Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25779 del 15/11/2013


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 25779 Anno 2013
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: PROTO CESARE ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso 30755-2007 proposto da:
VERATTI GIANNI C.F.VRTGNN49R14D599G, SOAVE MAURA
CARLA C.F.SVOMCR54D59L219K, elettivamente domiciliati
,

in ROMA, VIA SALARIA 162, presso lo studio
dell’avvocato MEINERI GIOVANNI, che li rappresenta e
difende unitamente all’avvocato IORFIDA ANTONIO;
– ricorrenti –

2013

contro

2051

CRISCI ROSA, D’ANDREA ANTONIO, CIELO SERGIO;
– intimati –

avverso la sentenza n. 891/2007 della CORTE D’APPELLO

Data pubblicazione: 15/11/2013

di TORINO, depositata il 07/06/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 08/10/2013 dal Consigliere Dott. CESARE
ANTONIO PROTO;
udito l’Avvocato Meineri Giovanni difensore dei

depositate;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. AURELIO GOLIA che ha concluso per
l’inammissibilità del ricorso.

••■•-•

2_

ricorrenti che ha chiesto l’accoglimento delle difese

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 5/10/2001 D’Andrea Antonio e Crisci
Rosa, promissari acquirenti di un immobile, convenivano
in giudizio i coniugi Veratti Gianni e Soave Maura,
promittenti venditori per chiedere la risoluzione, per

preliminare e la restituzione del doppio della caparra
confirmatoria oltre al risarcimento dei danni; quale
ragione della risoluzione adducevano la mancata
informazione in merito ad un pignoramento sull’immobile
già trascritto e non dichiarato e ad un importo di
debiti gravanti sui promittenti venditori maggiore di
quello dagli stessi dichiarato.
Nel giudizio era proposta dagli attori anche una
revocatoria ordinaria nei confronti di Cielo Sergio che
aveva nel frattempo acquistato lo stesso immobile dai
convenuti così diminuendo, in loro danno, la garanzia
costituita dal patrimonio dei debitori.
I promittenti venditori chiedevano il rigetto delle
domande e a loro volta, in riconvenzionale, chiedevano
la declaratoria di risoluzione del contratto per
inadempimento dei promissari acquirenti, oltre a
risarcimento del danno e alla declaratoria del loro
diritto a ritenere la caparra; il terzo acquirente,

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inadempimento dei convenuti, di un contratto

convenuto in revocatoria chiedeva il rigetto della
domanda.
Il Tribunale di Torino, con sentenza del 23/6/2004,
dichiarava

risolto

il

contratto preliminare per

inadempimento dei promittenti venditori che condannava

confirmatoria (quale unico danno provato non essendo
stata proposta la domanda ex art. 1385 c.c.)

e

dichiarava inefficace, nei confronti dei promissari
acquirenti,

che lamentavano il venir meno della

garanzia del proprio credito, il contratto con il quale
Veratti e Soave avevano venduto l’immobile al Cielo.
Veratti Gianni e Soave Maura proponevano appello
contestando la decisione che li aveva ritenuti
inadempienti,

insistendo

per

la

risoluzione

del

contratto per inadempimento dei promissari acquirenti e
formulando

domanda

subordinata

di

recesso

con

riconoscimento del diritto a ritenere la caparra.
Si costituiva anche il terzo acquirente chiedendo, con
appello incidentale, la riforma della sentenza di primo
grado e il rigetto delle domande contro di lui proposte
e, in via subordinata, la condanna di Veratti Gianni e
Soave Maura al risarcimento del danno.

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e restituire la somma ricevuta a titolo di caparra

I promissari acquirenti si costituivano formulando, in
via di appello incidentale, domanda di recesso per
inadempimento della controparte e chiedendone la
condanna al pagamento del doppio della caparra.
La Corte di Appello di Torino con sentenza del

rigettava la domanda revocatoria proposta contro il
Cielo e confermava, con diversa motivazione, la
pronuncia di risoluzione del contratto preliminare e la
condanna dei promittenti venditori alla restituzione
della somma ricevuta a titolo di caparra.
La Corte di Appello, riformando sul punto la sentenza
appellata, riteneva che provato un comportamento
contrario ai doveri di correttezza e buona fede dei
promittenti venditori, ravvisato nella mancata completa
informazione sulla loro complessiva esposizione
debitoria che astrattamente poteva avere incidenza
sulla conservazione, da parte dei promissari acquirenti
della proprietà promessa in vendita; tuttavia, secondo
la Corte distrettuale, questo inadempimento non era di
gravità tale da giustificare la risoluzione del
contratto per inadempimento.
La Corte distrettuale, giudicando sulla domanda di
risoluzione per inadempimento proposta dai promittenti

