Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2583 del 04/02/2010

Cassazione civile sez. trib., 04/02/2010, (ud. 28/09/2009, dep. 04/02/2010), n.2583

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere –

Dott. MELONCELLI Achille – rel. Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso rgn 23136/2005, proposto da:

Comune di Pordenone, di seguito “Comune”, in persona del vice sindaco

in carica, signor P.E., rappresentato e difeso dagli avv.

Annechini Egidio e De Martini Corrado, presso il quale è

elettivamente domiciliato in Via F. Siacci 2B, Roma;

– ricorrente –

contro

il signor F.B., di seguito anche “Contribuente”,

(OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale (CTR) di

Trieste 21 aprile 2004, n. 15/12/04, depositata il 16 giugno 2004;

udita la relazione sulla causa svolta nell’udienza pubblica del 28

settembre 2009 dal Cons. Achille Meloncelli;

udito l’avv. Corrado De Martini per il Comune;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

Fedeli Massimo, che ha concluso per il rinvio a nuovo ruolo in attesa

della decisione delle Sezioni unite e, in subordine, per il rigetto

del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Gli atti introduttivi del giudizio di legittimità 1.1.1. Il 16 settembre 2005 è notificato al signor F.B. un ricorso del Comune, integrato con memoria, per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe, che ha respinto l’appello del Comune contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale (CTP) di Pordenone n. 389/01/2001, che aveva accolto il ricorso del Contribuente contro la cartella di pagamento n. (OMISSIS) di L. 332.880 del tributo per il servizio di fognatura e depurazione per il (OMISSIS).

1.1.2. Il ricorso per cassazione del Comune, è sostenuto con tre motivi d’impugnazione e si conclude con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni conseguente statuizione, anche in ordine alle spese processuali.

1.2. L’intimato non si costituisce in giudizio.

2. I fatti di causa.

I fatti di causa sono i seguenti:

a) il Comune notifica al Contribuente la cartella di pagamento descritta nel p. 1.1.1;

b) il ricorso del Contribuente è accolto dalla CTP di Pordenone;

c) l’appello del Comune è, poi, respinto dalla CTR con la sentenza ora impugnata per cassazione.

3. La motivazione della sentenza impugnata.

La sentenza della CTR, oggetto del ricorso per cassazione, è così motivata:

a) quanto al denunciato errore materiale, in cui sarebbe incorsa la CTP, che avrebbe annullato il sollecito di pagamento, anzichè quello della impugnata cartella di pagamento, la CTR ritiene che, pur essendo esatto che la sentenza di primo grado contenga un errore materiale, “quando non venga notificato il titolo della pretesa …

il contribuente può ricorrere contro il successivo atto di esazione …”. Nel caso specifico correttamente il Contribuente “ha proposto la sua opposizione avverso l’atto di esazione, deducendo in questa sede la sua contestazione al debito d’imposta…”;

b) nel merito il ricorso del ricorrente è fondato, perchè, in mancanza di qualsiasi contestazione da parte del Comune, si deve “tenere per pacifico in causa che la particolare collocazione del fondo sul quale insiste il fabbricato adibito dal ricorrente non gli consenta di allacciarsi alla conduttura fognaria e di godere del relativo servizio”.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. Il primo motivo d’impugnazione.

4.1. La censura proposta con il primo motivo d’impugnazione.

4.1.1. La rubrica del primo motivo d’impugnazione.

Il primo motivo d’impugnazione è preannunciato dalla seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, della L. n. 319 del 1976, art. 17 e delle norme sull’accertamento previste dal R.D. n. 175 del 1931. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia”.

