Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25800 del 02/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 02/12/2011, (ud. 12/10/2011, dep. 02/12/2011), n.25800

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE RENZIS Alessandro – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 301-2009 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati RICCIO

ALESSANDRO e LANZETTA ELISABETTA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.G., BU.RO., BE.AD.,

F.G., M.V., G.G.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA UFENTE 12, presso lo studio

dell’avvocato BRESMES FRANCESCO, che li rappresenta e difende, giusta

delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 298/2008 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 10/09/2008 r.g.n. 714/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/10/2011 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato LANZETTA ELSABETTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 298 del 10.09.2008, la Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma della pronunzia resa dal Tribunale di Cremona – che aveva accolto la domanda dei ricorrenti, dipendenti part time L. n. 662 del 1996, ex art. 1, comma 185 e condannato l’INPS a corrispondere ai predetti la pensione di anzianità in misura integrate L. n. 289 del 2002, ex art. 44 – condannava l’istituto a corrispondere agli appellati gli interessi al tasso legale sulle differenze di rateo arretrate, dalla domanda amministrativa per quelli antecedenti e dalla scadenza per quelli successivi, confermando nel resto la decisione.

Gli appellati avevano fruito della disciplina normativa di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 185, 186 e 187 per ottenere la conversione del rapporto di lavoro a tempo pieno in part time, con godimento parziale del trattamento pensionistico. Evidenziava la Corte territoriale che il tenore letterale della disciplina di cui alla L. n. 662 del 1996 era tale da denotarne il carattere di normativa di portata generale e che con la stessa si riservava al datore la facoltà di fare accedere al part time i dipendenti con determinati requisiti anagrafici e contributivi, facoltà rispetto alla quale per le amministrazioni pubbliche venivano solo indicati i presupposti di esercizio.

Con la L. n. 289 del 2002, art. 44, comma 2, era stato abolito il divieto di cumulo tra pensioni di anzianità e redditi di lavoro a decorrere dal gennaio 2002 e la norma di carattere generale sicuramente doveva riferirsi alla disciplina anch’essa generale dei divieti di cumulo parziale di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 185, neanche l’INPS contestando tale riferimento. Il problema si poneva, nella fattispecie, con riferimento ai dipendenti della P.A., ma nulla autorizzava distinzioni tra dipendenti pubblici e privati e non era prevista alcuna specialità della disciplina ex comma 185 cit., applicabile ai pubblici dipendenti, che portasse ad escludere per gli stessi l’applicabilità della successiva disciplina generale di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 44.

Sicuramente – affermava la Corte del merito – non incideva nel senso della differenziazione la particolare stabilità del rapporto e, peraltro, il D.M. 29 luglio 1997, n. 331, art. 3, con il quale erano state emanate le norme regolamentari per la relativa applicazione, aveva disposto che il regime previsto dal comma 185 citato nei confronti dei dipendenti delle P. A. avesse validità per tutta la residua durata del rapporto di lavoro ed era diretto a sancire l’irreversibilità della scelta del part time e del conseguente trattamento economico e pensionistico, ma non ad escludere l’applicabilità di future diverse discipline di miglior favore per il pensionato pubblico, con una irrazionale disparità di trattamento in danno di quest’ultimo.

Avverso detta decisione propone ricorso per cassazione l’INPS, affidando l’impugnazione a due motivi.

