Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25817 del 31/10/2017


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Cassazione civile, sez. III, 31/10/2017, (ud. 13/06/2017, dep.31/10/2017),  n. 25817

Fatto

FATTI DI CAUSA

B.S. convenne dinanzi al Tribunale di Ravenna G.G., la s.n.c. Fi.Fi. di I.F. e C. e la Ras Assicurazioni s.p.a., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguiti all’incidente stradale del (OMISSIS), allorchè, alla guida del suo motociclo, dopo essersi affiancato all’autovettura che lo precedeva nella medesima direzione di marcia nel momento in cui essa aveva concluso la manovra di svolta a destra per immettersi in una via laterale, non aveva potuto evitare l’urto con la macchina condotta da G.G. e di proprietà della s.n.c. Fi.Fi. di I.F. e C., proveniente dalla direzione opposta, la quale aveva iniziato la manovra di svolta a sinistra per immettersi nella medesima via, indebitamente invadendo la semicarreggiata di sua pertinenza.

Nella contumacia di G.G., La Fi.Fi. di I.F. e C. s.n.c., costituitasi in giudizio, non solo invocò il rigetto della domanda ma chiese in via riconvenzionale (chiamando in causa anche l’Helvetia Assicurazioni s.a., che assicurava il motociclo) il risarcimento del danno subito dalla sua autovettura, sul presupposto dell’esclusiva responsabilità dell’attore nella causazione dell’incidente per avere indebitamente sorpassato il veicolo che lo precedeva dopo avere accelerato ed essersi spostato verso il centro della carreggiata.

Alla domanda principale resistè anche la Ras Assicurazioni, la quale eccepì il carattere satisfattivo dei pagamenti già eseguiti in favore dell’attore, in ragione della sua concorrente responsabilità.

L’Helvetia Assicurazioni resistè invece alla domanda riconvenzionale, sul presupposto dell’esclusiva responsabilità del conducente dell’autovettura.

Il Tribunale di Ravenna rigettò la domanda principale di B.S. e accolse quella riconvenzionale della s.n.c. Fi.Fi. di I.F. e C., condannando l’attore e la sua compagnia assicurativa, in solido tra loro, a pagare alla convenuta, a titolo di risarcimento del danno subito dall’autovettura, la somma di Euro 8.000,00, oltre interessi.

La Corte di appello di Bologna, con sentenza in data 8 aprile 2014, in parziale accoglimento dell’impugnazione proposta da B.S., ritenuto il concorso paritetico dei due guidatori nella causazione del danno e reputate sufficienti le somme già erogate in favore dell’attore appellante in funzione del risarcimento della parte di danno imputabile alla convenuta appellata, ha confermato la pronuncia di rigetto della domanda principale e ha ridotto della metà la condanna emessa in accoglimento della domanda riconvenzionale.

Per quel che ancora interessa, la Corte di appello ha deciso sulla base dei seguenti rilievi:

– le conclusioni della CTU dinamica espletata nel corso del giudizio di primo grado (in base alle quali era stata affermata l’esclusiva responsabilità dell’attore) non potevano essere condivise contrastando con la diversa ricostruzione del sinistro desumibile dalle risultanze istruttorie, da cui emergeva la colpa concorrente paritetica dei conducenti;

– in particolare dalla deposizione di un testimone oculare era emerso, per un verso, che il B. aveva sorpassato il veicolo che lo precedeva dopo essersi spostato verso il centro della carreggiata (sebbene restando nella corsia di propria pertinenza); per altro verso, che il G., nell’effettuare la manovra di svolta a sinistra, aveva impegnato l’opposta corsia di marcia costringendo ad una repentina quanto vana frenata il conducente della moto.

– la deposizione del teste aveva trovato conferma nei rilievi dell’autorità intervenuta che avevano evidenziato che la collisione era avvenuta nella corsia di pertinenza del B.;

– doveva dunque concludersi che il conducente dell’autovettura aveva invaso la corsia opposta indebitamente omettendo di dare la precedenza; mentre il conducente della moto aveva tenuto una velocità non adeguata ed aveva eseguito un’imprudente e irregolare manovra di sorpasso in prossimità di un incrocio;

– sotto il profilo del quantum, liquidato il danno non patrimoniale in applicazione delle c.d. “tabelle milanesi” e avuto riguardo al danno patrimoniale futuro (lucro cessante) da perdita di capacità di guadagno (da liquidarsi in base al triplo della pensione sociale) e a quello materiale (danno emergente) conseguente al danneggiamento del motociclo, nonchè alle spese documentate sostenute, applicata la riduzione del 50%, la somma risultante (Euro 103.500,00) era sostanzialmente sovrapponibile a quella già erogata dalla compagnia assicurativa a favore del B. (Euro 105.842,20), entrambe devalutate al momento del sinistro; avuto riguardo al danno materiale subito dall’autovettura e applicata la riduzione del 50%, la somma dovuta alla convenuta doveva essere invece ridotta della metà rispetto a quella che aveva formato oggetto della condanna pronunciata in primo grado.

Avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna propone ricorso per cassazione B.S., affidandosi a quarantuno motivi.

Risponde con controricorso la Allianz s.p.a. (già Ras Assicurazioni s.p.a.).

Gli altri intimati non svolgono attività difensiva.

La controricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

A. Con i primi diciotto motivi B.S. censura l’accertamento, operato dalla Corte di appello, della sua concorrente e paritetica responsabilità nella causazione del sinistro.

A.1. Per evidenti ragioni di connessione vanno esaminati congiuntamente anzitutto i motivi dal primo al terzo, dall’undicesimo al tredicesimo e dal quattordicesimo al diciottesimo.

Con il primo motivo (nullità della sentenza per mancanza di motivazione sulla non configurabilità del nesso causale tra la sua condotta e l’evento di danno), il secondo motivo (omesso esame di un fatto decisivo relativo al nesso causale tra la sua condotta e l’evento di danno) e il terzo motivo (violazione degli artt. 40 e 41 c.p., in ordine all’insussistenza del nesso causale tra la sua condotta e l’evento di danno) il ricorrente deduce che la sua condotta non aveva avuto alcuna incidenza causale nella determinazione del sinistro e che la Corte di appello avrebbe omesso ogni accertamento sul punto. Sostiene che egli non aveva posto in essere alcuna violazione in quanto al momento dell’incidente procedeva a velocità moderata e si era limitato ad affiancarsi alla vettura che lo precedeva nel momento in cui questa aveva mostrato di voltare a destra, senza uscire dalla corsia di propria pertinenza e senza eseguire una manovra di sorpasso; causa esclusiva dell’evento dannoso era stato, al contrario, il comportamento dell’automobilista, il quale aveva indebitamente invaso l’opposta corsia, costituendo un ostacolo insuperabile.

Con l’undicesimo motivo (nullità della sentenza e omesso esame in riferimento alla ritenuta violazione dell’art. 148 C.d.S.), nonchè con il dodicesimo e il tredicesimo (entrambi deducenti violazione e falsa applicazione dell’art. 148 C.d.S.) B.S. ribadisce che egli, a fronte dell’illecito comportamento di G.G., non aveva eseguito una manovra (vietata) di sorpasso ma aveva posto in essere una manovra (consentita) di affiancamento della vettura che lo precedeva, essendo questa impegnata nella svolta a destra.

Con il quattordicesimo (violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 141 C.d.S.), il quindicesimo (nullità della sentenza in relazione alla ritenuta violazione dell’art. 141 C.d.S.), il sedicesimo, il diciassettesimo e il diciottesimo motivo (tutti deducenti omesso esame in riferimento alla medesima violazione), il ricorrente sostiene che non procedeva a velocità eccessiva o inadeguata ma a velocità moderata.

A.1.1. Gli illustrati motivi sono inammissibili.

Essi, infatti, ad onta della loro formale intestazione, attengono a profili di fatto ed invocano una rivalutazione delle risultanze istruttorie al fine di suscitare dalla Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito in contrapposizione a quello motivatamente formulato dalla Corte di appello.

Quest’ultima, con valutazione insindacabile perchè riservata al giudice di merito, dopo aver motivatamente reputato non condivisibili le conclusioni della CTU dinamica esperita in primo grado, ha ritenuto che fosse stata raggiunta la prova della colpa concorrente e paritetica dei due guidatori sulla base delle risultanze della prova testimoniale e dei rilievi dell’autorità intervenuta nell’immediatezza dell’incidente.

Da tali fonti di prova – che avevano dato atto, per un verso, del contegno serbato da B.S. nel superamento dell’autovettura che lo precedeva e, per altro verso, della circostanza che G.G., nell’effettuare la manovra di svolta a sinistra, aveva impegnato l’opposta corsia di marcia ove si era verificata la collisione – la Corte territoriale ha tratto il motivato convincimento che entrambi i guidatori si erano resi autori di infrazioni causalmente rilevanti nella provocazione del sinistro, l’automobilista invadendo la corsia opposta ed omettendo di dare la precedenza, il motociclista tenendo una velocità non adeguata ed eseguendo un’imprudente e irregolare manovra di sorpasso in prossimità di un incrocio.

Nel contrapporre a questo apprezzamento la diversa lettura secondo la quale avrebbe dovuto al contrario ritenersi accertato che il contegno da lui serbato in occasione dell’incidente era stato perfettamente lecito e non aveva avuto alcuna incidenza causale sulla determinazione dell’evento dannoso, il ricorrente omette di considerare che la valutazione delle prove è attività riservata al giudice del merito cui compete anche la scelta, tra le prove stesse, di quelle ritenute più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass. 13/06/2014, n. 13485; Cass. 15/07/2009, n. 16499).