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7/6/2007, in riforma della sentenza di primo grado,

venditori, escludeva, anche in questo caso, la gravità
dell’inadempimento osservando che la comunicazione con
la quale i promissari acquirenti recedevano dal
preliminare, un giorno prima della data fissata per la
stipula del definitivo, così rifiutandone la

valutare la situazione economica della controparte in
relazione all’ammontare dei suoi debiti, ancorché
questa situazione non fosse tale da giustificare la
risoluzione o il recesso per inadempimento.
In

sintesi,

la Corte di Appello escludeva

il

presupposto del grave inadempimento sia con riferimento
alle domande di risoluzione e recesso dei promittenti
venditori, sia con riferimento alla domanda di recesso
per inadempimento dei promissari acquirenti e, preso
atto che entrambe le parti volevano la risoluzione del
preliminare relativo ad un immobile già trasferito in
proprietà ad un terzo (il Cielo), così manifestando il
loro totale disinteresse al mantenimento del contratto,
ne pronunciava la risoluzione.
I promittenti venditori, perseguendo l’interesse a
vedere

accertato

l’inadempimento

dei

promissari

acquirenti e il loro diritto al risarcimento del danno

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stipulazione trovava spiegazione nella difficoltà di

e a trattenere la caparra, hanno proposto ricorso
fondato su un unico motivo.
Sono rimasti intimati i promissari acquirenti e il
terzo acquirente Cielo Sergio.
Motivi della decisione

la violazione e falsa applicazione degli artt. 1184,
1285, 1322, 1367, 1372, 1453, 2697 e 2729 c.c. e degli
artt. 112, 360, 366 c.p.c. e il vizio di motivazione.
Nella sostanza, i ricorrenti deducono che la Corte di
Appello avrebbe ingiustamente loro addebitato di avere
dichiarato debiti inferiori a quelli reali, così
omettendo di informare i promissari acquirenti sulla
loro effettiva esposizione debitoria; a sostegno del
loro assunto denunciano errori di calcolo nel conteggio
dell’esposizione debitoria, nel rilievo attribuito a
debiti ancora da maturare, nella valutazione di una
richiesta di anticipazione del contratto definitivo, la
cui iniziativa era da attribuirsi al Veratti invece che
al

D’Andrea,

la

mancata

considerazione

della

responsabilità che essi si assumevano con riferimento
ai debiti ove eccedenti la somma accantonata, la
mancanza di prova sul debito verso l’INPS, l’omessa
motivazione sulla mancata ammissione delle prove.

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1. Con l’unico motivo di ricorso i ricorrenti deducono

I ricorrenti, formulando i quesiti di diritto ex art.
366 bis c.p.c., ora abrogato, ma applicabile

ratione

temporis, chiedono:
a) se nella quantificazione del debito Veratti verso le
Banche non sia stato commesso errore e dunque

esaminare compiutamente gli atti di causa e valutare
ogni elemento che sia rilevante e decisivo;
b) se non vi sia stata omessa motivazione in ordine
all’ammissione delle prove dedotte e della loro
rilevanza ex art. 245 c.p.c.; il giudice deve ammettere
le prove quando vertono su fatti rilevanti e decisivi;
c) se non sia stata violata la norma dell’art. 2967
c.c.. Precisano che non è consentito al giudice
assegnare valore probatorio all’affermazione che la
parte faccia di circostanza in proprio favore; nel caso
di

specie non poteva darsi dignità di prova

all’affermazione del d’Andrea circa il debito INPS;
d)se non vi sia stata violazione degli artt. 1322 1372 c.c. quando è stato consentito al d’Andrea di
proporre domanda di risoluzione pur trovandosi le parti
ambedue obbligate all’adempimento. Precisano che non è
consentito proporre domanda di risoluzione

ed

accoglierla quando entrambe le parti si trovano nella

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violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c.; il giudice deve