4.1.2. La motivazione addotta a sostegno del primo motivo d’impugnazione.

Il Comune sostiene che “il giudice di secondo grado … ha preso in esame ambedue gli atti inviati dalla pubblica amministrazione al debitore d’imposta, affermando che, con riferimento al primo, era dubbia la sua qualità di atto impositivo e non sussisteva la prova della sua notificazione al contribuente, e che, con riferimento al secondo, sicuramente comunicato al contribuente, non poteva essere condivisa l’opinione dell’ente pubblico sulla sua natura di atto impositivo”. Allo scopo di dimostrare la fallacia del ragionamento della CTR, il Comune trascrive le parti principali dei due atti con i quali si è chiesto, il 24 dicembre 1998 e il 10 settembre 1999, al signor F. il pagamento del tributo. Si sottolinea, in particolare, che, oltre ai dati identificativi della pretesa (qualità del contenuto del tributo, soggetti, attivo e passivo, oggetto e qualità e quantità del contenuto del tributo), indicati in entrambi gli atti impositivi, nel secondo di essi, “sicuramente notificato al contribuente”, sarebbe specificato che “Per il contenzioso si applicano le disposizioni del titolo 2^ del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546”. Se ne deduce che “a questo punto appare evidente la mancanza di motivazione del giudice di secondo grado per quanto riguarda l’atto del 29 dicembre 1998 e l’errore dello stesso giudice che ha qualificato l’atto del 10 settembre 1999 come atto espressamente finalizzato a sollecitare il pagamento spontaneo di quanto si dice essere stato già richiesto con l’invito al pagamento del 29 dicembre 1998. Nella sentenza si afferma poi che l’atto del 10 dicembre 1998 non avrebbe la struttura dell’avviso di accertamento, giacchè manca dell’indicazione del termine in cui l’atto può essere impugnato e della commissione tributaria competente. E’ invece evidente che l’atto faceva un chiaro riferimento per quanto riguarda il contenzioso al D.Lgs. n. 546 del 1992. Ambedue gli atti, e segnatamente l’atto del 10 settembre 1999, regolarmente trasmesso al contribuente, così come accertato dalla sentenza di secondo grado, debbono essere qualificati come atti di accertamento previsti dal testo unico del 1931 e della L. n. 319 del 1976, art. 17, che devono precedere l’iscrizione a ruolo del tributo, e non come bonari inviti al pagamento che, come tali, non sarebbero impugnabili. Infatti è evidente che viene indicata in maniera precisa ed esaustiva la misura del tributo dovuto …, che l’amministrazione … ha espressamente qualificato il contribuente come debitore di imposta avvertendolo che per il contenzioso si applicavano le disposizioni del D.Lgs. n. 546 del 1992”. Poichè “l’errata indicazione dell’organo giurisdizionale davanti al quale va proposta l’eventuale impugnativa non incide sulla validità dell’atto proposto … e la mancata indicazione nell’avviso di accertamento del termine per ricorrere e/o del giudice tributario competente non è previsto a pena di nullità dal D.Lgs. n. 546, art. 19”, verrebbe “confermata la fallacia delle argomentazioni del giudice di secondo grado sulla natura degli atti del 29 dicembre 1998 e del 10 settembre 1999”.

4.1.3.La norma di diritto indicata dal ricorrente.

La norma di diritto sulla quale si basa il suo motivo d’impugnazione invocata è indicata dal Comune in quella, secondo la quale “l’obbligo dell’autorità tributaria di munire il suo atto amministrativo d’imposizione tributaria della clausola d’impugnazione è soddisfatto con la formula secondo la quale ‘per il contenzioso si applicano le disposizioni del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546”.

4.2. La valutazione della Corte del primo motivo d’impugnazione.

La norma giuridica, indicata dal ricorrente come fondante il suo primo motivo d’impugnazione, è inesistente.

Infatti, la norma vigente nel 1995, anno del tributo controverso, era quella che si desumeva dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, comma 4, secondo cui “In ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere” e che è norma generale tuttora vigente nel diritto amministrativo generale.