La predetta valutazione non può dunque essere rimessa in discussione in sede di legittimità, con conseguente inammissibilità degli esaminati motivi di ricorso.

A.2. Devono poi essere congiuntamente esaminati i motivi dal quarto all’ottavo, tutti variamente afferenti alla consulenza tecnica espletata nel primo grado di giudizio.

Con il quarto e il quinto motivo (violazione di legge), il sesto e il settimo (nullità della sentenza) e l’ottavo (omesso esame) si censura: a) il contenuto e le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado; b) la nomina del consulente da parte del tribunale, asseritamente effettuata in favore di un professionista incompetente perchè esperto di risparmio energetico e non della materia cinematica-dinamica e compiuta con modalità di designazione (quelle previste dalle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile) asseritamente contrastanti con il diritto convenzionale e con il diritto europeo; c) la mancata rinnovazione della consulenza previa sostituzione del consulente da parte del giudice di appello. Con gli stessi motivi, di conseguenza, si deduce: d) la nullità della consulenza perchè svolta da professionista tecnicamente incompetente; e) la nullità derivata della sentenza in ragione della nullità dell’atto presupposto; f) l’oggettiva compromissione dell’imparzialità del giudice di secondo grado perchè, sebbene formalmente discostatosi dalla CTU, ne sarebbe stato inevitabilmente condizionato; g) la conseguente violazione, da parte della Corte di appello, degli artt. 2, 3, 24, 32, 111 Cost., nonchè degli artt. 6 e 13 CEDU e degli artt. 1,47,53,54,55 della Carta di Nizza. Con i medesimi motivi viene infine invocata, in ragione delle predette violazioni, la trasmissione degli atti alla Corte di giustizia o alla Corte Costituzionale “per una pronuncia sulla legittimità delle norme censurate”.

A.2.1. I motivi in esame devono essere dichiarati inammissibili per difetto di specificità in relazione al tenore della decisione impugnata.

Questa Corte ha infatti ripetutamente affermato che la proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass. 03/08/2007, n. 17125; Cass. 18/02/2011, n. 4036).

L’esigenza di specificità del motivo di ricorso esige infatti la sua riferibilità alla decisione di cui si chiede la cassazione, non essendo ammissibili nel giudizio di legittimità doglianze non aventi specifica attinenza alle ragioni che sorreggono la sentenza impugnata (cfr., in tema, Cass. 31/08/2015, n. 17330).

Ebbene, nella vicenda in esame, la Corte territoriale, dopo avere evidenziato l’incompatibilità, ai fini della ricostruzione delle modalità del sinistro, tra la consulenza tecnica dinamica (cui aveva aderito la sentenza di primo grado) e le risultanze della residua istruttoria, ha scelto di fondare la sua decisione esclusivamente su quest’ultima (ed in particolare sugli esiti della prova testimoniale e sui rilievi compiuti dall’autorità intervenuta), ritenendo non condivisibili le diverse conclusioni rese dal consulente tecnico.

La circostanza che tali conclusioni non siano state poste a base della decisione impugnata priva dunque di specificità le censure rivolte contro la consulenza tecnica e le modalità di designazione del consulente, trattandosi di doglianze con le quali non vengono sottoposte a critica le ragioni che sorreggono la sentenza impugnata ma piuttosto quelle che avevano costituito il fondamento della decisione di primo grado, riformata dal giudice di appello proprio sul rilievo dell’inattendibilità dell’accertamento tecnico peritale.

A.3. Reciprocamente connessi, e dunque da esaminarsi congiuntamente, sono, ancora, il nono e il decimo motivo.

Con il nono motivo (nullità della sentenza) e con il decimo motivo (violazione degli artt. 113 e 116 c.p.c.), il ricorrente si duole infatti che la Corte di appello abbia omesso di considerare il contegno ante causam e in corso di causa della società di assicurazione, la quale, nel liquidargli delle somme a titolo di ristoro del danno, avrebbe ammesso l’esclusiva responsabilità del suo assicurato (il conducente dell’autovettura) nella provocazione dell’incidente, limitando la sua contestazione al quantum della pretesa risarcitoria.

A.3.1. Anche questi motivi sono inammissibili, atteso che nella motivazione della sentenza impugnata è stato evidenziato che la Ras Assicurazioni s.p.a., costituitasi in giudizio, aveva dedotto “di avere già corrisposto al ricorrente gli importi di Euro 2.800,00 in data 19.6.2004 e di Euro 105.000.000 il 15.7.2005, da ritenersi esaustivi, tenuto conto della responsabilità concorrente del B.”.