adempiere alle obbligazioni

condizione di potere
contrattuali

e

ragioni

manchino

per

ritenere

risolvibile la pattuizione;
e) se Veratti, mentre aveva obblighi circa i debiti
gravanti sull’immobile posto in vendita non ne aveva

economiche (per esempio riguardo all’INPS).
2. Il motivo si risolve in una contestazione del merito
della decisione della Corte di Appello negandosi che i
promittenti venditori siano venuti meno ad alcun
obbligo contrattuale e negandosi il diritto di D’Andrea
a recedere dal contratto, per giunta neppure cogliendo
la ratio decidendi per la quale a nessuna delle due
parti poteva essere addebitato un inadempimento
rilevante ai fini della risoluzione del contratto che,
tuttavia, era dichiarato sciolto in conseguenza della
presa d’atto che nessuna delle due parti manifestava
interesse al contratto, neppure più eseguibile atteso
l’avvenuto trasferimento del bene ad altri.
Ma ancor prima
decidendi

delle

della non pertinenza alla ratio
censure,

occorre

rilevare

l’inammissibilità di tutti i quesiti.
La sentenza impugnata è stata depositata il 7/6/2007 e
pertanto il ricorso doveva essere proposto, a pena di

9

l,.

alcuno in relazione ad altre estranee sue vicende

inammissibilità, nel rispetto della richiamata norma la
quale prevedeva che, nei casi previsti dall’art. 360 n.
3,

“l’illustrazione di ciascun motivo si deve

concludere, a pena d’inammissibilità, con la
formulazione di un quesito di diritto. Nel caso

l’illustrazione del motivo deve contenere, a pena di
inammissibilità, la chiara indicazione del fatto
controverso in relazione al quale la motivazione si
assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per
le quali la dedotta insufficienza della motivazione la
rende inidonea a giustificare la decisione”.
Il motivo di ricorso per omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione, deve essere accompagnato
da un momento

di

sintesi che ne circoscriva

puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare
incertezze in sede di formulazione del ricorso e di
valutazione della sua ammissibilità; il motivo, cioè,
deve contenere a pena d’inammissibilità – una
indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un
“quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo e
che consenta al giudice di valutare immediatamente
l’ammissibilità del ricorso (Cass. SS.UU. 20/05/2010 n.
12339).

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previsto dall’art. 360 primo comma n. 5,

Quanto al vizio di motivazione non v’è alcuno specifico
momento di sintesi, ma:

una semplice domanda (v. sub a) con la quale si

chiede a questa Corte se non sia stato commesso un
errore

nella quantificazione del

debito Veratti

supportata da specifiche e rilevanti censure, posto che
le censure sulla determinazione del debito sono
generiche, prive di autosufficienza e, con riferimento
alla duplicazione dell’importo di lire 26.000.000,
introducono una questione che non risulta se sia stata
proposta e in quali termini, nel giudizio di appello,
ma soprattutto le censure non sono neppure decisive al
fine di inficiare la

ratio decidendi secondo la quale

l’inadempimento dei promissari acquirenti fu
giustificato

dall’inadempimento

dell’obbligo

informativo dei promittenti venditori;
– la semplice domanda (sub b) con la quale si chiede a
questa Corte se non vi sia stata omessa motivazione in
ordine all’ammissione delle prove dedotte e alla loro
rilevanza, anche in questo caso senza alcuna
indicazione specifica dei fatti rilevanti e trascurati
nella motivazione, neppure rimediabile attraverso
riferimenti contenuti nell’illustrazione del motivo,

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assolutamente non circostanziata, nè peraltro

posto che la Corte di Appello, sull’ammissione delle
prove, ha specificamente motivato a pagina 14 e 15
della sentenza e in ordine a tale motivazione non sono
mosse specifiche censure.
Il quesito sub e) (se Veratti, mentre aveva obblighi

non ne aveva alcuno in relazione ad altre estranee sue
vicende economiche, per esempio riguardo all’INPS)
inammissibile in quanto non è dato comprendere neppure
se concerna un vizio di motivazione (mancando ogni
indicazione

in ordine alle ragioni per le quali la

motivazione sarebbe viziata) o una violazione di legge.
I quesiti di diritto sono inammissibili per assoluta
genericità.
Il principio di diritto, richiesto dall’art. 366 bis
c.p.c., deve essere espresso in maniera positiva, nel
senso, cioè, che a fronte della regula iuris applicata
dal giudice di merito deve invece essere precisata ed
indicata una diversa

regula iuris,

alternativa a

quella.
In questi termini si è già pronunciata la costante
giurisprudenza di questa Corte, anche a sezioni unite
essendosi costantemente affermato:

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circa i debiti gravanti sull’immobile posto in vendita

- che il principio di diritto che la parte ha l’onere
di formulare espressamente nel ricorso per cassazione a
pena di inammissibilità, deve consistere in una chiara
sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al
vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini

che ad esso si dia, discenda in modo univoco
l’accoglimento od il rigetto del gravame e che pertanto
inammissibile non solo il ricorso nel quale il
suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia
formulato

in

modo

inconferente

rispetto

alla

illustrazione dei motivi d’impugnazione; ovvero sia
formulato in modo implicito, sì da dovere essere
ricavato per via di interpretazione dal giudice; od
ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla
Corte un inammissibile accertamento di fatto, o,
infine, sia formulato (come in questo caso) in modo del
tutto generico (Cass. SS.UU. 28/9/2007 n. 20360)
– che il quesito di diritto non può risolversi in una
mera

richiesta

di

accoglimento

del

motivo

o

nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza
della censura così come illustrata, perché la norma è
finalizzata a porre il giudice della legittimità in
condizione di comprendere – in base alla sola lettura

13

tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa –

del quesito, che deve necessariamente comprendere una
sintesi del fatto rispetto al quale di deduce la
violazione in diritto l’errore di diritto
asseritamente compiuto dal giudice e di rispondere al
quesito medesimo enunciando una

“regula iuris”

(Cass.

Nel quesito sub b) si chiede se non
omessa motivazione in ordine

vi sia stata

all’ammissione delle

prove dedotte e della loro rilevanza ex art. 245
c.p.c.; si afferma che il giudice deve ammettere le
prove quando vertono su fatti rilevanti e decisivi.
Il quesito è mal formulato perché oltre a non indicare
neppure sommariamente quali sarebbero i fatti rilevanti
e decisivi dedotti a prove, è del tutto in conferente
rispetto alla ratio decidendi secondo la quale le prove
non erano state ritualmente richieste nel primo grado e
non v’erano motivi per giustificare la richiesta
tardiva;
Nel quesito sub c) si chiede se non sia stata violata
la norma dell’art. 2967 c.c. e si afferma che “non è
consentito al giudice assegnare valore probatorio
all’affermazione che la parte faccia di circostanza in
proprio favore”; nel caso di specie, secondo

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SS.UU. 5/2/2008 n. 2658 Ord.).

ricorrenti,

non poteva

darsi

dignità di

prova

all’affermazione del d’Andrea circa il debito INPS.
Anche in questo caso il quesito è posto in modo
generico ed è inconferente in quanto non risulta (né i
ricorrenti lo affermano) che nei gradi di merito vi sia

l’INPS del tutto avulso rispetto alla ragione per la
quale la Corte di appello ha ritenuto la sussistenza di
un debito verso l’INPS, per cui la circostanza ben può
ritenersi provata in assenza di contestazione;
Nel quesito sub d) si chiede se non vi sia stata
violazione degli artt. 1322 – 1372 c.c. quando è stato
consentito al d’Andrea di proporre domanda di
risoluzione pur trovandosi le parti ambedue obbligate
all’adempimento. Si afferma che non è consentito
proporre domanda di risoluzione ed accoglierla quando
entrambe le parti si trovano nella condizione di potere
adempiere alle obbligazioni contrattuali e manchino
ragioni per ritenere risolvibile la pattuizione.
Premesso che nessuna norma vieta ad una parte di
proporre una domanda di risoluzione, anche a volere
intendere che nel quesito si voglia sostenere che la
domanda di risoluzione non poteva essere accolta,
l’inammissibilità

del

quesito

15

deriva

dalla

sua

stata contestazione sull’esistenza di un debito verso

inconferenza rispetto alla ragione per la quale la
Corte di Appello ha ritenuto che il contratto si fosse
risolto, ossia il venir meno dell’interesse di entrambe
le parti a mantenere il vincolo contrattuale (pagina 22
della sentenza).

inammissibile per l’inammissibilità di tutti i quesiti.
Non v’è luogo a provvedere sulle spese in quanto gli
intimati non hanno svolto difese.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma, il 8/10/2013.

3. In conclusione il ricorso deve essere dichiarato

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