Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25825 del 23/09/2021

Cassazione civile sez. I, 23/09/2021, (ud. 12/11/2020, dep. 23/09/2021), n.25825

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15096/2015 proposto da:

A.C., A.G., A.L., As.Id.,

D.T.R., M.M., elettivamente domiciliati in Roma,

Via G. Caccini 1, presso lo studio dell’avvocato Paolo Lazzara,

presso lo Studio Villata – Degli Esposti – Perfetti, che li

rappresenta e difende in forza di procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrenti –

contro

Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in Roma, Via del Tempio di Giove, 21 C, presso gli

Uffici dell’Avvocatura Capitolina, presso lo studio dell’avvocato

Umberto Garofoli, che lo rappresenta e difende in forza di procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrente incidentale –

contro

A.C., A.G., A.L., As.Id.,

D.T.R., M.M., elettivamente domiciliati in Roma,

Via G. Caccini 1, presso lo studio dell’avvocato Paolo Lazzara

presso lo Studio Villata – Degli Esposti – Perfetti, che li

rappresenta e difende in forza della predetta procura speciale a

margine del ricorso;

– controricorrenti al ricorso incidentale –

e in contraddittorio con:

A.E.;

– chiamato in integrazione del contraddittorio –

avverso la sentenza n. 3839/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 09/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/11/2020 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione notificato il 27/5/1993 A.L., A. e F. hanno convenuto in giudizio il Comune di Roma dinanzi al Tribunale di quella stessa città per sentir dichiarare la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità di alcuni terreni e di un fabbricato loro espropriati nel quadro della realizzazione del parco pubblico attrezzato del quartiere (OMISSIS) (rispettivamente censiti a catasto al foglio (OMISSIS), part. (OMISSIS) e al foglio (OMISSIS) part. (OMISSIS)) e per sentir condannare conseguentemente il Comune convenuto alla restituzione dei predetti terreni.

Secondo gli attori, pur essendo stato promosso il procedimento nel lontano 1972 e pur essendo intervenuti sia la dichiarazione di pubblica utilità del 20/12/1973, sia il decreto di esproprio del 28/10/1975, il Comune di Roma non aveva mai fatto accesso nelle aree espropriate e non ne aveva mai preso possesso, sicché i predetti immobili erano rimasti nella loro piena e assoluta disponibilità e l’opera prevista nella dichiarazione di pubblica utilità e nel decreto di esproprio non era mai stata compiuta e neppure iniziata.

Si è costituito in giudizio il Comune di Roma, chiedendo il rigetto delle domande degli attori.

Il Tribunale di Roma, dapprima, con sentenza non definitiva del 18/11/2002, implicitamente rigettata l’eccezione di prescrizione sollevata dal Comune, ha accolto la domanda di retrocessione e ha dichiarato costituita la proprietà dei beni in capo agli attori, previa dichiarazione di inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità. Quindi il Tribunale con sentenza definitiva del 5/1/2011 ha determinato in Euro 112.091,24 il prezzo di retrocessione dei predetti immobili, dovuto dagli attori al Comune di Roma, ha respinto la domanda riconvenzionale risarcitoria del Comune e ha compensato fra le parti le spese processuali.

2. Avverso le predette sentenze di primo grado, non definitiva e definitiva, ha proposto appello Roma Capitale, già Comune di Roma, a cui hanno resistito gli appellati A.L., A.C., G., As.Id., ed A.E., nonché gli intervenienti adesivi D.T.R., M.M., tutti proponendo appello incidentale.

La Corte di appello di Roma con sentenza del 9/6/2014 ha accolto il gravame principale per quanto di ragione e ha dichiarato estinto per prescrizione il diritto degli attori alla retrocessione del fondo espropriato, ha respinto le domande del Comune di condanna degli appellati al rilascio dell’area e al risarcimento dei danni, ha respinto l’appello incidentale, ha compensato le spese del giudizio di primo grado e ha condannato appellati e intervenienti, in solido fra loro, al pagamento di metà delle spese del giudizio di secondo grado, per il resto compensate.

