Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25836 del 14/10/2019

Cassazione civile sez. II, 14/10/2019, (ud. 19/06/2019, dep. 14/10/2019), n.25836

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22247-2017 proposto da:

S.T., G.V., V.N., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA POMPEO MAGNO 2 B, presso lo studio

dell’avvocato GIUSEPPE PICONE, rappresentati e difesi dall’avvocato

ORLANDO MARIO CANDIANO;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il

06/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/06/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

Mistri Corrado, il quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato Candiano.

Fatto

FATTI DI CAUSA

S.T., G.V. e V.N. hanno proposto ricorso articolato in cinque motivi avverso il decreto della Corte di appello di Lecce del 6 marzo 2017, corretto con decreto del 23 giugno 2017, che, respingendo l’opposizione proposta avverso il decreto pronunciato dal giudice designato, ha negato loro il diritto all’equo indennizzo per la eccessiva durata del processo iniziato presso il Tribunale di Taranto il 27 febbraio 2002 e conclusosi il 17 dicembre 2015 con ordinanza di estinzione.

L’intimato Ministero della Giustizia si difende con controricorso. I ricorrenti hanno presentato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

La Corte di Lecce, con il decreto del 6 marzo 2017, corretto con decreto del 23 giugno 2017, ha ritenuto che, ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 1, comma 2 sexies, lett. c il pregiudizio da irragionevole durata dovesse presumersi inesistente, stante l’avvenuta estinzione del processo, ciò manifestando il disinteresse delle parti all’andamento della causa. Ad avviso della Corte di Lecce, la norma richiamata, seppur introdotta con la L. n. 208 del 2015, e dunque in epoca successiva alla definizione del giudizio presupposto, trova applicazione per tutte le domande di equa riparazione proposte dopo la data di entrata in vigore della stessa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 11 e 12 preleggi, in quanto la Corte d’Appello, con motivazione chiaramente illogica, avrebbe dapprima dato atto della irretroattività della L. n. 208 del 2015 e della mancanza di una norma transitoria, per poi disporne l’immediata applicazione anche ai giudizi conclusi prima della sua entrata in vigore con il fine di “un immediato risparmio di costi”.

Con il secondo motivo, i ricorrenti censurano il provvedimento impugnato per “illogica motivazione”, nonchè per violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., avendo la Corte d’Appello ritenuto sussistente il disinteresse delle parti all’andamento del processo nonostante le stesse avessero sempre coltivato il giudizio per tredici anni e prodotto in giudizio i documenti attestanti le varie attività processuali poste in essere fino al momento della transazione intervenuta tra i contendenti.

Con il terzo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., art. 2697 c.c. e art. 2727 c.c. e ss., per avere la Corte di appello ritenuto non superata la presunzione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 sexies, per mezzo della deduzione di “ansie ed incertezza vissute durante il processo presupposto”, nonostante fosse stato da loro comprovato che lo stesso avesse avuto una durata di tredici anni.

Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 12 preleggi laddove la Corte d’Appello ha interpretato l’art. 2, comma 2 sexies citato nel senso che, se l’estinzione del processo avviene per rinuncia o inattività, ciò determinerebbe sempre la presunzione dell’insussistenza del pregiudizio, senza, dunque, considerare che l’inciso “salvo prova contraria”, contenuto nella norma in oggetto, dovrebbe comprendere anche la prova presuntiva di danno derivante dall’eccessiva durata del processo; prova che, nel caso di specie, sarebbe offerta dagli atti di causa comprovanti il superamento di dieci anni della durata ragionevole.

Con il quinto motivo i ricorrenti censurano il provvedimento impugnato per violazione dell’art. 6 CEDU, nonchè per “incostituzionalità della L. n. 89 del 2001, art. 2 sexies, lett. c) per violazione degli artt. 3,111 e 117 Cost.”. Ritenendo la norma applicabile anche ai casi in cui l’estinzione avviene dopo il superamento del termine di durata irragionevole, si contravverrebbe a quanto stabilito dalla giurisprudenza della CEDU in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea, richiamata dalla stessa Carta Costituzionale, e cioè che, ai fini dell’indennizzo, conterebbe solo il superamento incolpevole della durata ragionevole.

