Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25824 del 18/11/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 25824 Anno 2013
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: ARIENZO ROSA

SENTENZA

sul ricorso 11177-2011 proposto da:
PUNTILLO

MICHELE

PNTMHL72M01L063C,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA RENO 21, presso lo studio
dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che lo rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente contro

2013
2744

POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585,
legale rappresentante pro

in persona del

tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo
studio

dell’avvocato

FIORILLO

LUIGI,

che

la

Data pubblicazione: 18/11/2013

rappresenta e difende giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 1842/2010 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 21/04/2010, r.g.n. 4558/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica

ARIENZO;
udito l’Avvocato BONFRATE FRANCESCA per delega verbale
FIORILLO LUIGI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA, che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udienza del 01/10/2013 dal Consigliere Dott. ROSA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza resa il 24.5.2010, la Corte di Appello di Roma respingeva il gravame
proposto da Puntillo Michele avverso la decisione di primo grado che aveva rigettato la
domanda del predetto intesa al riconoscimento dell’illegittimità del recesso intimato per
giusta causa ed alla reintegra nel posto di lavoro, con le conseguenze risarcitorie di legge.
Osservava la Corte del merito che era infondato il rilievo relativo alla regolarità della

utilizzato per le comunicazioni imposte dall’esito del giudizio — conclusosi con sentenza
che aveva accertato l’illegittimità del termine apposto al contratto e condannato la società
alla riammissione in servizio – l’indirizzo che il ricorrente aveva indicato come propria
residenza nel ricorso più datato, nel quale aveva avuto il domicilio sino al luglio 2005, in
relazione al quale si era realizzata la giacenza postale, tenuto conto del fatto che nessuna
ragione ostativa rispetto alla conoscenza come normativamente presunta il ricorrente
aveva allegato nel ricorso, ove era stato dedotto solo il mancato recapito della
raccomandata. Analoga situazione doveva ritenersi concretizzata in relazione alla lettera
di contestazione dell’addebito ed, in ogni caso, la variazione del luogo di residenza
imponeva all’interessato di darne notizia alla società, sicchè era insostenibile la tesi che la
comunicazione fosse effettuata presso il difensore nel domicilio eletto nel ricorso o alla
diversa residenza indicata in altra comunicazione che aveva preceduto lo stesso, non
prevedendo la norma gerarchie di sorta e non essendo ravvisabili violazioni delle clausole
generali di correttezza e buona fede, dalle quali, comunque, sarebbero discese
unicamente conseguenze risarcitorie. Doveva, poi, ritenersi che la sanzione espulsiva
fosse del tutto proporzionata rispetto alla contestata assenza ingiustificata al lavoro.
Per la cassazione di tale decisione ricorre il Punitllo, affidando l’impugnazione a sette
motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resiste, con controricorso, la società, che espone ulteriormente le proprie difese in
memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE

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comunicazione dell’invito a riprendere servizio, in quanto correttamente la società aveva

Con il primo motivo, il Punitl4denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1335 c. c,
ai sensi dell’ art. 360, n. 3, c.p.c., rilevando che la Corte del merito ha erroneamente
applicato i criteri di cui all’indicata norma codicistica, atteso che il mittente ha l’onere di
utilizzare quelle modalità della dichiarazione recettizia che risultino idonee a realizzare gli
effetti che la stessa è destinata a produrre, scegliendo il luogo più idoneo per la ricezione,
che, in base ad un collegamento ordinario o di normale frequenza o per preventiva

controllo del destinatario. In un momento successivo alla risoluzione del contratto a
termine poi impugnato, il Puntillo aveva indicato alla società quale proprio indirizzo di
residenza quello di Cinquefrondi, via Acquaro 1, e, con lettera del 29.5.2003 avente ad
oggetto la richiesta di convocazione per il T.O.C., aveva eletto domicilio presso l’avv.
Rizzo. Al momento della disposizione della riammissione la società era, quindi, in
possesso di tutti i recapiti e non rispondeva a realtà che esso ricorrente non avesse
comunicato variazioni dell’indirizzo originario. La società — osserva il ricorrente nonostante la conoscenza della giacenza della corrispondenza inviata all’indirizzo di via
Durantini, ha reiterato le comunicazioni proprio presso tale domicilio ove non era stato
curato il ritiro, senza contattare il Puntillo presso uno dei recapiti alternativi. Sostiene,
pertanto, violazione ed erronea applicazione dei criteri presuntivi dell’art. 1335 c. c.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 2729, I
co., c. c., ex art. 360, n. 3, c.p.c., osservando che la successione cronologica dei fatti,
relativi alla mancata esecuzione del provvedimento da parte del Puntillo su sollecitazione
della società Poste Italiane, alla comunicazione del provvedimento disciplinare ed alle
comunicazioni inviate dal lavoratore al domicilio eletto del difensore anche con notifica del
titolo esecutivo, avrebbe dovuto indurre la Corte a soffermarsi sul grado di certezza e
sulla gravità degli elementi portati a prova contraria dal Puntillo.
Con il terzo motivo, si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 1375 c. c., ai
sensi dell’ art. 360, n. 3, c.p.c.., evidenziando che le regole di correttezza e buona fede
che devono presiedere all’esecuzione del contratto mirano alla concreta realizzazione
delle rispettive posizioni di diritti ed obblighi e richiama documentazione allegata al
fascicolo di primo grado nella quale esso ricorrente aveva chiesto l’invio del contratto di
lavoro indicando quale residenza quella di Cinquefrondi, cui doveva ritenersi pervenuto il
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comunicazione dell’interessato o pattuizione, risulti in concreto nella sfera di dominio o