Diversamente da quanto sostenuto in ricorso, la Corte territoriale, dunque, non solo non ha omesso di prendere in debita considerazione il contegno extraprocessuale e processuale della società di assicurazione ma ha attribuito a tale contegno un significato opposto a quello ascrittogli dal ricorrente, ritenendo che lo stesso non fosse espressivo della volontà di ammettere la sussistenza dell’esclusiva responsabilità del proprio assicurato ma fosse dettato, al contrario, proprio dal previo riconoscimento del concorso dei due conducenti nella provocazione dell’evento dannoso.

Tale valutazione integra un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e non suscettibile di alcun sindacato in sede di legittimità (cfr. già Cass. 09/04/1980, n. 2281), con conseguente inammissibilità delle censure in esame.

B. I successivi motivi (dal diciannovesimo al quarantunesimo) censurano la liquidazione del danno.

B.1. Vanno esaminati congiuntamente, in quanto connessi, i motivi dal diciannovesimo al ventiquattresimo.

Con tali motivi (deducenti violazione degli artt. 1223,1226,1227,2043,2056,2059 c.c.; omesso esame; nullità della sentenza), viene infatti censurata l’asserita violazione dei parametri stabiliti dalle “tabelle milanesi” del 2013 con riguardo alla liquidazione del danno biologico permanente, del danno da invalidità temporanea totale e del danno da invalidità temporanea parziale, nonchè la mancata applicazione di un’adeguata percentuale di “personalizzazione” in relazione alle diverse voci di danno non patrimoniale da risarcire (danno alla vita di relazione, danno esistenziale, danno psichico), avuto riguardo alla gravità e alla natura delle lesioni subite.

B.1.1. Nella parte in cui denunciano la violazione dei parametri tabellari di liquidazione del danno non patrimoniale, del danno da invalidità temporanea totale e del danno da invalidità temporanea parziale, i richiamati motivi sono inammissibili per difetto di autosufficienza, non essendo stato dato atto dell’avvenuto deposito delle predette tabelle, della loro allegazione nel giudizio di merito e della sede processuale in cui siano state eventualmente prodotte.

Va infatti ribadito il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui, in tema di liquidazione del danno alla persona e con riferimento ai criteri di cui alle c.d. “tabelle milanesi”, che non costituiscono fatto notorio, non soddisfa l’onere di autosufficienza di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il ricorso per cassazione che si limiti a riportare le somme pretese in applicazione delle stesse, omettendo di indicarle specificamente tra i documenti ex art. 369 c.p.c., comma 2 e di individuare l’atto con il quale siano state prodotte nel giudizio di merito ed il luogo del processo in cui risultino reperibili; nè è ammissibile la loro successiva produzione ex art. 372 c.p.c., comma 2, non trattandosi di documenti relativi all’ammissibilità del ricorso (Cass. 15/06/2016, n. 12288).

In altre parole, l’ammissibilità della censura avente ad oggetto l’erronea applicazione dei parametri tabellari in sede di liquidazione del danno, presuppone non solo che la questione sia già stata posta nel giudizio di merito, ma anche che il ricorrente abbia versato in atti le tabelle (Cass. 16/06/2016, n. 12397; Cass. 13 novembre 2014, n. 24205).

B.1.2. Nella parte in cui lamentano la mancanza di adeguata “personalizzazione” del risarcimento in relazione alle diverse voci di danno non patrimoniale risarcibili, le illustrate doglianze sono invece inammissibili per difetto di specificità.

Questa Corte ha invero ribadito che il grado di invalidità permanente espresso da un bareme medico legale esprime la misura in cui il pregiudizio alla salute incide su tutti gli aspetti della vita quotidiana della vittima, restando preclusa la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona, quali il danno alla vita di relazione e alla vita sessuale, il danno estetico e il danno esistenziale. Soltanto in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali, tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (Cass. 07/11/2014, n. 23778; Cass. 13/10/2016, n. 20630).

E’ stato anche chiarito che, in ipotesi di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale mediante applicazione delle “tabelle” predisposte dal tribunale di Milano, il giudice, nell’effettuare la necessaria personalizzazione di esso in base alle circostanze del caso concreto, può superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle dette tabelle solo quando la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro tabellare non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborato in astratto in base all’oscillazione ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l’id quod plerumque accidit, dando adeguatamente conto in motivazione di tali circostanze e di come esse siano state considerate (Cass. 23/02/2016, n. 3505).

Nella vicenda in esame, il giudice di appello ha liquidato il danno non patrimoniale subito da B.S. in applicazione delle vigenti tabelle milanesi procedendo altresì all’aumento personalizzato nella misura nel 30 per cento “in ragione, anche, dei due interventi chirurgici subiti e degli inestetismi cicatriziali conseguenti nonchè dei verosimili disagi in soggetto poco più che adolescente, delle sofferenze fisiche e psichiche”.