Successivamente è stata adottata una norma speciale per gli atti amministrativi d’imposizione tributaria, contenuta nell’art. 7, comma 2, secondo la quale “Gli atti dell’amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare: a) l’ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito all’atto notificato o comunicato e il responsabile del procedimento; b) l’organo o l’autorità amministrativa presso i quali è possibile promuovere un riesame anche nel merito dell’atto in sede di autotutela; c) le modalità, il termine, l’organo giurisdizionale o l’autorità amministrativa cui è possibile ricorrere in caso di atti impugnabili”. Ma già in precedenza, e, quindi, anche nel 1995, era sufficiente la norma generale del 1990 per ritenere che ogni provvedimento amministrativo tributario dovesse essere accompagnato dalla clausola minima d’impugnazione, cioè quella che consiste soltanto nella dichiarazione di conoscenza relativa all’autorità cui presentare il ricorso e alla modalità temporale del ricorso (termine per ricorrere), e non dalla clausola massima d’impugnazione, che si arricchisce anche della clausola informativa (L. 27 luglio 2000, 212, art. 7, comma 2, lett. a)) e della clausola di autotutela (L. 27 luglio 2000, 212, art. 7, comma 2, lett. b)), che sono state rese obbligatorie, solo per gli atti d’imposizione tributaria, dieci anni dopo.

La clausola d’impugnazione minima, obbligatoria, dunque, già nel 1995, è una dichiarazione di conoscenza, accessoria rispetto alla dichiarazione principale dell’atto amministrativo d’imposizione tributaria, che si articola in due subdichiarazioni, parimenti di conoscenza, le quali hanno per oggetto l’autorità destinataria dell’eventuale ricorso e il termine per ricorrere, ma non certo per oggetto nè una disposizione normativa nè, tanto meno, come pretenderebbe il Comune, un intero atto normativo, qual è il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che contiene l’intero codice processuale tributario.

In sostanza, in attuazione del principio costituzionale di socialità dello Stato, in forza del quale l’amministrazione pubblica e, quindi, anche l’amministrazione tributaria e anche l’amministrazione tributaria comunale, è un’aiutante del cittadino, in generale, e del contribuente, in particolare, e, nell’adozione dei suoi atti autoritativi, agevola l’eventuale esercizio del suo diritto di difesa, informandolo, attraverso l’inserimento della clausola d’impugnazione nello stesso documento che incorpora il suo atto impugnabile, dei dati minimi necessari per la proposizione del ricorso.

Tale obbligo, che può esser visto anche come un’anticipata manifestazione del principio, successivamente previsto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 1, di leale collaborazione con il contribuente dell’amministrazione tributaria, la quale, essendo sicuramente dotata di maggiori conoscenze, le deve in parte anche al contribuente, perchè sia semplificata la gestione del rapporto giuridico tributario (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6). Queste finalità non sarebbero affatto conseguite, se la catena dei principi costituzionali dello Stato di diritto (diritto di difesa del contribuente) e dello Stato sociale (informazione amministrativa a favore del contribuente, generalmente incapace, di fatto, di accedere alle fonti normative) e dei principi attuativi della legislazione primaria (leale collaborazione, informazione e semplificazione), fosse spezzata da un comportamento, qual è quello realizzato nel caso in esame, consistente nella menzione di un intero atto normativo in luogo della trasmissione delle specifiche conoscenze da condensare nella clausola d’impugnazione.

In conclusione, il primo motivo d’impugnazione è infondato e dev’essere, quindi, rigettato.

5. Il secondo motivo d’impugnazione.

5.1. La censura proposta con il secondo motivo d’impugnazione.

5.1.1. La rubrica del secondo motivo d’impugnazione.

Il secondo motivo d’impugnazione, proposto subordinatamente al rigetto del primo motivo, è preannunciato dalla seguente rubrica:

“Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.. Violazione e falsa applicazione del principio sull’onere della prova”.