3. Avverso la predetta sentenza, non notificata, con atto notificato l’8-10/6/2015 hanno proposto ricorso per cassazione A.L., A.C., A.G., As.Id., D.T.R., M.M., svolgendo tre motivi.

Con atto notificato il 10/7/2015 ha proposto controricorso e ricorso incidentale Roma Capitale, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’avversaria impugnazione e instando, a sua volta, con il supporto di un motivo, per la cassazione della sentenza di secondo grado, quanto al rigetto della domanda di rilascio dei fondi e della domanda di risarcimento dei danni.

Con controricorso notificato il 23/9/2015 i ricorrenti hanno resistito al ricorso incidentale avversario.

Con ordinanza interlocutoria n. 26 del 5/1/2021 questa Corte ha rilevato che la domanda iniziale volta a far dichiarare la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e a ottenere la restituzione dei terreni espropriati (ma non utilizzati) e la retrocessione era stata proposta da tre attori originari e cioè A.L., A. e F.; che già la sentenza di primo grado, come risulta dalla sentenza impugnata della Corte di appello di Roma, era stata pronunciata nei confronti di A.L. e A. nonché di A.E., A.G., A.C. e As.Id., verosimilmente succeduti all’originario attore A.F.; che nel corso del giudizio di appello era morta anche A.A. e ad essa erano succedute D.T.R. e M.M.; che il ricorso per cassazione era stato proposto da A.L., A.C., A.G., As.Id., D.T.R., M.M., e cioè dall’unico attore originario sopravvissuto ( L.), dalle eredi di A. e dai soggetti che erano stati parti del giudizio di primo e di secondo grado (probabilmente gli eredi di A.F.); che il ricorso però non era stato proposto da A.E. e neppure gli era stato notificato, anche se egli figurava nella sentenza impugnata come appellato e appellante incidentale; che anche il controricorso di Roma Capitale ignorava A.E.; che era quindi evidente la non integrità del contraddittorio ex art. 331 c.p.c.; che in tema di diritto alla retrocessione del bene espropriato rimasto inutilizzato, secondo la previsione della L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 63 e per il caso in cui più persone siano subentrate all’originario espropriato, iure successionis od a titolo particolare, ciascuna di esse è legittimata ad esercitare il diritto stesso, alla stregua della sua natura potestativa, purché con riferimento all’intero immobile (al quale deve essere commisurato il prezzo della retrocessione), ma al relativo giudizio devono prendere parte, in qualità di litisconsorti necessari, tutti gli altri contitolari, trattandosi di rapporto plurisoggettivo unitario ed inscindibile (Sez. U, n. 6144 del 30/05/1991, Rv. 472453 – 01).

Per queste ragioni è stata ordinata l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c., nei confronti di A.E. nel termine di giorni sessanta dalla comunicazione dell’ordinanza, eseguita a cura dei ricorrenti in data 30/1-4/2/2021 mediante notifica di un atto ricomprendente ricorso, controricorso con ricorso incidentale, controricorso al ricorso incidentale e ordinanza interlocutoria.

I ricorrenti hanno depositato memoria, rivolta essenzialmente a chiarire le vicende successorie che avevano progressivamente riguardato gli attori originari.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso principale, proposto art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 324 c.p.c. e all’art. 112 c.p.c..

1.1. I ricorrenti lamentano che il giudice di appello non abbia rilevato la mancata impugnazione e il conseguente passaggio in giudicato della sentenza non definitiva del Tribunale n. 45665 del 2002, che aveva dichiarato l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità.

Al giudicato sulla decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e del decreto di esproprio conseguiva linearmente, secondo i ricorrenti, l’inammissibilità dell’appello del Comune, che semplicemente era volto a contestare il calcolo della prescrizione dell’azione di retrocessione, cosa del tutto irrilevante perché rimaneva definitivamente e irreversibilmente accertata la proprietà degli A. con la conseguente carenza di interesse a ricorrere del Comune.