Resistono gli intimati con controricorso ed entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, l’istituto ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione della L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, commi 185 e 187, della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 44, comma 2, del D.M. 29 luglio 1997, n. 331, artt. 1 e 3, nonchè degli artt. 1362 e ss. cod. civ., tutti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Osserva che la disposizione di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 44, comma 2, prevede, in favore degli iscritti alle forme di previdenza di cui al primo comma già pensionati di anzianità alla data del 1.1.2002 e nei cui confronti operano i regimi di divieto totale o parziale di cumulo tra pensione e retribuzione, l’accesso al sistema di cumulo integrale previo pagamento di una somma calcolata secondo la stessa disposizione, ma, secondo l’INPS, tale accesso non è estensibile nei confronti di coloro che, in forza di una specifica disciplina di legge, conseguono il trattamento pensionistico di anzianità senza cessare dall’attività lavorativa, ma semplicemente trasformando il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. La cessazione dall’attività lavorativa è presupposto necessario per la pensione di anzianità, e la disciplina di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 185 e 187, oltre che quella del decreto ministeriale attuativo, ha natura speciale e prevede modalità di cumulo tra pensione e retribuzione del tutto peculiari e collegate alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a parziale ed all’accesso al regime pensionistico. In quanto speciale, la detta normativa non è abrogata da successive disposizioni dotate di carattere generale, che riguardano lavoratori che abbiano il diritto a pensione (siano cessati dal rapporto di lavoro) e che inizino una nuova attività lavorativa, e non i lavoratori che, senza soluzione di continuità, proseguano il loro rapporto di lavoro passando dall’orario normale a quello ridotto per conseguire la pensione.

Peraltro, interpretando la normativa in senso favorevole ai lavoratori, verrebbe meno, secondo l’INPS, l’obiettivo fondante la disciplina innovativa, ossia l’incentivazione dell’assunzione di nuovo personale, scopo indissolubilmente connesso alla riduzione del trattamento pensionistico ed al ridotto utilizzo, in termini di orario di lavoro, del personale optante. La peculiarità della normativa in argomento sarebbe, poi, testimoniata dal fatto che il comma 187 prevede, per il personale delle P. A., l’emanazione di apposite norme regolamentari. Per di più, la trasformazione del rapporto non da luogo a trattamenti di pensione definitivi, in quanto solo l’effettiva cessazione dal servizio da luogo alla rideterminazione del trattamento previdenziale in godimento in base alla complessiva anzianità maturata. All’esito della parte argomentativa, il ricorrente, domanda, con specifico quesito, se al dipendente dell’INPS che si sia avvalso della speciale normativa recata dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 185 e 187, e dal D.M. n. 331del 1997, artt. 1 e 3, sia consentito cumulare integralmente il reddito derivante dalla trasformazione da tempo pieno a tempo parziale del rapporto intrattenuto senza soluzione di continuità con l’ente pubblico di lavoro.

Con il secondo motivo, il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 15 disp. gen., della L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 22 e della L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, commi 185 e 187, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, evidenziando che la peculiare disciplina concernente i dipendenti pubblici – che consente la prosecuzione del rapporto in deroga al principio generale che prevede la cessazione dell’attività lavorativa per accedere alle pensioni di anzianità (L. n. 153 del 1969, art. 22) – è fonte di un vantaggio insito nel fatto di conservare lo status di dipendente nell’ambito del rapporto di pubblico impiego sia pure privatizzato e la sola riduzione dell’orario di lavoro, situazione non omogenea a quella del pensionato prevista in via generale, che deve, invece, risolvere il rapporto di lavoro per avere diritto alla pensione ed eventualmente reperire nuova attività lavorativa per avere diritto al beneficio del cumulo. Con la formulazione del quesito, domanda se le disposizioni di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 185 e 187 ed il regolamento di attuazione di cui al D.M. n. 331 del 1997 si pongano come norme speciali rispetto alla disciplina generale in tema di cumulo fra pensione e retribuzione dettata dalla L. n. 289 del 2002, art. 44 e come tali non siano state implicitamente abrogate dal predetto articolo.

Le censure vanno trattate congiuntamente, attesa la sostanziale connessione delle questioni proposte con entrambe.

Fin dall’inizio (L. n. 153 del 1969, art. 22) la pensione di anzianità dei dipendenti privati è stata incumulabile per l’intero con il reddito da lavoro dipendente e detta incumulabilità piena con il reddito da lavoro subordinato è rimasta inalterata (D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 10, commi 1 e 2), dovendo il lavoratore subordinato risolvere il rapporto di lavoro (D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 10, comma 6) per potere godere della prestazione pensionistica.