5.1.2. La motivazione addotta a sostegno del secondo motivo d’impugnazione.

Il Comune sostiene che la sentenza d’appello si baserebbe sulle affermazioni del contribuente, del cui ricorso introduttivo si riporta testualmente la parte rilevante per la censura, secondo le quali si confesserebbero due fatti, l’ubicazione dell’abitazione del contribuente e la collocazione della fognatura nella stessa via, ma si sosterrebbe che l’accesso alla fognatura sarebbe impedito dall’esistenza di fondi altrui. Secondo il Comune dovrebbe essere il contribuente “a dover provare l’intera reclusione del proprio fondo e che il silenzio della difesa del comune su tale punto non può essere considerato come una relevatio ab onere probandi”.

5.1.3. La norma di diritto indicata dal ricorrente.

La norma di diritto invocata dal Comune è indicata nell’art. 2697 c.c., comma 1, secondo cui “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

5.2. La valutazione della Corte del secondo motivo d’impugnazione.

E’ stato accertato dal giudice d’appello, ed è riconosciuto dallo stesso Comune nel suo ricorso per cassazione, che il fatto che il contribuente non si sia potuto allacciare alla fognatura nel (OMISSIS), che costituirebbe il fondamento della sua pretesa di non pagare il tributo di fognatura, è stato affermato nel giudizio di merito dal contribuente, senza il Comune l’abbia mai contestato. Il giudice d’appello ha, quindi ritenuto che sia stata provata l’impossibilità dell’allaccio del contribuente alla fognatura.

Per valutare la legittimità della decisione della CTR, si deve tener presente che, in base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte (secondo la visione di sistema esposta nella sentenza di questa Sezione 24 gennaio 2007, n. 1540), vige anche nel processo tributario – avente carattere dispositivo e dotato di una struttura dialettica a catena, così da essere organizzato per preclusioni successive, realizzati ve dell’economia processuale conforme al principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost. – il principio di non contestazione, che impone a tutte le parti, gravate del dovere di lealtà e probità processuale, l’onere di contestazione tempestiva, con il relativo corollario della non necessità di prova riguardo ai fatti non tempestivamente contestati e, a maggior ragione, riguardo ai fatti mai contestati (per precedenti giurisprudenziali, v.

sentenze: 18 gennaio 2006, n. 915; 2 settembre 2004, n. 17792; 22 maggio 2003, n. 8108).

Applicando tale principio alla presente causa, è agevole dedurre che la CTR ha individuato esattamente la norma giuridica, sotto la quale ha, poi, correttamente operato la sussunzione del caso di specie ultima controverso: “E’ provato il fatto, addotto dalla parte come costitutivo della sua pretesa, che non sia tempestivamente contestato dall’altra parte”. Ne deriva, in definitiva, che è privo di fondamento il secondo motivo d’impugnazione.

6. Il terzo motivo d’impugnazione 6.1. La censura proposta con il terzo motivo d’impugnazione.

6.1.1. La rubrica del terzo motivo d’impugnazione.

Il terzo motivo d’impugnazione, proposto anch’esso in via subordinata, è preannunciato dalla seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione della L. 5 gennaio 1994, n. 36 e in particolare violazione della L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, violazione della L. n. 319 del 1976, artt. 16 e 17”.

6.1.2. La motivazione addotta a sostegno del terzo motivo d’impugnazione.

Il Comune sostiene che il sistema normativo esistente prevedrebbe “l’obbligo di pagamento del tributo anche se non si sia allacciati alla fognatura, anche nel caso che la fognatura non esiste oppure che l’allacciamento non sia possibile. L’affermazione della sentenza di secondo grado secondo la quale l’obbligo di corrispondere il canone grava solo su coloro che abbiano la possibilità, anche se solo teorica, di allacciarsi alla conduttura e al depuratore comunale non è corretta, giacchè l’obbligo esiste anche se manchi detta possibilità”.

6.1.3. La norma di diritto indicata dal ricorrente.

Il Comune indica la norma, di cui invoca l’applicazione, come quella secondo cui “è obbligato al pagamento del canone di fognatura anche colui che non possa allacciarsi alla fognatura e anche se la fognatura non esiste” (pagina 17, righe 11-18).