1.2 In via preliminare i ricorrenti hanno sostenuto con il controricorso a ricorso incidentale che il controricorso con ricorso incidentale di Roma Capitale non si riferirebbe al proprio ricorso principale, sia per il riferimento a pagina 6 a un ricorso per cassazione proposto da certi ” C.J. ed altri”, sia per il riferimento a una sentenza di appello depositata il 28/10/2014 e non il 9/6/2014, sia, infine, per l’attribuzione di chiarezza e esaustività alla presa di posizione su ogni aspetto giuridico della controversia da parte del Tribunale di Roma, che pure aveva reso decisioni impugnate proprio dal Comune di Roma in appello.

Tali osservazioni, in buona parte basate su alcuni modesti errori materiali contenuti nel controricorso a pagina 6, primo, secondo e quintultimo rigo, non possono certamente essere condivise, tenuto conto dell’inequivocabile identificazione delle parti contenuta nell’epigrafe dell’atto, dei plurimi riferimenti alla sentenza n. 3839 del 9/6/2014 della Corte di appello di Roma e all’atto notificato dagli A. il 10/6/2015 e infine dell’intero tenore della ricostruzione della vicenda processuale.

Ne’ diverse conclusioni possono essere raggiunte per via dell’apprezzamento manifestato per l’efficacia ricostruttiva dei profili giuridici della vicenda dedicato da Roma Capitale unitariamente alle sentenze di primo grado, pur da essa censurata con l’appello, e a quella di secondo grado, che può lasciar perplessi circa la coerenza argomentativa e magari indurre a sospettare un lapsus, ma non autorizza certamente dubbi sull’inerenza dell’atto alla presente controversia.

Lo stesso vale per la manifestazione da parte della controricorrente Roma Capitale dell’intento di ricorrere avverso la sentenza n. 3839/2014 in punto giurisdizione, anticipata a pagina 5, quinto capoverso, ma poi non tradottasi nell’articolato motivo di ricorso incidentale che attiene a tutt’altre questioni.

1.3. Il primo motivo è infondato.

E’ vero infatti che il Comune non ha impugnato il capo relativo alla declaratoria di inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera (parco pubblico attrezzato del quartiere (OMISSIS)) contenuta nella sentenza non definitiva di primo grado n. 45665 del 18/11/2002 del Tribunale di Roma, ma è altresì vero che la Corte di Appello non è ritornata su quello specifico punto e non ha minimamente messo in discussione la predetta declaratoria di inefficacia, determinando in quel modo l’ipotizzata violazione del giudicato interno.

1.4. Non merita poi di essere condiviso il ragionamento sviluppato dai ricorrenti, secondo cui il corollario necessario della inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità sarebbe l’accertamento della proprietà del terreno in capo ai signori A..

E’ infatti pacifico che il 28/10/1975 il Presidente della Giunta regionale del Lazio ha emesso il decreto di esproprio, che non è mai stato né impugnato, né caducato.

Ed infatti è il decreto di esproprio a segnare la conclusione del procedimento di espropriazione e a determinare il trasferimento della proprietà dell’immobile alla Pubblica amministrazione, così incidendo in misura corrispondente sui poteri dominicali del titolare del bene, facendo sorgere il diritto dell’espropriato al pagamento dell’indennità (Sez. 1, n. 17264 del 12/07/2013, Rv. 627917 – 01; Sez. 1, n. 8239 del 04/04/2013, Rv. 626087 – 01).

1.5. Infine l’argomentazione dei ricorrenti sembra anche contraddittoria perché se il decreto di esproprio, e non solo la dichiarazione di pubblica utilità, avesse perso la sua efficacia, non sussisterebbe alcun loro interesse, né alcuna loro legittimazione, alla proposizione della domanda di retrocessione, il cui presupposto logico-giuridico insiste proprio sulla precedente espropriazione del bene.

Infatti la retrocessione presuppone un valido ed efficace decreto di espropriazione, attribuendo al proprietario dell’immobile espropriato, ma non utilizzato per la realizzazione dell’opera pubblica a causa di un fatto verificatosi ex post, un diritto potestativo di riacquisto del bene, il cui esercizio, lungi dal dare luogo alla caducazione del precedente acquisto coattivo risolvendo la relativa espropriazione, ne postula la perdurante operatività, non eliminandone gli effetti, ma producendone di nuovi e parzialmente contrari, ovvero ponendo solo le condizioni per un nuovo trasferimento a titolo derivativo con effetto ex nunc (Sez. 1, n. 16904 del 11/11/2003, Rv. 568033 – 01).