Un’ulteriore tappa del processo evolutivo riguarda la fase di regime della riforma del 1995; cioè le pensioni da liquidare esclusivamente con il sistema contributivo, una volta soppressa la distinzione tra pensione di vecchiaia e pensione di anzianità. Tale riforma aveva previsto la vigenza, fino al compimento da parte dell’interessato dell’età di 62 anni, del regime di incumulabilità con il reddito da lavoro dipendente, nella sua interezza, e con il reddito da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente il trattamento minimo; e invece dall’età di 63 anni in poi, del regime di incumulabilità della pensione con i redditi sia da lavoro dipendente che da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente l’importo del trattamento minimo (L. n. 335 del 1995, art. 1, commi 21 e 22). Detti limiti al cumulo tra pensione e redditi da lavoro sono ormai sostanzialmente superati ed attualmente le pensioni di anzianità sono intermente cumulabili con i redditi da lavoro tanto autonomo che dipendente, purchè il lavoratore abbia una determinata anzianità contributiva (L. n. 388 del 2000, art. 72 e L. n. 289 del 2002, art. 44). La L. n. 243 del 2004 aveva delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi contenenti norme intese tra l’altro “ad eliminare progressivamente il divieto di cumulo tra pensioni e redditi da lavoro (art. 1, comma 1, lett. b) ma la delega non è stata attuata; tuttavia successivamente ha provveduto alla “liberalizzazione” la L. n. 133 del 2008, art. 19.

Questa essendo l’evoluzione normativa in tema di disciplina dei limiti al concorso del reddito da lavoro con il trattamento pensionistico di anzianità, deve rilevarsi che è stato ritenuto che la nuova disciplina non si estenda anche al pubblico impiego, per il quale continua ad operare il regime di incumulabilità già fissato dal D.P.R. n. 758 del 1965, art. 4.

Anche ove sia ritenuto, tuttavia, che il regime di liberalizzazione sia ormai operante per tutti i settori, deve preliminarmente, ai fini della decisione della questione all’esame, individuarsi la natura della norma contenuta nella L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 185, nata come eccezione di favore in deroga al vecchio regime generale, per valutare se la stessa sia resistente o meno al processo di evoluzione nel senso della liberalizzazione sopra delineata. A norma dell’art. 15 preleggi, infatti, l’abrogazione tacita si realizza sia quando le disposizioni della nuova legge siano incompatibili con quelle della legge anteriore, sia quando la nuova legge regoli l’intera materia già regolata dalla legge anteriore, non potendo ovviamente coesistere, in quest’ultimo caso, due leggi che regolino per intero la medesima materia. Tuttavia, la regola dell’abrogazione non si applica quando la legge anteriore sia speciale od eccezionale e quella successiva, invece, generale (legi speciali per generalem non derogatur), ritenendosi che la disciplina generale – salvo espressa volontà contraria del legislatore – non abbia ragione di mutare quella dettata, per singole o particolari fattispecie, dal legislatore precedente.

Le norme speciali sono norme dettate per specifici settori o per specifiche materie, che derogano alla normativa generale per esigenze legate alla natura stessa dell’ambito disciplinato ed obbediscono all’esigenza legislativa di trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse.

Le norme eccezionali, invece, sono definite dall’art. 14 preleggi come norme che fanno eccezione a regole generali. In questo senso esse sono norme speciali. E’ ovvio che tanto le norme speciali quanto le norme eccezionali si pongano in termini di deroga rispetto a regole generali, perchè finalizzate o a “calibrare” certi istituti alle particolarità specifiche di un determinato settore o perchè sono gli stessi presupposti di fatto che impongono un intervento legislativo derogatorio delle regole vigenti. Ne consegue che in nessun caso ne è ammessa l’applicazione analogica, altrimenti frustrandosi la natura speciale o eccezionale che le caratterizzano.