Avuto riguardo a tale statuizione, il ricorrente, nell’invocare l’applicazione di un più consistente aumento personalizzato, avrebbe dovuto allegare le circostanze specifiche ed eccezionali che differenziavano il pregiudizio non patrimoniale da lui subito rispetto a quello monetizzato attraverso il parametro tabellare standard.

Questo onere di specifica allegazione non può reputarsi soddisfatto attraverso la descrizione delle lesioni subite, in quanto il ricorrente avrebbe dovuto altresì spiegare le ragioni per le quali tali lesioni gli avessero provocato un pregiudizio maggiore di quello che le medesime lesioni avrebbero provocato ad un’altra persona della stessa età.

La mancanza di tale specificazione a fronte della motivata statuizione della Corte territoriale sul punto, rende i motivi di ricorso inammissibili per difetto di specificità.

B.2. Con il venticinquesimo motivo (violazione degli artt. 1223,1226,1227,2043,2056 e 2059 c.c., nonchè dell’art. 36 Cost.) viene censurata la liquidazione del danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa, operata in base al triplo della pensione sociale.

Il ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia indebitamente applicato il predetto criterio sebbene egli avesse offerto la prova dell’attività lavorativa svolta di artigiano carpentiere, sicchè il danno in parola avrebbe dovuto essere liquidato con riferimento al reddito prodotto da tale attività che egli non avrebbe potuto continuare a svolgere in futuro.

B.2.1. Il motivo deve essere dichiarato inammissibile avuto riguardo alla circostanza che la statuizione della Corte territoriale muove dal presupposto fattuale opposto a quello dedotto dal ricorrente.

Il giudice di appello ha infatti ritenuto di applicare il criterio di liquidazione basato sul triplo della pensione sociale “in difetto di prove sull’attività lavorativa e sul reddito”.

Il giudizio circa l’assenza di prova dell’entità del reddito perduto costituisce un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, di talchè non può essere esaminato il motivo di ricorso per cassazione che si basa su un presupposto di fatto contrario a quello insindacabilmente accertato dal giudice del merito.

B.3. I motivi dal ventiseiesimo al trentatreesimo vanno esaminati congiuntamente in quanto connessi.

Con tali motivi (deducenti nullità della sentenza, violazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè degli artt. 1223,1226,1227,2043,2056 e 2059 c.c.), il ricorrente censura infatti la quantificazione del danno patrimoniale emergente operata dalla Corte di appello, con particolare riguardo al danno subito dal motociclo (liquidato in maniera insufficiente), alle spese sostenute per il bollo e l’assicurazione (non liquidate), a quelle relative al recupero della moto incidentata (non liquidate benchè documentate), al danno subito dal vestiario (non liquidato benchè documentato) e alle spese mediche e di assistenza future.

Si duole, inoltre, che con riguardo alle spese delle consulenze tecniche, la Corte di merito abbia dapprima rinviato la decisione al dispositivo (riservando di liquidare tali spese nell’ambito di quelle legali) per poi omettere di provvedere al riguardo, limitandosi ad una pronuncia di compensazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

B.3.1. Anche questi motivi vanno dichiarati inammissibili.

Invero, essi, nella parte in cui censurano l’insufficienza della liquidazione del danno patrimoniale emergente in relazione al pregiudizio subito dalla motocicletta e alle spese a vario titolo sostenute, invocano inammissibilmente un diverso e più favorevole apprezzamento delle risultanze istruttorie rispetto a quello sul punto compiuto dalla Corte di merito, la quale ha quantificato il danno riportato dal motociclo “in misura non superiore a quella riconosciuta dalla stessa appellata” sul rilievo che l’appellante non avesse fornito “prove specifiche” e ha riconosciuto il rimborso delle spese sostenute “nei limiti di quelle dedotte e documentate che il CTU ha ritenuto congrue, con esclusione delle spese future, di assistenza e di ogni altra di cui non è stato provato l’esborso o comunque la sua consequenzialità rispetto al sinistro”.

B.3.2. Nella parte in cui deducono omessa pronuncia sulle spese relative alle consulenze, i motivi in esame si infrangono invece sul principio di diritto secondo cui, mentre sussiste omessa pronuncia allorchè il giudice ometta di statuire sulle spese processuali, non altrettanto può dirsi quando il giudice, pur pronunciando sulle spese processuali (anche disponendone la compensazione), ometta di statuire su chi graveranno definitivamente le spese della consulenza tecnica, poichè in tal caso, la pronuncia sulle spese processuali ricomprende implicitamente quella sulle spese di consulenza (Cass. 17 gennaio 2013, n. 1023).