2. Con il secondo motivo di ricorso principale, proposto in via subordinata ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione della L. n. 2359 del 1865, artt. 13 e 63, nonché ex art. 360 c.p.c., n. 5, contraddittorietà della motivazione e omesso esame di un punto decisivo della controversia, attinente la proprietà delle aree.

2.1. La L. n. 2359 del 1865, art. 13, applicabile ratione temporis, stabiliva che nell’atto che dichiara un’opera di pubblica utilità dovessero essere stabiliti i termini, entro i quali si dovessero cominciare e compiere le espropriazioni ed i lavori e che, trascorsi i termini e in difetto di loro proroga, la dichiarazione di pubblica utilità diventasse inefficace e non potesse procedersi alle espropriazioni se non in forza di una nuova dichiarazione ottenuta nelle forme prescritte dalla legge.

La disposizione non rileva in sé e per sé, dal momento che nel caso concreto il decreto di esproprio è stato effettivamente emesso tempestivamente a ottobre del 1975 e non è stato caducato, ma va letta in connessione con l’art. 63 della stessa Legge fondamentale in materia espropriativa.

2.2. Il predetto art. 63, pure applicabile ratione temporis, attiene al diritto degli espropriati di ottenere la retrocessione dei loro fondi non occupati nell’esecuzione delle opere di pubblica utilità e stabilisce che se dopo l’espropriazione l’opera pubblica non è stata eseguita e sono trascorsi i termini a tal uopo concessi o prorogati, gli espropriati possono domandare all’Autorità giudiziaria la pronuncia della decadenza dell’ottenuta dichiarazione di pubblica utilità e la restituzione dei beni espropriati, mediante il pagamento del prezzo determinato ai sensi dell’art. 60 della stessa Legge.

2.3. Dalla lettura della sentenza impugnata risulta che il Comune di Roma aveva sostenuto che la prescrizione del diritto alla retrocessione era maturata il 20/6/1990 e cioè dieci anni dopo la scadenza del termine per l’ultimazione dei lavori (20/6/1980), trentasei mesi dopo la presa di possesso materiale dell’area espropriata, avvenuta il 20/6/1977; in subordine, il Comune di Roma aveva prospettato che la proroga dei termini per l’esproprio si fosse estesa anche ai termini per completare i lavori e che di conseguenza la prescrizione era maturata solo il 20/12/1991, comunque anche in questo caso in una data ben anteriore alla notificazione della citazione di primo grado (27/5/1993).

Invece gli A. sostenevano (così come aveva ritenuto la sentenza di primo grado) che il termine di prescrizione neppure aveva preso a decorrere perché i lavori non erano mai stati iniziati e comunque contestavano l’idoneità della presa di possesso a giugno del 1977 a far decorrere il termine perché avvenuta in violazione del contraddittorio.

2.4. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in materia di espropriazione, il diritto alla retrocessione del bene espropriato sorge nel momento in cui la realizzazione dell’opera, prevista nella dichiarazione di pubblica utilità, diviene giuridicamente impossibile; tale condizione si verifica per effetto della scadenza del termine di cui alla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 13 (applicabile ratione temporis), ovvero a causa di un mutamento nelle scelte di politica urbanistica che si sostanzino nella formale manifestazione della volontà della pubblica amministrazione di non utilizzare il bene per gli scopi cui l’espropriazione era finalizzata; di conseguenza, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale del diritto alla retrocessione, è sufficiente la scadenza del termine per l’esecuzione dei lavori (Sez. 6 – 1, n. 15859 del 25/06/2013, Rv. 626975 – 01; Sez. 1, n. 16904 del 11/11/2003, Rv. 568033 – 01, che distingue peraltro richiedendo anche l’emanazione del decreto di espropriazione).