Orbene, la norma di cui si discute deve, in relazione alla cennata distinzione, indubbiamente qualificarsi come eccezionale, avendo portata derogatoria, nel sistema in vigore all’epoca della sua emanazione, rispetto ai principi generali in tema di incumulabilità tra pensione di anzianità e redditi di lavoro e prevedendo la possibilità di cumulo sia pure limitato, nel senso che l’importo della pensione viene ridotto in misura inversamente proporzionale alla riduzione dell’orario normale di lavoro (riduzione comunque non superiore al 50%) e che la somma della pensione e della retribuzione non può in ogni caso superare l’ammontare della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di altre condizioni, presta la sua opera a tempo pieno. Per il pubblico impiego, con il D.M. 29 luglio 1997, n. 331, è stato emanato in esecuzione di quanto previsto dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 187 il regolamento concernente i criteri e le modalità da applicare ai pubblici dipendenti di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2, per usufruire della possibilità di cumulare, ai sensi dell’art. 1, commi da 185 a 189, della legge citata, l’importo della pensione di anzianità con l’ammontare della retribuzione conseguente alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, prevedendosi determinate condizioni per l’operatività della trasformazione con diritto al cumulo parziale, tra cui quella della insussistenza nella qualifica funzionale di appartenenza di situazioni di esubero.

Ma il carattere di eccezionalità della normativa, che non consente alla normativa successiva di carattere generale di incidere in senso ampliativo sulla misura del cumulo parziale, deve essere collegato anche alla circostanza che il conseguimento del trattamento pensionistico, sia pure ridotto, non è subordinato, dalla legge 662/96, alla cessazione dell’attività lavorativa.

Ed invero, il diritto alla pensione, nella generalità dei casi, ai sensi della L. n. 153 del 1969, art. 22, comma 1, lett. c), matura in capo al lavoratore interessato alla presenza di un duplice requisito, rappresentato dal raggiungimento dell’anzianità contributiva e dalla cessazione dell’attività lavorativa subordinata alla data di presentazione della relativa domanda. Con la riforma introdotta dal D.Lgs. n. 503 del 1992, il legislatore ha ribadito che il diritto alla pensione di anzianità è subordinato alla cessazione dell’attività di lavoro dipendente (art. 10, comma 6), estendendo tale requisito anche alla pensione di vecchiaia (art. 1, comma 7).

Per entrambe le disposizioni citate il requisito della cessazione del rapporto di lavoro costituisce, infatti, una “presunzione di bisogno” che giustifica l’erogazione della prestazione sociale ai sensi dell’art. 38 Cost.. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, “la prosecuzione del rapporto di lavoro subordinato e la produzione, che ne consegue, di reddito da lavoro – dopo il perfezionamento dei requisiti – esclude lo stato di bisogno del lavoratore (…) e, quindi, anche l’esigenza di garantire al lavoratore medesimo (ai sensi dell’art. 38 Cost., comma 2) mezzi adeguati alle esigenze di vita”. Per tali motivi, il conseguimento del diritto alla pensione è subordinato alla cessazione di qualsiasi rapporto di lavoro in essere, anche diverso da quello in riferimento al quale sono stati versati i contributi alla gestione deputata ad erogare la prestazione (cfr. Cass. n. 17530/2005). Peraltro, è stato anche chiarito che la “cessazione del rapporto di lavoro” – che condiziona il conseguimento della pensione di vecchiaia – risulta, all’evidenza, affatto diversa (arg. D.Lgs. n. 503 del 1992, ex art. 10 cit., in tema di disciplina del cumulo tra pensioni e redditi da lavoro dipendente ed autonomo) rispetto al cumulo tra la pensione medesima – una volta che questa sia stata conseguita – ed i redditi da lavoro oppure da altra pensione, con la conseguenza che – dalla comparazione delle discipline rispettive – non può risultare, in nessun caso, la violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), attesa la non omogeneità tra le situazioni prospettate (cfr. Cass. 16 giugno 2006 n. 13933).

L’interpretazione giurisprudenziale in materia, oltre a considerare, come sopra ricordato, la cessazione dell’attività lavorativa, al pari dell’anzianità contributiva ed assicurativa, quale presupposto necessario per l’insorgenza del diritto alla pensione di anzianità (Cass. civ. n. 6571/2002), ritiene momento fondante quello di presentazione della domanda (Cass. civ. n. 14132/2004).

Dalle premesse svolte si desume, quindi, che alla data di presentazione della domanda di pensione non deve sussistere alcun rapporto di lavoro con il medesimo datore di lavoro, essendo in ogni caso necessaria una soluzione di continuità per conseguire il diritto al trattamento pensionistico. Ciò al fine di evitare che la percezione della pensione di anzianità avvenga contemporaneamente alla prestazione dell’attività lavorativa subordinata.

In definitiva, sia in caso di medesimo che di diverso datore, risulta comunque necessaria una soluzione di continuità fra i successivi rapporti di lavoro al momento della richiesta della pensione di anzianità e alla decorrenza della pensione stessa.

La eccezionalità della norma deve, pertanto, ravvisarsi, alla luce dei principi appena richiamati, nella peculiarità della fattispecie prevista, che consente la prosecuzione del rapporto di pubblico impiego del dipendente per quanto part time ed il contemporaneo conseguimento del trattamento pensionistico di anzianità in costanza di rapporto, sia pure trasformato, con lo stesso datore di lavoro.

Da tali considerazioni deve discendere pertanto l’intangibilità di una disciplina eccezionale, che sicuramente risulta derogatoria rispetto ai principi in materia pensionistica quanto al conseguimento del diritto alla prestazione, da parte di normativa generale successiva che abolisce il divieto di cumulo, ma comunque mantiene fermo il principio dalla necessità di interruzione del rapporto lavorativo. Ciò si desume anche da quanto previsto testualmente dalla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 44, comma 2, parte seconda laddove è previsto che la disposizione si applica – oltre che agli iscritti alle forme di previdenza di cui al comma 1, già pensionati di anzianità alla data del 1 dicembre 2002 e nei cui confronti trovino applicazione i regimi di divieto parziale o totale di cumulo (art. 44, comma 2, 1^ parte, L. citata) – anche agli iscritti che hanno maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità, hanno interrotto il rapporto di lavoro e presentato domanda di pensionamento entro il 30 novembre 2002.

Alla luce delle svolte considerazioni deve, allora, ritenersi che non possa trovare spazio alcuna censura sul piano costituzionale per irragionevole permanere della disciplina limitativa del cumulo per il solo settore pubblico, essendo la normativa generale successiva, per quanto detto, non applicabile alle ipotesi del particolare pensionamento anticipato, rappresentata dal caso di coloro, che una volta acquisito il diritto alla pensione di anzianità sono passati al regime pari time senza interruzione del rapporto lavorativo, continuando, dunque, a lavorare,,percependo una parte di pensione ed una di stipendio, con esplicita previsione che la somma dell’ammontare della pensione e della retribuzione dei dipendenti part time non possa in ogni caso superare l’ammontare della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di altre condizioni, presta la sua opera a tempo pieno.

Il ricorso deve, pertanto, essere accolto e di conseguenza la sentenza impugnata va cassata senza rinvio (ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, ultimo periodo), in relazione al detto accoglimento, in quanto la causa può essere decisa nel merito, sulla base del principio di diritto enunciato – senza che siano necessari all’uopo accertamenti di fatto – e, per l’effetto, vanno rigettate le domanda dei controricorrenti.

La peculiarità della questione trattata e l’esistenza di consolidato orientamento giurisprudenziale di merito difforme costituiscono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta le domande dei contro ricorrenti.

Compensa tra le parti le spese di lite dell’intero processo.

Così deciso in Roma, il 12 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2011

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