B.4. La declaratoria di inammissibilità, ancora, si impone anche con riguardo ai motivi dal trentaquattresimo al trentaseiesimo, con i quali – deducendo violazione degli artt. 1223,1226,1227,2043,2056 e 2059 c.c., nonchè dell’art. 185 c.p.; omesso esame; nullità della sentenza per omessa pronuncia – si censura la pronuncia impugnata per avere omesso di procedere all’autonoma liquidazione del danno morale subiettivo.

B.4.1. Al riguardo va rammentato che con le sentenze delle Sezioni Unite di questa Corte dell’11 novembre 2008 il danno non patrimoniale è stato ricondotto ad una nozione unitaria, pur avvertendosi della necessità di tenere conto di tutti i pregiudizi subiti dalla vittima nel caso concreto nonchè dell’effettiva consistenza delle sofferenze da lei patite, in funzione dell’integralità del ristoro, da salvaguardare attraverso l’eventuale personalizzazione della liquidazione (cfr., in particolare, Cass. Sez. U 11/11/2008, n. 26972, Rv. 605495).

L’adeguamento dei criteri di liquidazione al nuovo sistema è stato effettuato con le tabelle milanesi elaborate a far tempo dal 2009, le quali, al fine di assicurare la liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, hanno previsto che il valore biologico “standard” (parametrato all’età e alla percentuale di invalidità del danneggiato) sia aumentato, per tenere conto della componente morale (“dolore”, “sofferenza soggettiva”), di una percentuale crescente in relazione al grado di invalidità e, per tenere conto delle peculiarità del caso concreto, di percentuali di “personalizzazione” decrescenti al crescere del grado di invalidità e di sofferenza.

Con la sentenza n. 12408 del 2011 questa Corte – movendo da una nozione di equità, intesa non solo, tradizionalmente, come criterio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno (e dunque come criterio liquidatorio volto a garantire un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto), ma anche come regola volta ad assicurare uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi – ha riconosciuto ai criteri di liquidazione adottati dalle tabelle milanesi, già ampiamente diffusi sul territorio nazionale, la valenza di parametro di conformità della valutazione equitativa operata dal giudice alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., salva la sussistenza, in concreto, di circostanze idonee a giustificare il ricorso ad un criterio diverso (cfr. Cass. 07/06/2011, n. 12408, Rv. 618048).

I principi affermati dalla sentenza n. 12408 del 2011 hanno trovato conferma nella giurisprudenza successiva (cfr., tra le tante, Cass. 06/03/2014, n. 5243; Cass. 15/10/2015, n. 20895; Cass. 20/04/2016, n. 7768), sicchè può concludersi, per un verso, che costituisce jus receptum che il danno biologico (cioè la lesione della salute) e quello morale (cioè la sofferenza interiore) integrano componenti autonome dell’unitario danno non patrimoniale le quali, pur valutate nella loro differenza ontologica, debbono sempre dar luogo ad una valutazione globale; per altro verso, che, nell’ipotesi in cui si impugni la sentenza di merito per asserita mancata liquidazione del cosiddetto danno morale, la censura può ritenersi ammissibile solo ove il ricorrente non si limiti ad insistere sulla separata liquidazione di tale voce di danno, ma articoli chiaramente la doglianza come erronea esclusione, dal totale ricavato in applicazione delle “tabelle milanesi”, delle componenti di danno diverse da quella originariamente descritta come “danno biologico” (cfr., in termini, Cass. 24/09/2014, n. 20111).

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha fatto buongoverno dei principi surrichiamati in quanto, sulla base di un’articolata e congrua motivazione ed in applicazione delle vigenti tabelle milanesi, ha proceduto alla liquidazione globale del danno non patrimoniale “considerato unitariamente in tutti i suoi aspetti”.

Appaiono dunque inammissibili le censure formulate dal ricorrente con riguardo alla ritenuta necessità di provvedere all’autonoma liquidazione della voce relativa al danno morale soggettivo, le quali non tengono conto del carattere tendenzialmente onnicomprensivo delle previsioni delle predette tabelle.

B.5. Con il trentasettesimo (violazione dell’art. 3 Cost., art. 1226 c.c., artt. 113 e 116 c.p.c.), il trentottesimo (omesso esame), il trentanovesimo (nullità della sentenza per omessa pronuncia) e il quarantesimo motivo (omesso esame), il ricorrente si duole della mancata liquidazione della rivalutazione monetaria e degli interessi compensativi. Lamenta, in particolare, che la Corte di appello, nell’operare l’integrale compensazione tra le somme spettantegli e gli acconti già ricevuti, previa devalutazione di entrambi alla data del sinistro, abbia violato, con riguardo alla rivalutazione monetaria, il principio secondo cui la stessa deve essere liquidata anche d’ufficio nei debiti di valore e, con riguardo agli interessi, il principio secondo cui, nell’ipotesi in cui il danneggiato riceva un acconto prima della liquidazione definitiva, tale pagamento va sottratto dal credito risarcitorio attraverso un’operazione che consiste nel rendere omogenei entrambi (devalutandoli alla data dell’illecito ovvero rivalutandoli alla data della liquidazione), nel detrarre l’acconto dal credito e, infine, nel calcolare gli interessi compensativi dapprima sull’intero capitale (per il periodo che va dalla data dell’illecito al pagamento dell’acconto), quindi sulla somma che residua dopo la detrazione dell’acconto, per il periodo che va dal suo pagamento fino alla liquidazione definitiva.