2.5. La Corte di appello ha chiarito – e sul punto non vi è impugnazione – che la proroga del termine per l’espropriazione non ha avuto alcuna attitudine a prorogare anche i termini per l’esecuzione dei lavori, sia perché questo termine non era stato espressamente prorogato, sia perché l’amministrazione non si era avvalsa della proroga e il decreto di esproprio era stato emesso nel termine originario.

2.6. I termini per l’esecuzione dei lavori erano stati stabiliti dalla Delib. 20 dicembre 1973, n. 2723, della Giunta regionale del Lazio che ha dichiarato di pubblica utilità la realizzazione del parco pubblico attrezzato (OMISSIS); essi dovevano iniziare entro dodici mesi dalla immissione in possesso e concludersi nei successivi trentasei (vedasi: sentenza impugnata, pag.5, primo paragrafo).

La Corte di appello ha prospettato due ipotesi alternative a pagina 6:

a) in primo luogo, che il termine decorresse da un anno dalla data del decreto di esproprio del 28/10/1975, sicché i lavori avrebbero dovuto essere eseguiti nel triennio successivo e quindi entro il 28/10/1979;

b) oppure, in secondo luogo, che il termine decorresse dalla data di effettiva immissione in possesso ossia dal 20/6/1977, data della presa di possesso risultante dal verbale prodotto dall’amministrazione comunale, il che conduceva alla data successiva del 20/6/1980.

In entrambi i casi, secondo la Corte di appello, il decennio era spirato ben prima della data di notificazione della citazione introduttiva il 27/5/1993.

2.7. I ricorrenti non affrontano specificamente e non confutano la tesi esposta dalla Corte di appello nel primo corno dell’alternativa, ossia che i quattro anni (dodici più trentasei mesi) decorressero dalla data del decreto di esproprio e scadessero il 28/10/1979 (pag.6, quarto capoverso); tanto basta ad inficiare sotto il profilo della specificità e della pertinenza le censure.

2.8. V’e’ da aggiungere che questa tesi è anche corretta, tenuto conto della L. n. 2359 del 1865, artt. 13 e 63 e dovendosi aver riguardo alla trasmissione del possesso giuridico ravvisabile nel decreto di esproprio e non al successivo trasferimento anche della detenzione materiale del bene.

Infatti, in questa sede, paradossalmente, gli espropriati ricorrenti tentano di postergare il termine di ultimazione dei lavori da parte dell’amministrazione espropriante, al fine di differire consequenzialmente anche il compimento del periodo prescrizionale di dieci anni che da esso prende a decorrere.

La loro tesi non può però essere seguita perché implicitamente finirebbe con il riconoscere all’amministrazione espropriante il potere di provocare surrettiziamente la protrazione dei termini per il compimento dell’opera pubblica sul bene espropriato e paralizzare l’azione di retrocessione, semplicemente ritardando ad libitum la presa di detenzione del bene.

Deve quindi ritenersi che ai sensi della L. n. 2359 del 1865, art. 13 e della Delib. 20 dicembre 1973, n. 2723, della Giunta regionale i lavori dovessero iniziare entro dodici mesi dal decreto di esproprio e completarsi entro i trentasei mesi successivi, senza che assuma rilievo in senso contrario la data eventualmente successiva, peraltro controversa, in cui sarebbe avvenuta una presa di possesso materiale (rectius: detenzione) effettiva.

Pertanto l’art. 63 della stessa Legge consentiva l’esperimento della domanda di retrocessione, in un caso come questo in cui il decreto di esproprio era stato emesso e i lavori neppure iniziati, dopo il decorso di quattro anni dal decreto di esproprio, data in cui il diritto ben poteva essere esercitato.

Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione, di diritto o di fatto, con essa incompatibile, e che qualora il precedente proprietario, o un soggetto diverso, continui ad esercitare sulla cosa attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, la notifica del decreto ne comporta la perdita dell’animus possidendi, conseguendone che, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso ad usucapionem, è necessario un atto di interversio possessionis. (Sez. 1, n. 6742 del 21/03/2014, Rv. 630046 – 01; Sez. 2, n. 23850 del 02/10/2018, Rv. 650631 – 01).