contratto, in possesso del ricorrente, nonchè lettera raccomandata del 29.5.2003 per il
tentativo obbligatorio di conciliazione, con elezione di domicilio presso l’ avv. Rizzo.
Sostiene, pertanto, che la società al momento della comunicazione della riammissione in
servizio era in possesso di tutti i recapiti e rileva che la stessa, sia prima che dopo il
licenziamento, aveva sempre notificato le proprie comunicazioni presso lo studio legale,
laddove per la comunicazione della riammissione in servizio aveva agito in dispregio dei

ogni problema di gerarchia degli indirizzi maggiormente efficaci ai fini delle comunicazioni,
utilizzando un sistema in sé lecito, per realizzare un fine vietato da norma imperativa e
cioè l’elusione delle tutele di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.
Insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il
giudizio, ex art. 360, n. 5, c.p.c., viene lamentata con il quarto motivo, assumendo il
ricorrente che, da una parte nella pronunzia si premette che la domanda è volta ad
ottenere la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni fino alla stessa e, dall’altra, si
ritiene l’irrilevanza dell’accertamento della violazione degli obblighi di correttezza e buona
fede, avendo tale violazione mere conseguenze risarcitorie, non in discussione nella
controversia, laddove la violazione degli indicati obblighi di correttezza e buona fede ha
avuto influenza sulla stessa legittimità del licenziamento
Con il quinto motivo, il Puntillo ascrive alla sentenza impugnata violazione e falsa
applicazione dell’art. 2119 c. c., ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., osservando che il
recesso di Poste è privo di giusta causa, perché esso lavoratore non è mai stato posto —
dolosamente — nella condizione di scegliere di adempiere alla sua obbligazione e che il
suo comportamento è stato valutato senza tenere conto degli aspetti concreti dell’intera
vicenda e del comportamento particolare della parte datoriale.
Il sesto motivo contiene la denunzia di violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c. c.,
ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., e verte sulla valutazione delle circostanze del caso
concreto ai fini della individuazione della volontarietà della condotta del dipendente e della
proporzionalità della sanzione irrogata.

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doveri strumentali al soddisfacimento dei diritti delle parti contraenti, a prescindere da

Infine, con il settimo motivo, il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione
dell’art. 7, comma 2, I. 300/70, assumendo che la sanzione sia stata adottata in palese
contrasto con le garanzie procedurali di cui agli artt. 7 Statuto e 54 del c.c.n.l. di categoria.
Con i primi tre motivi, con i quali si denunzia la violazione di diverse norme codicistiche
sul rilievo della mancata considerazione di elementi fattuali, relativi alla conoscenza di
ulteriori recapiti alternativi o sull’invio di atti precedenti e successivi a quello dell’invito