Non va accolta l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dal controricorrente “per assoluta carenza di autosufficienza e radicale impossibilità di ricostruire la vicenda processuale in questione”.

L’esposizione sommaria dei fatti di causa, prevista all’art. 366 c.p.c., n. 3 suppone la narrazione dei fatti sostanziali oggetto della controversia e di quelli processuali relativi al giudizio di primo e di secondo grado, che nella specie il ricorso contiene, consentendo la comprensione delle censure proposte in sede di legittimità. L’osservanza del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non può, poi, che riferirsi ai soli motivi di ricorso che concernono la valutazione da parte del giudice di merito di atti processuali o di documenti. Nella specie, le censure proposte dai ricorrenti attengono tutti a violazione di norme di diritto ed indicano comunque in maniera adeguata la situazione di fatto della quale chiedono una valutazione giuridica diversa da quella compiuta dal giudice “a quo”, asseritamente erronea.

Il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso, da esaminare congiuntamente, in quanto connessi, risultano fondati, con conseguente assorbimento del primo e del quinto motivo.

La Corte di Lecce, stando alla versione originaria del decreto del 6 marzo 2017, ha ritenuto insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo patito da S.T., G.V. e V.N. per il giudizio civile pendente davanti al Tribunale di Taranto dal 27 febbraio 2002, dichiarato estinto con ordinanza del 17 dicembre 2015, essendo i ricorrenti rimasti contumaci, e così dimostrando disinteresse per il processo, sulla scorta della presunzione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, nel testo introdotto dalla L. n. 208 del 2015. La Corte di Lecce ha escluso che potesse vincere la presunzione la deduzione di “ansie ed incertezze vissute durante il biblico processo protrattosi per tredici lunghi anni”.

Nella versione corretta del decreto della Corte d’Appello di Lecce, conseguente al provvedimento del 23 giugno 2017, si sono sostituiti, in quanto errati, tutti i riferimenti alla contumacia delle parti con il riferimento all’estinzione del processo, verificatasi nella specie.

E’ indubbio che l’accertamento della sussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo costituisce apprezzamento di fatto spettante al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformato dal D.L. n. 83 del 2012, o altrimenti nei casi di “mancanza assoluta di motivi”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).

Nel decreto impugnato, la Corte d’Appello ha quindi derivato il proprio convincimento di insussistenza del danno per disinteresse della parte a coltivare il processo in via esclusiva dalla dichiarazione di estinzione dello stesso. Si tratta di deduzione la cui correttezza, nella disciplina antecedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, era stata effettivamente più volte smentita da questa Corte, essendosi affermato che la dichiarazione di estinzione del giudizio per rinuncia o inattività delle parti non esclude automaticamente la sussistenza del danno non patrimoniale in quanto, diversamente, verrebbe attribuita rilevanza ad una circostanza sopravvenuta, quale l’estinzione, sorta successivamente al superamento del limite di durata ragionevole del processo. Piuttosto, l’esistenza di un danno non patrimoniale per violazione del termine ragionevole di durata del processo – la cui prova si intende di regola insita nello stesso accertamento della violazione – può essere esclusa in presenza di circostanze particolari che facciano positivamente ritenere che tale danno non sia stato subito dal ricorrente, come avviene, ad esempio, nelle ipotesi in cui il giudizio presupposto – conclusosi con l’estinzione per inattività delle parti o per rinuncia – si sia protratto dopo la definizione stragiudiziale della lite, con conseguente carenza di interesse delle parti alla celere definizione di quello (cfr. indicativamente Cass. Sez. 6 – 2, 19/09/2016, n. 18333; Cass. Sez. 6 – 1, 23/06/2011, n. 13742; Cass. Sez. 1, 13/04/2006, n. 8716; Cass. Sez. 1, 11/03/2005, n. 5398). L’estinzione del processo presupposto rappresenterebbe, così, indizio su cui fondare l’inconfigurabilità di un pregiudizio morale delle parti correlato all’incertezza ed alla connessa sofferenza per l’attesa della definizione della lite, ove la stessa sia espressiva dell’inerzia assoluta dei contendenti, mantenuta sin dall’iniziale pendenza della domanda, di tal che il protrarsi del procedimento non sia percepito dagli stessi come idoneo a produrre conseguenze sfavorevoli.