2.9. In conclusione il motivo di ricorso deve essere rigettato in quanto infondato essendo comunque decorso il decennio dalla data entro la quale dovevano essere ultimati i lavori il 28/10/1979, ben prima del 27/5/1993.

3. Con il terzo motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 2719 c.c. e all’art. 115 c.p.c., nonché ex art. c.p.c., nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., della L. n. 2359 del 1865, art. 71,L. 241 del 1990, art. 21 septies e art. 21 octies, ed infine ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 2248 del 1865, art. 5, all. E.

3.1. La Corte di appello, secondo i ricorrenti, aveva ritenuto prescritta l’azione di retrocessione benché i suoi termini non avessero iniziato a decorrere; ciò perché il verbale di immissione in possesso del 20/6/1977 era viziato sotto il profilo della sua efficacia probatoria, processualmente inutilizzabile in quanto mai prodotto in originale, assolutamente invalido sotto molteplici profili (ossia: difetto di terzietà dei funzionari verbalizzanti, assenza di contraddittorio con i proprietari nello svolgimento delle operazioni di immissione in possesso, assenza dell’unico proprietario regolarmente invitato, con riferimento però a una sola persona e senza avvisi di ricevimento, redazione del verbale in assenza di testimoni) e quindi disapplicabile dal giudice ordinario.

3.2. Il motivo è infondato alla luce di quanto osservato nel paragrafo precedente, ossia perché, a prescindere dalla controversa effettività della presa materiale di possesso del bene in data 20/6/1977 da parte dell’amministrazione comunale e dalla ritualità e regolarità del relativo verbale, i termini per l’ultimazione dei lavori erano comunque decorsi e già sin dal 28/10/1979 gli A. avrebbero potuto proporre la loro domanda di retrocessione.

E’ quindi irrilevante il fatto, dato per assodato dalla sentenza impugnata, che materialmente gli A. abbiano continuato a godere della disponibilità dei beni espropriati, mai effettivamente appresi dal Comune capitolino.

4. Con il motivo di ricorso incidentale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente incidentale Roma Capitale denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.P.R. n. 327 del 2001, art. 24, L. n. 241 del 1990, art. 21 ter, comma 1 e art. 21 quater, comma 4, art. 1227 c.c. e L. n. 2248 del 1865, art. 4, comma 2, con riferimento al rigetto delle sue domande di rilascio dei fondi e di risarcimento dei danni.

4.1. Giova premettere che il contraddittorio appare ormai integro anche ai fini del ricorso incidentale di Roma Capitale, non notificato dalla ricorrente incidentale ad A.E., poiché, come sopra ricordato, a costui, erede dell’originario attore A.F., è stato notificato a cura dei ricorrenti atto di integrazione del contraddittorio che includeva al suo interno anche il controricorso e il relativo ricorso incidentale.

4.2. Quanto alla prima domanda (inerente al rilascio dei beni) la Corte di appello ha osservato che il Comune era titolare del diritto di proprietà in seguito all’esproprio e quindi era legittimato ad azionare il predetto titolo, mentre non era possibile duplicare i titoli concernenti il diritto al rilascio.

4.3. Obietta la ricorrente Roma Capitale che l’esecutività dei provvedimenti espropriativi, derivante dalla loro intrinseca capacità di affievolire il diritto del proprietario, non comporta però la loro auto-esecutività e richiede pur sempre il superamento delle resistenze materiali dei detentori del bene, al cui proposito nulla vieta all’Amministrazione di agire in giudizio civile per la formazione di un titolo giudiziale di rilascio.

4.4. La censura è fondata.

L’art. 823 c.c., comma 2, attribuisce all’autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico e con essa la facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso regolati dal codice civile.

La L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21 ter, prevede che nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti e che qualora l’interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge; il successivo art. 21 quater, aggiunge che i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo.

Non vi è quindi alcuna ragione, tantomeno la pretesa duplicazione di titoli, che osti all’accoglimento della domanda riconvenzionale di Roma Capitale diretta a ottenere il rilascio dei beni espropriati e non tempestivamente richiesti in retrocessione da parte degli originari attori e loro attuali aventi causa.