6.2. La valutazione della Corte del terzo motivo d’impugnazione. Al riguardo si deve sottolineare che il punto nodale, ed in larga misura decisivo, ai fini della risoluzione delle questioni controverse, è costituito dall’individuazione della disciplina applicabile ratione temporis all’annualità in discussione (1994). E’, pertanto, necessario tracciare il quadro normativo di riferimento, che risulta dalla successione di numerosi interventi legislativi:

a) la L. 10 maggio 1976, n. 319, stabilì che per i servizi relativi alla raccolta, all’allontanamento, alla depurazione e allo scarico delle acque di rifiuto provenienti da superfici ed edifici privati e pubblici è dovuto il pagamento di un canone o diritto secondo apposita tariffa, formata dalla somma di due parti, corrispondenti rispettivamente al servizio di fognatura ed a quello di depurazione (art. 16, commi 1 e 2) e che “La parte relativa al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti del servizio di fognatura quando nel comune sia in funzione l’impianto di depurazione centralizzato anche se lo stesso non provveda alla depurazione di tutte le acque provenienti da insediamenti civili” (art. 17, comma 3, in vigore dal 18/03/1995 al 31/12/1998, nel testo modificato dal D.L. 17 marzo 1995, n. 79, art. 2);

b) il D.L. 28 febbraio 1981, n. 38, art. 3, conv. in L. 23 aprile 1981, n. 153, aggiungendo la L. 10 maggio 1976, n. 319, art. 17-ter, stabilì che l’accertamento del canone in questione doveva essere effettuato in base alle disposizioni del testo unico della finanza locale (R.D. 14 settembre 1931, n. 1175) e la sua riscossione secondo le disposizioni del R.D. 14 aprile 1910, n. 639 in tema di entrate patrimoniali dello Stato, mentre per il relativo contenzioso dichiarò applicabili le norme di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 638, art. 20;

c) la L. 5 gennaio 1994, n. 36, introdusse il servizio idrico integrato – comprensivo, oltre che della raccolta e depurazione, anche della fornitura delle acque (art. 4, comma 1, lett. f) – qualificando la tariffa come corrispettivo del servizio (art. 13), pur stabilendo che “La quota di tariffa riferita al servizio di fognatura e depurazione è dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi” (art. 14, comma 1); l’art. 32 abrogò quindi l’art. 17-ter della L. 10 maggio 1976, n. 319;

d) il D.L. 17 marzo 1995, n. 79, art. 2, comma 3-bis, convertito con modificazioni dalla L. 17 maggio 1995, n. 172, aggiunse un ultimo comma all’art. 17 della L. 10 maggio 1976, n. 319, che, ristabilendo di fatto il contenuto dell’art. 17-ter citato, disponeva che “fino all’entrata in vigore della tariffa fissata dalla L. 5 gennaio 1994, n. 36, artt. 13 e ss., per l’accertamento del canone o diritto, continuano ad applicarsi le disposizioni del testo unico per la finanza locale … e la riscossione è effettuata ai sensi del D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, artt. 68 e 69, previa notificazione dell’avviso di accertamento o di liquidazione”, mentre per il contenzioso continuavano ad applicarsi le disposizioni del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 638, art. 20;

e) la L. 23 dicembre 1999, n. 448, art. 31, comma 28, stabilì che “A decorrere dal 1 gennaio 1999 il corrispettivo dei servizi di depurazione e di fognatura costituisce quota di tariffa ai sensi della L. 5 gennaio 1994, n. 36, artt. 13 e ss.” ed abrogò, di conseguenza, l’art. 17, ultimo comma, L. 10 maggio 1976, n. 319, introdotto dal D.L. 17 marzo 1995, n. 79);

f) il D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, modificando l’indicazione temporale della disposizione della L. 23 dicembre 1999, n. 448, dispose a sua volta che “l’abrogazione della L. 10 maggio 1976, n. 319, artt. 16 e 17, … ha effetto dall’applicazione della tariffa del servizio idrico integrato di cui alla L. 5 gennaio 1994, n. 36, artt. 13 e ss.” precisando altresì che il canone o diritto di cui alla L. 10 maggio 1976, n. 319, art. 16, continua ad applicarsi in relazione ai presupposti di imposizione verificatisi anteriormente all’abrogazione del tributo ad opera della presente legge, con conseguente applicazione delle disposizioni relative ad esso per quanto concerne le fasi dell’accertamento e della riscossione (art. 62, commi 5 e 6);