Questa Corte ha, del resto, costantemente affermato pure che, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 già nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dapprima dalla L. n. 134 del 2012 e poi dalla L. n. 208 del 2015, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ma non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: sicchè, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata L. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale, a meno che non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dall’interessato (cfr. ad esempio, Cass. Sez. 1, 26/09/2008, n. 24269; Cass. Sez. 1, 16/12/2010, n. 25519).

Si rivela decisiva, nel ragionamento adottato nel decreto impugnato, l’incidenza dell’applicabilità della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. c, nel testo introdotto dalla L. n. 208 del 2015, il quale dispone che si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo, salvo prova contraria, nel caso di: “(…) estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti ai sensi degli artt. 306 e 307 c.p.c.”.

Al riguardo, peraltro, questa Corte ha messo in evidenza come la L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 777, non contemplasse, per le modifiche introdotte dalla sua lett. d, ovvero appunto per l’art. 2-sexies, alcun regime transitorio, come invece stabilito dalla lett. m), intervenendo sulla L. n. 89 del 2001, art. 6 (cfr. in tal senso Cass., Sez. 6 -2, 26/01/2017, n. 2026).

La norma in esame è dunque entrata in vigore il 1 gennaio 2016 (L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 999).

Secondo consolidati principi giurisprudenziali (a far tempo quanto meno da Cass. Sez. U, 12/12/1967, n. 2926) il principio dell’irretroattività della legge comporta che la legge nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita, se in tal modo si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future di esso. Lo stesso principio implica, invece, che la legge nuova possa essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorchè conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi completamente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore.

La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. c), ha inciso, in particolare, sulla disciplina del riparto dell’onere della prova, con riferimento al presupposto per la sussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, nel senso di contemplare una presunzione iuris tantum di disinteresse della parte a coltivare il giudizio in caso di estinzione verificatasi ai sensi degli artt. 306 e 307 c.p.c. E’ stata così posta, in favore dell’Amministrazione, in vista della statuizione giudiziale, una più favorevole presunzione legale relativa rispetto al quadro legislativo previgente, che non può trovare applicazione unicamente nei processi di equa riparazione già iniziati al momento dell’entrata in vigore della nuova regolamentazione.

Le presunzioni iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, introdotte dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, sono, invero, idonee ad influire sul diritto della parte a dimostrare l’effettività del patema d’animo da riparare. L’applicazione di tali disposizioni a domande di equa riparazione proposte prima del 1 gennaio 2016, e cioè prima dell’entrata in vigore della L. n. 208 del 2015, avrebbe ripercussioni in ordine al regime delle prove richieste nel procedimento di cui alla L. n. 89 del 2001, destando sospetti di irrazionalità e di illegittimità costituzionale sotto il profilo del principio di difesa ex art. 24 Cost. Si osserva in dottrina come ogni disposizione legislativa sopravvenuta, che introduca nuovi oneri probatori, oppure ripartisca diversamente tali oneri tra le parti del rapporto sostanziale, non può operare nell’ambito dei processi in corso, in quanto chiama l’uno o l’altro dei contendenti ad addurre prove che questi in origine non era tenuto a fornire, ponendosi altrimenti a repentaglio la garanzia costituzionale del diritto di difesa, la quale implica anche la garanzia di poter fornire la prova e di “difendersi provando”. L’illegittimità dell’applicazione retroattiva dalla norma che introduca una presunzione discende, in definitiva, dalla considerazione dall’effetto sorpresa determinato dalla necessità di fornire prove che, al momento del promovimento della lite, non costituivano oggetto dell’onere della parte.