Ne’ – a ben vedere – di duplicazione di titoli esecutivi è lecito discorrere, ponendo in comparazione un titolo esecutivo di formazione giudiziale ex art. 474 c.p.c., comma 2, n. 1, quale quello a cui aspira Roma Capitale, e un provvedimento amministrativo suscettibile di autotutela qual è il decreto di esproprio.

4.5. La Corte di appello ha poi negato al Comune il richiesto risarcimento dei danni affermando che si trattava di un danno che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza ex art. 1227 c.c., comma 2 e osservando che tale eccezione in senso lato era rilevabile d’ufficio anche in grado di appello (pag. 9, ultimo capoverso); ha poi chiarito che il Comune avrebbe potuto evitare ogni pregiudizio se avesse realizzato il parco pubblico per cui aveva chiesto e ottenuto l’espropriazione e si fosse tempestivamente attivato per apprendere anche materialmente la disponibilità dell’area.

4.6. L’affermazione della Corte di appello secondo la quale l’eccezione di cui all’art. 1227 c.c., comma 2, sarebbe una eccezione in senso lato rilevabile d’ufficio anche in grado di appello è sicuramente errata in punto di diritto.

Secondo la giurisprudenza assolutamente granitica di questa Corte in tema di risarcimento del danno, l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso (di cui dell’art. 1227 c.c., comma 1) va distinta da quella (disciplinata dal comma 2 del medesimo articolo) riferibile ad un contegno dello stesso danneggiato che abbia prodotto il solo aggravamento del danno senza contribuire alla sua causazione, giacché – mentre nel primo caso il giudice deve procedere d’ufficio all’indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato, sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale, dello stesso – la seconda di tali situazioni forma oggetto di un’eccezione in senso stretto, in quanto il dedotto comportamento del creditore costituisce un autonomo dovere giuridico, posto a suo carico dalla legge quale espressione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede (Sez. 3, n. 19218 del 19/07/2018, Rv. 649740 – 01; Sez. 3, n. 15750 del 27/07/2015, Rv. 636176 – 01; Sez. 3, n. 12714 del 25/05/2010, Rv. 613017 – 01; Sez. 3, n. 23734 del 10/11/2009, Rv. 610120 – 01).

4.7. La ricorrente incidentale Roma Capitale non ricostruisce accuratamente nella prospettiva delle difese svolte dalle parti con riferimento alla richiesta risarcitoria da essa proposta in via riconvenzionale nel giudizio iniziato in primo grado il 27/5/1993, prima del 30/4/1995, e pertantio sottratto al rito caratterizzato da severe decadenze e preclusioni e al regime restrittivo per l’introduzione di nuove eccezioni in appello introdotti dalla Novella di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353 e s.m.i.; a quanto risulta ex actis, inoltre, la domanda risarcitoria aveva subito evoluzioni e modificazioni al punto da essere giudicata nuova dal Tribunale nella sentenza definitiva (cfr. sentenza impugnata, pag. 9).

4.8. Tuttavia la Corte di appello ha implicitamente ritenuto che l’eccezione in questione non fosse stata proposta dagli attori A. e comunque potesse essere rilevata d’ufficio dal Giudice, così giustificando il rigetto della domanda riconvenzionale per motivi diversi da quelli addotti dal Tribunale, che aveva ritenuto tardiva e inammissibile la modificazione della domanda risarcitoria, e comunque erronee per la ragione sopra ricordata.

4.9. Roma Capitale contesta altresì nel merito la valutazione di negligenza addebitatale dalla Corte romana ma tali questioni rimangono assorbite e dovranno essere valutate nel giudizio di rinvio, all’esito della cassazione della sentenza impugnata, viziata per aver ritenuto rilevabile ex officio l’eccezione di cui dell’art. 1227 c.c., comma 2.

5. Alla luce di quanto sopra esposto deve essere rigettato il ricorso principale e accolto il ricorso incidentale; la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte;

rigetta il ricorso principale e accoglie il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 17 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2021

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