nel censurare tale interpretazione, essa riporta la motivazione di quest’ultima sentenza, nei confronti della quale rivolge le sue critiche, senza tuttavia precisare se le stesse abbiano costituito oggetto di uno specifico motivo di appello, in mancanza del quale dovrebbe ritenersi che sul punto si sia formato il giudicato interno.

8. Con il sesto motivo, la ricorrente lamenta, in via estremamente gra-data, la nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli artt. 112,167,345 e 346 c.p.c., sostenendo che, nell’accogliere la domanda riconvenzionale di condanna proposta dal Comune, la Corte distrettuale non ha tenuto conto dell’eccezione sollevata da essa ricorrente, secondo cui tale domanda era stata tardivamente avanzata, in quanto contenuta nella comparsa di risposta depositata successivamente alla scadenza del termine per la costituzione del convenuto.

8.1. Il motivo è fondato.

Il giudizio di opposizione all’ingiunzione emessa dalla Pubblica Amministrazione ai sensi del R.D. 14 aprile 1910, n. 639 costituisce infatti un ordinario giudizio di cognizione, avente ad oggetto l’accertamento negativo della pretesa fatta valere con il provvedimento impugnato, nel quale, a differenza di quanto accade nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’opponente riveste la qualità di attore in senso non soltanto formale, ma anche sostanziale, con la conseguenza che l’Amministrazione, in qualità di parte convenuta, è legittimata a proporre domande riconvenzionali riflettenti il medesimo importo in contestazione (cfr. Cass., Sez. III, 11/02 /2009, n. 3341; Cass., Sez. V, 13/10/2006, n. 22027; Cass., Sez. I, 19/01/ 2006, n. 1054). Tali domande vanno tuttavia proposte nelle forme e nei termini previsti dagli artt. 166 e 167 c.p.c., e segnatamente mediante la comparsa di risposta da depositarsi almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione: l’inosservanza di detto termine, pur non facendo venir meno il dovere del Giudice di merito di esaminare la domanda di accertamento negativo del credito fatto valere con l’ingiunzione, comportava nella specie l’inammissibilità della riconvenzionale, con la conseguente esclusione della possibilità di pronunciare la condanna dell’opponente al pagamento della somma dovuta.

9. La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dall’accoglimento del sesto motivo d’impugnazione, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., con la dichiarazione d’inammissibilità della domanda riconvenzionale proposta dal Comune di Roma.

L’esito complessivo del giudizio giustifica la dichiarazione d’integrale compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta i primi quattro motivi di ricorso; dichiara inammissibili il quinto ed il settimo motivo; accoglie il sesto motivo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e, decidendo nel merito, dichiara inammissibile la domanda riconvenzionale proposta dal Comune di Roma. Compensa integralmente le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 15 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2019

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