g) il D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258, art. 24, comma 1, lett. a), infine, dispose la soppressione dei commi 5 e 6 dell’art. 62, D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, rendendo in tal modo immediatamente efficace, a partire dalla sua entrata in vigore (3 ottobre 2000, essendo stato il provvedimento pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 18 settembre 2000) quanto previsto dalla L. 23 dicembre 1999, n. 448, art. 31, comma 28.

Alla luce di questa ricostruzione della normativa, si può ritenere che la disciplina applicabile nel caso concreto debba essere individuata nelle disposizioni della L. 10 maggio 1976, n. 319, in particolare negli artt. 16 e 17, e non nella successiva L. 5 gennaio 1994, n. 36. Ciò in quanto, come si è sopra visto, i diversi interventi legislativi che sono succeduti a tale ultimo testo normativo hanno prorogato l’applicazione della precedente L. n. 319 del 1976, artt. 16 e 17 al 31 dicembre 1998 (L. dicembre 1999, n. 448, art. 31, comma 28), termine successivamente esteso dal D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, al momento dell’entrata in vigore del sistema idrico integrato di cui alla L. 5 gennaio 1994, n. 36; soltanto con la soppressione di tale ultima disposizione ad opera del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258, e, quindi, dalla sua entrata in vigore (3 ottobre 2000) può pertanto dirsi che le disposizioni in materia di cui alla L. 10 maggio 1976, n. 319, hanno cessato efficacia, essendo state definitivamente soppiantate dagli artt. 13 e seguenti della L. 5 gennaio 1994, n. 36.

Questa conclusione è del tutto in linea con l’orientamento più volte espresso da questa Corte in materia di giurisdizione sulle controversie relative agli importi richiesti per il servizio di fognatura e di depurazione, che ha affermato il principio secondo cui la domanda avente ad oggetto la non debenza di queste somme rientra nella competenza del giudice tributario se riferita ad un periodo anteriore al 3 ottobre 2000, data di entrata in vigore del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258, art. 24, atteso che, prima di essa, trova applicazione la disciplina precedente alla L. 5 gennaio 1994, n. 36, che attribuiva al predetto canone natura di tributo comunale, avendo la predetta disposizione di cui all’art. 24, abrogando l’art. 62, commi 5 e 6, del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, eliminato per il futuro il transitorio differimento dell’inizio di efficacia della L. 23 dicembre 1999, n. 448, art. 31, comma 28, che ha qualificato il corrispettivo di tale servizio come quota di tariffa ai sensi della L. 5 gennaio 1994, n. 36 (Cass. S.U. n. 6418 del 2005; Cass. S.U. n. 19388 del 2003; Cass. S.U. n. 19390 del 2003; Cass. S. U. n. 11188 del 2003; Cass. S.U. n. 16157 del 2002; Cass. S.U. n. 11631 del 2002).

Nè può essere condivisa la posizione dell’Amministrazione ricorrente che suggerisce una contemporanea applicazione della L. 10 maggio 1976, n. 319, artt. 16 e 17, e del D.L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, denunziandone la contestuale violazione da parte del giudice a qua. Al di là, invero, di quanto è stato finora osservato, in ordine alla vigenza temporale di queste due leggi, appare sufficiente un semplice confronto tra il contenuto di queste disposizioni per convincersi della loro sostanziale inconciliabilità e quindi della impraticabilità della soluzione avanzata dal Comune. La conclusione secondo cui la L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, per le ragioni sopra illustrate, non trovi applicazione per il periodo anteriore al 3 ottobre 2000, risulta del resto confermata con la massima chiarezza dall’ordinanza n. 55 del 10 febbraio 2006 della Corte costituzionale, secondo cui “la disciplina dei canoni di depurazione delle acque versati nel periodo precedente al 3 ottobre 2000 oggetto dei giudizi a quibus rientra non nell’ambito temporale di applicazione della L. n. 36 del 1994, denunziato art. 14, comma 1, bensì in quello della L. 10 maggio 1976, n. 319, artt. 16 e 17”. In questa direzione merita richiamo anche la recente sentenza delle S.U. di questa Corte n. 21887 del 15 ottobre 2009, che, nel pronunciarsi su una questione di giurisdizione in ordine ad una pretesa risalente al periodo precedente al 3 ottobre 2000, ha dichiarato ininfluente sulla propria decisione la sentenza della Corte costituzionale n. 335 del 2008, che ha dichiarato parzialmente illegittima la L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, sul presupposto -implicito – della non applicabilità, ratione temporis, di tale disposizione nel caso concreto.

La ricostruzione della normativa in materia permette, pertanto, di concludere sul punto nel senso che nel caso concreto, in cui si discute della debenza dei canoni di fognatura e di depurazione per il 1995, trovano applicazione gli artt. 16 e seguenti L. 10 maggio 1976, n. 319, in particolare l’art. 17, comma 3, sopra richiamato, che in relazione alla parte del canone relativa al servizio di depurazione dichiara lo stesso dovuto quando nel comune sia in funzione l’impianto di depurazione centralizzato, anche se lo stesso non provveda alla depurazione di tutte le acque provenenti dagli insediamenti civili.

Con riferimento all’applicazione di questa disciplina, l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte, dal quale non si ravvisano nè risultano dedotte valide ragioni per discostarsi, è stato costantemente nel senso che dalla già rilevata natura tributaria del relativo canone discende necessariamente l’obbligatorietà del suo pagamento, indipendentemente dalla effettiva utilizzazione del servizio, trattandosi di servizio pubblico irrinunciabile, che gli enti gestori sono tenuti ad istituire per legge ed alla cui gestione i potenziali utenti sono chiamati a contribuire mediante il versamento di un canone, anche se non ne abbiano usufruito in concreto, per avere affidato a terzi lo smaltimento delle acque reflue; con l’importante precisazione tuttavia che, in ragione della disciplina positiva, l’obbligo sorge soltanto per effetto dell’istituzione del servizio e dell’allaccio alla rete fognaria ed è perciò condizionato all’esistenza dell’impianto centralizzato ed all’allacciamento fognario (Cass. S.U. n. 96 del 2005; Cass. n. 11481 del 2003; Cass. n. 9434 del 1994; Cass. n. 2800 del 1992).

In conclusione, nel 1994 vigeva la seguente norma giuridica; “La parte relativa al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti potenziali del servizio di fognatura, che siano posti nella condizione di poterlo utilizzare, quando nel comune sia in funzione l’impianto di depurazione centralizzato”.

6.3. La sussunzione della fattispecie concreta sotto la norma individuata.

Il caso di specie ultima oggetto della presente controversia è stato categorizzato dal giudice d’appello, attraverso la prova acquisita in applicazione del principio di non contestazione di cui s’è discusso a proposito del secondo motivo d’impugnazione, come rientrante nel genere del cittadino comunale che non è posto nella condizione di poter utilizzare il servizio di fognatura, perchè egli, a causa della mancata predisposizione dell’allaccio da parte del Comune, non può allacciarsi al servizio di fognatura attivato.

Ne deriva che il Contribuente non rientra nella categoria dei destinatari della norma indicati come soggetti passivi del tributo.

7. Conclusioni.

7.1. Sul dispositivo.

Le precedenti considerazioni comportano il rigetto del ricorso del Comune.

7.2. Sulle spese processuali.

Poichè l’intimato non si è costituito in giudizio, nulla deve disporsi sulle spese processuali relative al giudizio di cassazione.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 settembre 2009 e il 26 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2010

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