B.5.1. Gli illustrati motivi – da sottoporre ad esame congiunto in ragione dell’evidente connessione – sono fondati per quanto di ragione.

Va premesso che nelle obbligazioni risarcitorie, aventi natura di debito di valore, la somma spettante deve essere annualmente rivalutata secondo gli indici Istat dal momento dell’illecito sino al momento della liquidazione giudiziale, salvo che non venga liquidata in moneta attuale; al creditore spetta inoltre il risarcimento del danno derivante dal ritardo nel pagamento della somma predetta, consistente nel mancato godimento delle utilità che da essa avrebbe conseguito, il quale può essere liquidato attraverso la corresponsione degli interessi compensativi ad un saggio equitativamente individuato dal giudice ed eventualmente coincidente con quello legale (cfr. Cass. Sez. U 17/02/1995, n. 1712; successivamente v., in particolare, Cass. 18/07/2011, n. 15709 e Cass. 17/09/2015, n. 18243). Dal momento della liquidazione giudiziale (momento in cui, con la pubblicazione della sentenza, l’obbligazione si converte in debito di valuta) non è più dovuta la rivalutazione monetaria, ma trova applicazione l’art. 1224 c.c., comma 1, sicchè sulla somma ormai definitivamente liquidata, non più soggetta a rivalutazione, spettano gli interessi moratori (di norma al tasso legale) sino al momento dell’effettivo pagamento.

B.5.2. Ciò premesso, nell’ipotesi in cui tra il momento dell’illecito e il momento della liquidazione definitiva il creditore riceva degli acconti, lo scomputo di tali acconti dalla somma complessivamente spettante deve avvenire tenendo conto del surrichiamato fondamento del diritto alla corresponsione degli interessi compensativi.

Questo diritto – si è detto – trova fondamento non già nell’operatività di una regola di cumulo automatico tra rivalutazione e interessi (analoga a quella che si rinviene, ad es., nei crediti di lavoro: art. 429 c.p.c., u.c.) ma nell’esigenza di risarcire al creditore il danno (c.d. lucro cessante finanziario) che si presume essergli derivato dalla circostanza di non avere potuto disporre tempestivamente della somma medesima e di non averla potuta dunque impiegare in maniera remunerativa.

La liquidazione di questo danno, con riguardo al periodo compreso tra l’evento dannoso e la ricezione dell’acconto, deve dunque avvenire mediante la corresponsione degli interessi sull’intero capitale, dovendo gli stessi compensare il mancato godimento delle utilità ricavabili dal tempestivo investimento dell’intera somma dovuta.

Invece, con riguardo al periodo compreso tra il pagamento dell’acconto e la liquidazione definitiva, poichè il pregiudizio da lucro cessante si riduce al mancato godimento delle utilità derivanti dall’impiego remunerativo del capitale residuo, la corresponsione degli interessi compensativi deve avvenire, non sull’intera somma spettante a titolo di risarcimento, ma sulla somma che residua una volta detratto l’acconto versato e debitamente rivalutato.

B.5.3. I rilievi che precedono consentono di affermare ribadendo principi già ripetutamente espressi da questa Corte (Cass. 19/03/2014, n. 6347; Cass. 20/04/2017, n. 9950) – che l’operazione di scomputo degli acconti già versati dalla somma complessivamente dovuta al creditore a titolo di risarcimento, per essere corretta, deve articolarsi nelle seguenti operazioni:

a) in primo luogo occorre rendere omogenei il credito risarcitorio e l’acconto devalutandoli alla data dell’illecito ovvero rivalutandoli alla data della liquidazione;

b) in secondo luogo occorre detrarre l’acconto dal credito;

c) in terzo luogo occorre calcolare, sulla base del saggio equitativamente individuato (che può coincidere con quello legale), gli interessi compensativi, distinguendo il periodo intercorrente tra la data dell’illecito e quella del pagamento dell’acconto (in relazione al quale gli interessi vanno calcolati sull’intero capitale) dal periodo intercorrente tra quest’ultima data e quella della liquidazione definitiva (in relazione al quale gli interessi vanno calcolati sulla somma che residua dopo la detrazione dell’acconto rivalutato).