Contenendo la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. c), introdotto dalla L. n. 208 del 2015, una presunzione iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, esso pone, dunque, una nuova disciplina della formazione e della valutazione della prova nel processo. In assenza di norme che diversamente dispongano, e perciò proprio in forza dell’art. 11 preleggi, la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. c), senza che rilevi la natura sostanziale o processuale della disposizione, dando luogo a ius superveniens operante sugli effetti della domanda e implicante un mutamento dei presupposti legali cui è condizionata la disciplina di ogni singolo caso concreto, non può che trovare applicazione avendo riguardo al momento della proposizione della domanda di equa riparazione (e, quindi, anche nella fattispecie in esame, essendo stata la domanda presentata dopo il 1 gennaio 2016).

Deve escludersi la fondatezza della questione di costituzionalità della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. c), come prospettata dai ricorrenti, in rapporto agli artt. 3,24,111 e 117 Cost., nonchè all’art. 6 CEDU. Trattasi di norma che, incidendo unicamente sulla disciplina del riparto dell’onere della prova, con riferimento al presupposto per la sussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, non impedisce nè condiziona la proponibilità della domanda di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo presupposto, non costituisce un rimedio preventivo privo di concreta efficacia acceleratoria e non lede l’interesse delle parti a veder definite in un tempo ragionevole le rispettive istanze di giustizia (cfr. Corte Cost. 26 aprile 2018, n. 88; Corte Europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia; Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza 22 febbraio 2016, Olivieri e altri c. Italia).

Peraltro, proprio perchè la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, introdotto dalla L. n. 208 del 2015, contempla un elenco di presunzioni iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, le ipotesi considerate costituiscono prova “completa”, alla quale il giudice di merito può legittimamente ricorrere, anche in via esclusiva, salvo pur sempre il limite della motivazione del proprio convincimento, nonchè quello dell’esame degli eventuali elementi indiziari contrari al fatto ignoto dell’inesistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, che si pretende legislativamente di desumere tramite l’allestita presunzione. L’accertamento dell’esistenza, sufficienza e rilevanza della prova contraria, che consenta il superamento delle presunzioni di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, di cui all’art. 2, comma 2-sexies, implica una tipica indagine di fatto, istituzionalmente attribuita dalla legge al giudice di merito, ma pur sempre sindacabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Nel caso in esame, affermata l’applicabilità ratione temporis della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. c), deve evidenziarsi come l’impugnato decreto si regga su una “motivazione apparente”. La Corte d’Appello ha ritenuto l’insussistenza del danno per disinteresse delle parti a coltivare il processo, fondando tale conclusione sulla dichiarazione di estinzione dello stesso. I ricorrenti hanno allora allegato e documentato che gli stessi avevano svolto attività processuale nella fase del giudizio presupposto antecedente alla declaratoria di estinzione, fase di per sè in astratto idonea al superamento del limite di durata ragionevole. Tali allegazioni erano state svolte per contrastare comunque la inferenza presuntiva che il comportamento delle parti del giudizio presupposto conclusosi con l’estinzione deponesse per il difetto di interesse alla celere definizione di quello.

Al riguardo, la Corte di Appello di Lecce si è limitata ad affermare che la deduzione di “ansie ed incertezze vissute durante il biblico processo protrattosi per tredici lunghi anni” non potesse vincere l’adoperata presunzione. I giudici dell’opposizione, invece, avrebbero dovuto rendere percepibili le ragioni della decisione, spiegando, con argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del loro convincimento, perchè tali fatti non si rivelassero comunque idonei a superare l’assunto presuntivo del pregiudizio per l’irragionevole protrarsi della controversia. Vanno quindi accolti, nei termini di cui in motivazione, il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso, con conseguente assorbimento del primo e del quinto motivo; il decreto impugnato deve essere cassato e la causa va rinviata, per nuovo esame, alla Corte d’Appello di Lecce in diversa composizione, che terrà conto dei rilievi svolti e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso, dichiara assorbiti il primo ed il quinto motivo, cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte d’Appello di Lecce in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte suprema di cassazione, il 19 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2019

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA