Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25813 del 23/09/2021

Cassazione civile sez. trib., 23/09/2021, (ud. 11/05/2021, dep. 23/09/2021), n.25813

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4254-2015 proposto da:

D.L.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE G. MAZZINI

11, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE ESCALAR, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato VITTORIO GIORDANO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6194/2014 della COMM. TRIB. REG. CAMPANIA,

depositata il 20/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’11/05/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

D.L.D. ha chiesto la cassazione della sentenza n. 6194/52/2014, depositata dalla Commissione tributaria regionale della Campania il 20 giugno 2014, che, confermando la decisione di primo grado, aveva rigettato il ricorso introduttivo della contribuente avverso l’avviso di accertamento notificato dalla Agenzia delle entrate, relativo all’anno d’imposta 2007.

Ha rappresentato che all’esito di un accertamento bancario condotto ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1997, n. 600, art. 32, l’Amministrazione finanziaria aveva rideterminato il reddito 2007 della D.L., recuperando ad imponibile Euro 194.542,00, importo ritenuto non dichiarato e inquadrato dall’Ufficio tra i redditi diversi. Era stato pertanto richiesto il pagamento di Euro 80.131,00 a titolo d’imposta, nonché applicate le sanzioni. La contribuente aveva contestato gli esiti dell’accertamento: a) per la natura giuridica attribuita ai maggiori imponibili (redditi diversi), a cui si riteneva inapplicabile il citato art. 32; b) per l’erroneità dei ricavi accertati, senza deduzione dei relativi costi; c) perché, trattandosi di operazioni tutte riconducibili ad attività extracontabili della società Etos Group s.r.l., della quale era socia, occorreva quanto meno escludere dai maggiori redditi gli importi che lo stesso Ufficio aveva riconosciuto prelevati dai conti bancari per versarli alla suddetta società; d) perché l’Agenzia non aveva provveduto a detrarre i costi da determinarsi forfettariamente. Era pertanto seguito il contenzioso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Napoli, che con sentenza n. 399/17/2013 aveva rigettato il ricorso introduttivo della contribuente. Anche la Commissione tributaria regionale della Campania, con la decisione ora al vaglio della Corte, ha rigettato l’appello. Il giudice regionale ha rilevato che la sentenza di primo grado aveva riconosciuto corretto l’utilizzo dei dati emergenti dalle movimentazioni bancarie, considerando come ricavi tanto i versamenti quanto i prelevamenti, senza distinzione sulla natura del reddito, e dunque anche con riferimento ai redditi diversi; ha pertanto ritenuto di condividere la decisione del giudice provinciale, coerente con la giurisprudenza di legittimità. Ha sostenuto che in ogni caso dalle causali dei prelievi e dagli altri dati disponibili non erano emersi elementi per ricondurre quelle movimentazioni tra le operazioni extracontabili della Etos Group. Mancava inoltre la prova dei costi deducibili.

La ricorrente ha censurato la decisione affidandosi a due motivi, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Nell’adunanza camerale dell’11 maggio 2021 la causa è stata discussa e decisa sulla base degli atti difensivi depositati dalle parti.

Diritto

CONSIDERATO

che:

La contribuente lamenta:

con il primo motivo la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62, perché il giudice d’appello avrebbe erroneamente ritenuto che le presunzioni previste dalla disciplina in materia di indagini bancarie legittimi l’accertamento dei redditi riconducibili alla categoria dei redditi diversi;

con il secondo motivo la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 53 Cost., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, nonché della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 402, lett. a), n. 1), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, perché erroneamente nella pronuncia si è ritenuta in ogni caso applicabile la presunzione di riconducibilità ai ricavi anche dei prelevamenti effettuati dal contribuente che sia titolare di redditi diversi (quali redditi di lavoro autonomo non esercitato abitualmente);

I due motivi possono essere trattati congiuntamente, perché connessi dalla critica rivolta alla sentenza impugnata in ordine all’interpretazione del citato art. 32, e in particolare per aver ritenuto applicabili le regole probatorie presuntive sugli accertamenti bancari ai redditi di qualunque natura, compresi dunque i redditi diversi, laddove quelle regole dovevano trovare applicazione ai soli redditi d’impresa e di lavoro autonomo; nonché per aver ritenuto riconducibili ai ricavi tutte le operazioni bancarie eseguite sul conti correnti, di versamento e di prelievo, laddove, per essere qualificati come redditi diversi conseguiti da attività di lavoro autonomo non abitualmente esercitata dalla contribuente, occorreva escludere le operazioni di prelievo.

La difesa della D.L., in ricorso ed in memoria, analizzando il dato normativo, evidenzia la circostanza che il citato art. 32, comma 1, n. 2, utilizzi (nella formulazione ratione temporis vigente) i termini “ricavi” o “compensi”; il termine “compensi” è ripreso anche dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 54, dedicato ai redditi di lavoro autonomo. Diversamente, per identificare i redditi diversi, nel citato D.P.R. n. 917, art. 71, il Legislatore utilizza il sintagma “ammontare percepito”. Dall’utilizzo di un lessico diverso desume dunque che le regole presuntive previste dal citato art. 32, possano afferire ai soli redditi d’impresa e di lavoro autonomo, non anche a quelli diversi. Sostiene (nel secondo motivo) che la decisione doveva comunque escludere dalla determinazione del reddito le operazioni bancarie di prelevamento, atteso che la sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 2014 (sentenza 6 ottobre 2014, n. 228) ha escluso per i lavoratori autonomi le regole di presunzione probatoria relativamente alle operazioni bancarie di prelievo. Il giudice d’appello invece non ha tenuto conto che, a maggior ragione, per i redditi diversi derivanti dall’esercizio non abituale di attività di lavoro autonomo, i prelevamenti non potevano concorrere presuntivamente alla determinazione del reddito.

Le questioni poste con i primi due motivi di ricorso possono così riassumersi: a) se le regole presuntive probatorie prescritte dal citato art. 32, riguardino solo i redditi d’impresa e (ora nei limiti delle operazioni di versamento) i redditi di lavoro autonomo; b) ove negativa la risposta al primo quesito, se per i redditi diversi debbano comunque escludersi le operazioni di prelevamento, così come riconosciuto dalla Corte Costituzionale riguardo ai redditi di lavoro autonomo.

La giurisprudenza di legittimità, che secondo la difesa della contribuente avrebbe manifestato tre distinti orientamenti sulla prima questione, ha nel tempo declinato l’interpretazione della disciplina con consapevole evoluzione della lettura del dato normativo, sino ad approdi che questo Collegio reputa ormai consolidati e che comunque condivide.

Partendo dalla portata, sul piano probatorio, della regola presuntiva prevista dalla norma (presunzione juris tantum), questa Corte ha affermato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, è legittima, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, l’utilizzazione da parte dell’amministrazione finanziaria dei dati relativi ai movimenti bancari del contribuente, che costituiscono valida prova presuntiva, anche senza l’indicazione analitica delle singole annotazioni utilizzate per la ricostruzione dell’imponibile, essendo onere del contribuente l’allegazione della prova liberatoria, la quale, avendo ad oggetto le singole operazioni, deve a sua volta commisurarsi alla natura ed alla consistenza degli elementi indiziari contrari impiegati dall’amministrazione (Cass., 13/05/2003, n. 7329; 13/06/2007, n. 13819; 21/03/2008, n. 7766; 13/05/2011, n. 10578). Ciò si traduce nell’ulteriore chiarificazione, secondo cui, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, mentre si determina un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (ex multis, Cass., 4/08/2010, n. 18081; 30/12/2015, n. 26111; 29/07/2016, n. 15857).

Ciò chiarito, secondo una interpretazione, apprezzata dalla difesa della ricorrente, taluni arresti della giurisprudenza di legittimità avrebbero affermato il principio secondo cui la presunzione iuris tantum stabilita nel citato art. 32, opera esclusivamente ai fini della determinazione del quantum debeatur, e non anche ai fini dell’individuazione delle condizioni che legittimano l’accertamento, il quale deve trovare la sua giustificazione in altre norme (Cass., 11/11/2009, n. 23852; 29/07/2016, n. 15860). Questi precedenti in realtà vogliono solo evidenziare che il citato art. 32, prescrive una presunzione iuris tantum ai fini della quantificazione del reddito, mentre la natura del reddito va desunta da altri elementi (ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, per le persone fisiche, o ai sensi della medesima disciplina, art. 39, per i soggetti giuridici d’imposta tenuti alla contabilità), ma non vogliono affatto escludere l’applicabilità stessa del citato art. 32, a soggetti che non rivestano la qualifica di imprenditore o di professionista. Tanto più che è lo stesso primo precedente (il cui principio è riportato poi nel secondo precedente), ad affermare, con riguardo alla funzione del citato art. 32, che “Il legislatore, in altre parole, dà rilievo normativo, connotandola quale presunzione juris tantum, alla massima di esperienza che le rimesse in un conto corrente di un contribuente sono normalmente derivanti dalla sua attività (…)”, con ciò mostrando consapevolezza della riconducibilità a reddito del contribuente, sul cui conto corrente siano state verificate movimentazioni bancarie altrimenti non giustificate, degli importi medesimi, qualunque natura essi abbiano.

D’altronde l’orientamento interpretativo di gran lunga più confermato da questa Corte già da tempo evidenzia che i dati e gli elementi risultanti dai conti correnti bancari vanno ritenuti rilevanti ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, se il titolare del conto non fornisca adeguata giustificazione, a prescindere dalla prova preventiva che il contribuente eserciti una determinata attività e dalla natura lecita o illecita dell’attività stessa (Cass., 13/05/2011, n. 10578; 27/09/2011, n. 19692). Principio che viene esplicitato in maniera inequivoca dall’affermazione secondo cui in tema d’imposte sui redditi, la presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari, in forza del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2 (Cass., 20/01/2017, n. 1519; 16/11/2018, n. 29572; 16/06/2020, n. 11623). Si tratta di un orientamento ormai consolidato, che – a differenza di quanto assume la difesa della contribuente – non è declinato da varianti interpretative più rigorose o meno rigorose, e che può riassumersi nella condivisa affermazione secondo cui l’utilizzazione degli accertamenti bancari, quale strumento di acquisizione di prove presuntive di maggiori ricavi od operazioni imponibili, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2, non è subordinata alla prova che il contribuente eserciti attività d’impresa o di lavoro autonomo, atteso che, ove non sia contestata la legittimità dell’acquisizione dei dati risultanti dai conti correnti bancari, i medesimi possono essere utilizzati sia per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta (impresa, arte o professione), sia per quantificare il reddito da essa ricavato, incombendo al contribuente l’onere di provare che i movimenti bancari che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni non sono fiscalmente rilevanti (Cass., 28/02/2017, n. 5135; 13/10/2011, n. 21132 in materia di Iva).

Da tanto deve allora concludersi che le ragioni del primo motivo, con il quale si è proposta la critica alla decisione del giudice d’appello per aver ritenuto che le presunzioni probatorie previste dall’art. 32, legittimino l’accertamento di redditi riconducibili alla categoria dei redditi diversi, non è fondato. Per qualunque reddito, non solo quelli derivanti da attività d’impresa o di lavoro autonomo, è possibile il ricorso all’accertamento bancario, ed in tal senso la decisione del giudice regionale ha tenuto conto dei principi enucleati da questa Corte. Condividendo la decisione del giudice di primo grado, è stata infatti valorizzata la circostanza che con gli accertamenti bancari erano stati accertati redditi, di cui il contribuente non aveva fornito giustificazione.

A diverse conclusioni deve pervenirsi con riguardo al secondo motivo, con il quale la contribuente ha denunciato l’erroneità della pronuncia, che non ha escluso dall’applicazione della presunzione di riconducibilità ai ricavi i prelevamenti effettuati dal contribuente, pur qualificato come titolare di redditi diversi derivati da lavoro autonomo non esercitato abitualmente, e ciò alla luce della sentenza n. 228 del 2014, che ha escluso la presunzione probatoria di riconducibilità al reddito dei prelevamenti, con riferimento ai lavoratori autonomi. La difesa ha nello specifico sostenuto che se quella pronuncia, con l’eliminazione del riferimento ai “compensi”, relativi ai lavoratori autonomi, ha escluso i prelevamenti dalla presunzione iuris tantum di fonti di ricchezza rilevante ai fini della determinazione del reddito, a maggior ragione la qualificazione data dall’Amministrazione finanziaria del reddito della contribuente, ossia di reddito rientrante nella categoria dei redditi diversi, quali redditi da lavoro autonomo non abitualmente esercitato – che presuppone una organizzazione ancor più semplificata del professionista esercente abitualmente quell’attività -, escluderebbe del pari i prelevamenti dalle fonti di rideterminazione del reddito annuale.

La critica non tiene conto che nella pronuncia impugnata il giudice regionale ha fatto riferimento al contenuto dell’atto impositivo, che, riprodotto nel medesimo ricorso (pag. 37), menzionava integralmente i redditi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, lett. l), e dunque “i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”. Ne discende che non vi è stato, da parte dell’Agenzia delle entrate e del giudice d’appello, uno specifico riferimento alla attività professionale non esercitata abitualmente ma all’intera fattispecie compresa nella lett. l). Ciò tuttavia non muta i termini della questione.

Questa Corte infatti, con orientamento altrettanto consolidato, a cui questo Collegio intende dare continuità, ha affermato che l’applicazione a tutti i contribuenti delle regole presuntive dettate dal citato art. 32, afferisce ai soli versamenti, mentre, all’esito della sentenza della Corte Costituzionale n. 228 cit., le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito d’impresa (Cass., 1519/2017 cit.; 29572/2018, cit.). Il principio trova addirittura dei precedenti, che avevano avvertito la necessità di circoscrivere la portata del citato art. 32, già in epoca anteriore all’intervento della Corte Costituzionale. Si era infatti affermato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, i dati e gli elementi risultanti dai conti correnti bancari assumono sempre rilievo ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, se il titolare di detti conti non fornisca adeguata giustificazione, ai sensi dell’art. 32, poiché questa previsione e quella di cui al medesimo D.P.R., art. 38, hanno portata generale, riguardando la rettifica delle dichiarazioni dei redditi di qualsiasi contribuente, quale che sia la natura dell’attività svolta e dalla quale quei redditi provengano; né può inferirsi l’applicabilità del citato art. 32, ai soli soggetti che esercitino attività di impresa o di lavoro autonomo per via del riferimento testuale della disposizione ai “ricavi” ed alle “scritture contabili”, in quanto il dato letterale risulta “limitativo” unicamente della possibilità per l’Ufficio di desumere reddito dai “prelevamenti”, giacché non può presumersi in via generale e per qualsiasi contribuente la produzione di un reddito da una spesa, a differenza che per imprenditori o lavoratori autonomi, per i quali, invece, le spese non giustificate possono ragionevolmente ritenersi costitutive di investimenti (cfr. Cass., 19692/2011 cit., con riguardo all’attività di collaborazione coordinata e continuativa come amministratore di società a responsabilità limitata). Dunque già sulla base di questa giurisprudenza era legittimo dubitare della partecipazione alla determinazione del reddito dei prelevamenti eseguiti da chi non svolgesse attività d’impresa o professionale in forma abituale, come il percettore di redditi diversi. La sopravvenuta sentenza della Corte Costituzionale ha sgombrato definitivamente ogni dubbio sul perimetro applicativo dell’art. 32, e sugli effetti degli accertamenti bancari.

Va rammentato anzi che il mutamento normativo prodotto da una pronuncia d’illegittimità costituzionale, configurandosi come ius superveniens, impone anche nella fase di cassazione la disapplicazione della norma dichiarata illegittima e l’applicazione della disciplina risultante dalla decisione anzidetta.

Ebbene, la pronuncia ora impugnata non ha fatto corretta applicazione del principio già enunciato da questa Corte e da ultimo riportato, poiché non ha escluso dalla determinazione del reddito le operazioni bancarie di prelevamento, pur in presenza di un reddito qualificato dall’Ufficio, nel proprio atto impositivo, come reddito diverso (e non d’impresa o di lavoro autonomo), e comunque l’intervento della Corte delle leggi non può che travolgere la decisione impugnata per le ragioni spiegate.

Il secondo motivo trova dunque accoglimento.

La sentenza va dunque cassata in riferimento al motivo accolto e la causa va rinviata alla Commissione tributaria regionale della Campania, che in diversa composizione dovrà rideterminare il maggior reddito della contribuente, relativo all’anno d’imposta 2007, tenendo conto delle sole operazioni bancarie di versamento e con esclusione di quelle di prelevamento, nonché, conseguentemente, dovrà provvedere alla rideterminazione della sanzione applicata, oltre che alla liquidazione della spese processuali del giudizio di legittimità.

PQM

Accoglie il secondo motivo, rigetta il primo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2021

 

 

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