B.5.4. Alla luce di queste considerazioni emerge l’omissione in cui è incorsa la Corte territoriale nell’operare la sottrazione degli acconti versati a B.S. dalla somma complessivamente liquidatagli a titolo di risarcimento del danno.

Invero, essa, dopo avere debitamente devalutato alla data del sinistro gli importi liquidati a titolo di risarcimento del danno e quelli versati a titolo di acconto, non avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto della sostanziale sovrapponibilità di questi ultimi ai primi (con conseguente integrale “compensazione” tra gli stessi), ma avrebbe dovuto considerare le diverse date in cui gli acconti erano stati versati calcolando, in relazione ad ogni periodo, gli interessi compensativi secondo le modalità sopra illustrate.

Non avendo proceduto a tale calcolo, la Corte di merito ha sostanzialmente omesso di fare applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 1712 del 1995, negando al danneggiato il risarcimento del pregiudizio derivatogli dalla ritardata apprensione della somma spettantegli, consistente nel mancato godimento delle utilità che avrebbe conseguito dalla tempestiva percezione, dapprima dell’intero capitale, successivamente di quello residuato in seguito alla detrazione dell’acconto.

La sentenza deve quindi essere cassata in accoglimento, per quanto di ragione, del trentasettesimo, del trentottesimo del trentanovesimo e del quarantesimo motivo.

B.5.5. Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti in fatto (emergendo dalla decisione impugnata ed essendo sostanzialmente incontroverso che il ricorrente ha ricevuto le somme di Euro 2.800,00 in data 19 giugno 2004 e di Euro 105.000,00 in data 17 luglio 2005) questa Corte può decidere la causa nel merito (art. 384 c.p.c., comma 2), utilizzando, per il calcolo degli interessi compensativi, un saggio di interessi pari a quello legale, avuto riguardo, oltre che all’entità del credito, alla circostanza che l’attore non ha nè allegato nè provato specifiche modalità di impiego remunerativo della somma, ove la stessa fosse stata da lui tempestivamente ricevuta.

Devono dunque condannarsi i convenuti, in solido tra loro, a pagare a B.S. gli interessi compensativi al tasso legale sulla somma di Euro 103.500,00 (intero capitale) con riguardo al periodo intercorrente tra la data dell’illecito ((OMISSIS)) e la data di ricevimento del primo acconto di Euro 2.800,00 (19 giugno 2004) e sulla minor somma di Euro 100.700,00 (risultante dalla sottrazione del primo acconto dall’intero capitale) con riguardo al periodo intercorrente tra la data di versamento del primo acconto (19 giugno 2004) e quella del pagamento della successiva somma di Euro 105.000,00 (15 luglio 2005).

B.6. Con il quarantunesimo motivo (“violazione o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: obbligo del giudice di applicare d’ufficio le norme di diritto comunitario ex art. 113 c.p.c., come richiamato dalle sentenze della Corte di giustizia della Comunità europea”) il ricorrente lamenta l’avvenuta violazione del suo diritto di agire in giudizio quale diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali.

B.6.1. La doglianza è inammissibile in quanto priva dei necessari requisiti di specificità e tassatività, atteso che alla generica enunciazione dell’asserita violazione del diritto di azione e al richiamo della norma costituzionale e delle fonti sovranazionali che disciplinano tale diritto, non si accompagna la necessaria critica delle specifiche statuizioni della sentenza impugnata nelle quali la predetta violazione si sarebbe sostanziata.

Al riguardo deve rammentarsi che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, i quali devono necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità e devono essere precisamente enunciati in relazione alla necessità che il vizio denunciato rientri in una delle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., non potendo limitarsi alla critica generica della sentenza impugnata (Cass. 28/11/2014, n. 25332; Cass. 22/09/2014, n. 19959).

Deve dunque dichiararsi l’inammissibilità del motivo in esame.

C. L’esito della controversia giustifica – ai sensi dell’art. 92 c.p.c., nella formulazione anteriore a quella risultante dalla sostituzione disposta dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, applicabile in ragione dell’epoca di introduzione del giudizio di primo grado – l’integrale compensazione tra tutte le parti sia delle spese dei gradi di merito (in cui sono comprese quelle di consulenza tecnica) sia di quelle del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie, per quanto di ragione, il trentasettesimo, il trentottesimo, il trentanovesimo e il quarantesimo motivo del ricorso; dichiara inammissibili gli altri motivi; in relazione ai motivi accolti, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, condanna i convenuti, in solido tra loro, a pagare a B.S. gli interessi compensativi al tasso legale sulla somma di Euro 103.500,00 dal (OMISSIS) al 19 giugno 2004 e sulla somma di Euro 100.700,00 dal 20 giugno 2004 al 15 luglio 2005.

Compensa interamente tra le parti le spese di tutti i gradi di giudizio, comprese le spese di CTU.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 13 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2017

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