facesse riferimento ad essi per rendere possibile la conoscenza della raccomandata, in
realtà vengono delineati percorsi valutativi diversi da quelli seguiti dal giudice del gravame
senza evidenziare la decisività degli elementi indicati e senza indicare come tali rilievi
fossero già stati avanzati nella fase del merito. Peraltro, è principio già affermato in sede
di legittimità, sebbene in tema di comunicazione del recesso ma validamente applicabile
anche nella specie, quello secondo cui, qualora la comunicazione del provvedimento di
licenziamento venga effettuata al dipendente mediante lettera raccomandata spedita al
suo domicilio, essa, a norma dell’art. 1335 c.c., si presume conosciuta dal momento in cui
giunge al domicilio del destinatario, ovvero, nel caso in cui la lettera raccomandata non
sia stata consegnata per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla,
dal momento del rilascio del relativo avviso di giacenza presso l’ufficio postale (v. Cass.
15.12.2009 n. 26241, Cass., 24.4.2003 n. 6527). Nella specie, risulta che la
comunicazione presso l’indirizzo di Via Dei Durantini è stata restituita al mittente per
compiuta giacenza il 25.8.2005 ed anche l’ulteriore missiva di contestazione degli addebiti
era restituita al mittente il 23.10.2005 sempre per compiuta giacenza, sì che la
valutazione del giudice di merito circa la sufficienza di tale attestazione, anche in
considerazione della mancanza di contrari elementi di prova forniti dalla controparte, si
rivela del tutto corretta e si sottrae perciò alle censure della ricorrente. La operatività del
principio di presunzione di conoscenza dell’atto all’indirizzo del destinatario si realizza
quando il plico sia effettivamente pervenuto a destinazione, per il solo fatto oggettivo
dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione, ma non quando l’agente postale,
ancorché errando, l’abbia rispedito al mittente, dichiarando essere il destinatario
sconosciuto ( v. Cass. 8.6.2012 n. 9303 ed anche Cass. 26.4.1999, n. 4140). D’altra
parte, ai fini dell’applicazione dell’art. 1335 cod. civ., è sufficiente osservare che tale
disposizione consente di superare la presunzione di conoscenza ivi prevista soltanto
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conseguente alla riammissione in servizio, prospettandosi la possibilità che la società

mediante la prova, da parte del destinatario, di essere stato, senza colpa,
nell’impossibilità di avere avuto notizia dell’atto. Il ricorrente – che non contesta che la
notificazione sia stata eseguita al proprio indirizzo – assume che tale prova era in atti,
risultando dall’esito di compiuta giacenza della raccomandata che dava atto delle
formalità compiute dall’ufficiale giudiziario. L’argomento non è convincente, atteso che la
prova richiesta dalla legge, per poter vincere la presunzione legale, deve

modo duraturo il collegamento esistente tra il destinatario ed il luogo di destinazione della
comunicazione e deve, altresì, dimostrare che tale situazione è incolpevole, non poteva
cioè essere superata dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza (cfr. Cass.
6.11.2011 n.20482). Nel caso di specie, invece, il ricorrente non fornisce ne’ allega alcun
fatto diretto a dimostrare di non aver potuto avere conoscenza effettiva dell’atto, ne’ che
tale mancanza era ascrivibile ad un comportamento incolpevole, cercando di imputare al
mittente una colpevole utilizzazione di un indirizzo che, in base a regole di correttezza e
buona fede, desunte da un ricostruzione dei fatti del tutto personale, doveva ritenersi da
parte della società da utilizzare successivamente agli altri indicati, tra cui il domicilio eletto
presso il difensore, che, peraltro, concerne le comunicazione relative al giudizio e non
quelle successive allo stesso destinate al lavoratore.
Anche il quarto motivo è infondato, atteso che il riferimento alle conseguenze della
violazione degli obblighi di correttezza e buona fede è solo residualmente rilevante, una
volta precisato che non esiste alcun obbligo di reiterazione della comunicazioni che siano
già giuridicamente compiute alla stregua della norma civilistica e del regolamento postale,
e posto quanto sopra evidenziato con riferimento alla compiuta giacenza, una volta
pervenuto l’atto all’indirizzo del destinatario.
Il quinto motivo, che si fonda sulla violazione dell’art. 2119 c. c. in relazione alla
mancanza del presupposto della scelta di adempimento al’obbligazione di riprendere il
servizio, imputandosi al datore un comportamento doloso inidoneo a renderne impossibile
la realizzazione e sulla omessa valutazione degli aspetti concreti della vicenda fattuale,
sconta una genericità assoluta di prospettazione ed involge aspetti valutativi di
competenza del giudice del merito, non sindacabili nella presente sede di legittimità.
Per il resto ripropone critiche che rifluiscono nelle doglianze espresse nei primi tre motivi
5

necessariamente avere ad oggetto un fatto o una situazione che spezza o interrompe in

quanto alla contestazione del comportamento della società in sede di comunicazione
dell’invito a riprendere servizio rivolto al lavoratore.
In relazione a quanto dedotto nel sesto motivo, non può il Puntillo dolersi genericamente di
una mancata considerazione in concreto della fattispecie e di una omessa valutazione
dell’elemento intenzionale da parte del giudice del merito, atteso che la condotta è stata
coerentemente da quest’ultimo reputata oggettivamente idonea a configurare l’assenza

essere in attesa del formale ripristino del rapporto di lavoro, prevalendo un principio
generale di correttezza nei rapporti tra le parti, rispetto al quale assumono rilevanza
comportamenti delle stesse rispettosi delle reciproche posizioni che non si rivelino lesivi
del rapporto fiduciario. E nella specie la sentenza impugnata ha fornito adeguata
motivazione, in linea con l’insegnamento giurisprudenziale di legittimità, secondo cui, per
stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il
carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in
particolare di quello fiduciario e la cui prova incombe sul datore di lavoro, occorre valutare
da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e
soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità
dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta,
stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del
prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione
disciplinare (V., tra le tante, Cass. 3.11.2011 n. 35). In ordine ai criteri che il giudice deve
applicare per valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la
giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci, affermando ripetutamente
(come ripercorso in Cass., n. 5095 del 2011 e da ultimo ribadito da Cass. 26.4.2012 n.
6498) che, per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento,
occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla
portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati
commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti
e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la
collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la
massima sanzione disciplinare. È stato, altresì, precisato (Cass., n. 25743 del 2007) che il
giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso 6

ingiustificata contestata, non potendosi conferire risalto alla convinzione del lavoratore di

istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità
dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le
circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale
inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale
della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima
sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento

consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.).
In tema di ambito dell’apprezzamento riservato al giudice del merito, è stato in maniera
condivisibile affermato (cfr. fra le altre, Cass. n. 8254 del 2004 e, da ultimo Cass.
6498/2012 cit.) che la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la
prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge, allo scopo di
un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo,
configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di
limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in
sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza
generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali
specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è
quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento
della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il
parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire
giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al
giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici.
A sua volta, Cass. n. 9266 del 2005 ha ulteriormente precisato che l’attività di integrazione
del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c., (norma c.d. elastica) compiuta dal giudice di
merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – mediante
riferimento alla “coscienza generale”, è sindacabile in cassazione a condizione, però, che
la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una
censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica
denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori
dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale.

7

degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non

Al riguardo deve rilevarsi che la decisione impugnata dal lavoratore sotto tale profilo
appare rispettosa dei principi di diritto enunciati in materia da questa Corte, in quanto il
giudice dal gravame ha dato conto delle ragioni poste a fondamento della stessa,
rilevando che la condotta del Puntillo, connotata da un’assenza protrattasi per più di dieci
giorni, anche sotto il profilo dell’elemento intenzionale ha integrato un comportamento
idoneo alla ravvisabilità della giusta causa del recesso, sia perchè le eventuali convinzioni

oggettivo della mancata presentazione al lavoro a seguito di regolare invio della
raccomandata presso il luogo dove secondo legge la stessa doveva essere recapitata, sia
perché ogni conseguenza negativa è imputabile unicamente al predetto, che avrebbe
dovuto predisporre, secondo un principio di buona fede e di ordinaria diligenza,
meccanismi idonei a rendere a lui conoscibile ogni comunicazione datoriale .
Nella specie, il licenziamento per giusta causa è stato adottato in coerenza con le
previsioni collettive e sarebbe stato pertanto onere del lavoratore produrre la
contrattazione di riferimento per contestare validamente la riconducibilità della fattispecie
concreta alla previsione collettiva. Né può sostenersi che non sia stata operata la
necessaria e congrua valutazione dell’elemento psicologico della condotta posta in
essere, posto che l’accertamento compiuto ha evidenziato la sussistenza di un grado di
colpa tale da determinare un senso di perdurante sfiducia nei confronti del lavoratore,
come avallato dalla stessa previsione della contrattazione collettiva secondo una
valutazione preventivamente ed in via generale effettuata dalle stesse parte collettive.
Infine, l’ultimo motivo, con il quale si censura la sentenza nella parte in cui ha omesso di
valutare che I sanzione espulsiva era stata irrogata senza il preventivo procedimento
disciplinare, in violazione anche dell’art. 7, co. 2, dello Statuto dei lavoratori, deve
ritenersi connotato da profili di novità, non risultando che la questione sia stata
prospettata ed abbia formato oggetto del thema decidendum, onde si rivela per tale
ragione inammissibile.
Alla stregua delle esposte argomentazioni, deve pervenirsi al rigetto del ricorso.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza del Puntillo e si liquidano
come da dispositivo.
8

personali del ricorrente sono, per quanto già detto, del tutto irrilevanti a fronte del dato

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite del
presente giudizio, liquidate in euro 100,00 per esborsi ed in euro 3000,00 per compensi
professionali, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 1.10.2013

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