Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25832 del 31/10/2017


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Cassazione civile, sez. III, 31/10/2017, (ud. 27/06/2017, dep.31/10/2017),  n. 25832

Fatto

RITENUTO

La Corte d’appello, accogliendo l’appello incidentale e rigettando l’appello principale, ha riformato la sentenza di primo grado nella parte in cui riconosceva alla FCF s.a.s. il diritto al risarcimento del danno da inadempimento relativo a una fornitura di depuratori di acque reflue, quantificandolo in misura pari ai ricavi accertati dal c.t.u. rapportati ad un fermo tecnico di venti giorni.

Sul punto, la Corte d’appello ha affermato che i ricavi, essendo al lordo dei costi, non corrispondono al mancato guadagno; che il c.t.u. non è riuscito a scorporare le singole voci di bilancio, sì da quantificare attendibilmente il lamentato danno; che, in difetto di prova circa il quantum debeatur, la domanda risarcitoria deve essere rigettata.

Diritto

CONSIDERATO

Nell’ambito di un unico motivo, la ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto decisivo, consistente nel fermo dell’attività industriale di lavanderia per quattro settimane conseguente al malfunzionamento dell’impianto di depurazione; fatto accertato dalla sentenza di primo grado in esito all’istruttoria compiuta. Pertanto, coordinando la durata di tale interruzione con una tabella elaborata dalla stessa FCF s.a.s. (sulla base delle risultanze della dichiarazione dei redditi), risulterebbe provata una contrazione dei ricavi di Euro 87.785,00. In particolare, per la quantificazione dei danni si sarebbe dovuto applicare il coefficiente di 27,14 Euro/mc che indica il rapporto fra il volume complessivo dei ricavi e il volume complessivo degli scarichi prodotti; ovvero dividere il valore della produzione netta per il volume complessivo degli scarichi.

Inoltre, il giudice di appello avrebbe omesso di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria, non generica ma specifica, comprensiva secondo la testuale formulazione originaria – “dei danni tutti, subiti e subendi” e quindi certamente comprensiva anche del danno sopportato a causa del fermo dell’attività industriale.

Il motivo è infondato.

La corte d’appello, infatti, non ha omesso l’esame degli elementi indicati dalla società ricorrente, bensì li ha ritenuti inconducenti ai fini della quantificazione del preteso danno: i criteri prospettati dalla FCF s.a.s. non consentirebbero – a parere della corte di merito di individuare il lucro cessante conseguente al fermo dell’attività industriale, in quanto hanno come parametro di riferimento i ricavi lordi e non il reddito netto.

Dunque non vi è un fatto che la corte d’appello abbia omesso di valutare, ma unicamente una risultanza a cui è stato attribuito un diverso valore, non sufficiente a far ritenere fondata la richiesta di risarcimento del danno.

Pertanto, le censure esposte in ricorso si risolvono, in sostanza, nella contestazione del percorso argomentativo della sentenza impugnata, ossia nella deduzione di un vizio di motivazione, non più previsto fra i motivi di ricorso, a seguito della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile alle sentenze pubblicate in data successiva all’11 settembre 2012.

D’altro canto, la liquidazione del danno patrimoniale da mancato guadagno, non potendo comprendere guadagni meramente ipotetici perchè dipendenti da condizioni incerte, richiede un rigoroso giudizio di probabilità e non di mera possibilità (Sez. 3, Sentenza n. 24632 del 03/12/2015, Rv. 637952).

Quanto alla questione della specificità della domanda risarcitoria, è sufficiente osservare che la stessa deve descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali si chiede il ristoro, senza limitarsi a formule generiche, come la richiesta di risarcimento dei “danni subiti e subendi”, perchè una simile domanda, qualora non sia nulla ex art. 164 c.p.c., comunque non obbliga il giudice a provvedere sul risarcimento di danni che siano concretamente descritti solo in corso di causa e deve quindi considerarsi tamquam non esset (Sez. 3, Sentenza n. 13328 del 30/06/2015, Rv. 636016).

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, nella misura indicata nel dispositivo.

Sussistono, altresì, i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,comma 17, sicchè va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).

PQM

rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2017

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