Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25776 del 14/10/2019

Cassazione civile sez. III, 14/10/2019, (ud. 09/07/2019, dep. 14/10/2019), n.25776

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 21163 dell’anno 2018, proposto da:

C.L., (C.F.: CHD LNZ 52M10 H501A) rappresentato e difeso,

giusta procura in calce al ricorso, dall’avvocato Rita Colleluori

(C.F.: CLL RTI 63E52 H501M);

– ricorrente –

nei confronti di:

LAZIOCREA S.p.A. (C.F.: (OMISSIS)), in persona del Presidente del

Consiglio di Amministrazione, legale rappresentante pro tempore,

U.A. rappresentato e difeso, giusta procura in calce al

controricorso, dall’avvocato Michele Alliegro (C.F.: LLG MHL 70S08

G793B);

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Roma n.

3010/2018, pubblicata in data 8 maggio 2018;

udita la relazione sulla causa svolta alla camera di consiglio del 9

luglio 2019 dal consigliere Augusto Tatangelo.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il dottore commercialista C.L. ha agito in giudizio, nelle forme del procedimento sommario di cognizione di cui all’art. 702 bis c.p.c., nei confronti di LAIT – Lazio Innovazione Tecnologica S.p.A. (oggi LAZIOCREA S.p.A.) per ottenere il pagamento di compensi professionali relativi alla prestazione di servizi di consulenza e assistenza in materia di risorse umane, oltre al risarcimento danni.

La domanda è stata parzialmente accolta dal Tribunale di Roma, che ha condannato la società convenuta al pagamento dell’importo di Euro 38.169,67, oltre accessori.

La Corte di Appello di Roma ha confermato la decisione di primo grado.

Ricorre il C., sulla base di tre motivi.

Resiste con controricorso LAZIOCREA S.p.A..

Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 c.p.c., n. 5 – Errore Materiale”.

Secondo il ricorrente vi sarebbe un errore materiale di calcolo nella decisione impugnata: l’importo delle fatture contestate dalla società convenuta ammonterebbe a Euro 29.123,73 su una domanda complessiva di Euro 87.615,17, onde, decurtando detto importo dal totale richiesto, il dovuto ammonterebbe ad Euro 58.491,44 e non ad Euro 38.169,67, come stabilito dal tribunale e poi dalla corte di appello.

Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

La corte di appello ha esaminato e deciso lo specifico motivo di appello del C. relativo al preteso errore di calcolo commesso dal tribunale, escludendone la sussistenza.

Ha, in particolare precisato, in proposito: a) che, in linea generale, gli importi da ritenersi spettanti all’attore erano esclusivamente quelli non contestati dalla società convenuta, perchè per il resto il primo non aveva fornito prova di un valido accordo contrattuale scritto e/o dello svolgimento delle prestazioni fatturate; b) la società convenuta aveva contestato, con riguardo alle somme pretese dall’attore in base ad una serie di fatture, un importo pari ad Euro 47.316,00, relativo ad adempimenti amministrativi contabili “extra”, nonchè un ulteriore importo di Euro 2.129,50, relativo alla “elaborazione prospetti contabili”; c) i suddetti importi contestati erano stati correttamente sottratti dal tribunale dalla somma complessivamente richiesta dall’attore, nel determinare il quantum effettivamente riconosciuto come dovuto.

Nel ricorso non viene in realtà chiarito in modo sufficientemente specifico quale sarebbe, in concreto, l’errore materiale compiuto (e/o comunque avallato) dalla corte territoriale, avendo questa chiaramente ritenuto fondata la contestazione della società convenuta in relazione agli importi sopra indicati (cioè Euro 47.316,00 per gli adempimenti amministrativi contabili “extra” ed Euro 2.129,50 per “elaborazione prospetti contabili”), all’esito dell’esame di tutti i documenti prodotti e della valutazione delle prove secondo il suo prudente apprezzamento, ed avendo motivato adeguatamente il suo convincimento in fatto (con motivazione non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile in sede di legittimità).

Le censure di cui al motivo di ricorso in esame risultano dunque per un verso inammissibili, per difetto di specificità, per altro verso infondate, in quanto – contrariamente a quanto dedotto nel ricorso – non emerge affatto alcun fatto decisivo di cui sia stato omesso l’esame.

Le predette censure, in sostanza, si risolvono in una contestazione di accertamenti di fatto incensurabilmente operati dai giudici del merito ed in una richiesta di nuova e diversa valutazione delle prove, entrambe non consentite in sede di legittimità.

2. Con il secondo motivo si denunzia “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 – Adempimenti Ordinari”.

Il ricorrente sostiene che le prestazioni alla base delle sue pretese contestate dalla società convenuta rientravano in realtà (almeno in gran parte) – diversamente da quanto ritenuto dalla corte di appello – tra quelle oggetto del contratto scritto stipulato per gli anni 2007 e 2008, successivamente prorogato (in particolare, le suddette prestazioni, secondo il ricorrente, avrebbero dovuto ritenersi rientrare tra quelle previste dall’art. 1, lett. a), del contratto, quali prestazioni ordinarie; esse non costituivano dunque affatto prestazioni “extra”, come ritenuto dai giudici di appello).

Anche questo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

La censura difetta in primo luogo di specificità, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quanto non viene richiamato in dettaglio il preciso contenuto del contratto scritto stipulato dalle parti e quello delle fatture emesse per le prestazioni in contestazione, il che impedisce alla Corte di verificare gli assunti del ricorrente in ordine all’interpretazione del contratto stesso ed alla corretta fatturazione delle relative prestazioni.

Inoltre, nella sostanza, la questione posta dal ricorrente costituisce una contestazione della concreta interpretazione del contenuto del contratto e della volontà negoziale delle parti dallo stesso desumibile, fornita dalla corte di appello: si tratta cioè di una questione di fatto e di valutazione delle prove, non ammissibile in sede di legittimità (cfr. in proposito, tra le tante: Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16987 del 27/06/2018, Rv. 649677 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 28319 del 28/11/2017, Rv. 646649 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 14355 del 14/07/2016, Rv. 640551 – 01; Sez. L, Sentenza n. 25728 del 15/11/2013, Rv. 628585 – 01; Sez. L, Sentenza n. 10554 del 30/04/2010, Rv. 613562 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 24539 del 20/11/2009, Rv. 610944 – 01; Sez. L, Sentenza n. 23569 del 13/11/2007, Rv. 600273 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 22536 del 26/10/2007, Rv. 600183 – 01), tenuto conto che la motivazione della decisione impugnata, sul punto, non risulta apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico. D’altra parte non sussiste, e di fatto non viene neanche adeguatamente dedotto dal ricorrente, un vero e proprio omesso esame di fatti decisivi. Anche in questo caso, infatti, le contestazioni attengono in realtà ad accertamenti di fatto (anche con riguardo all’interpretazione del contratto, al fine di ricostruire la volontà negoziale da esso emergente, come so è appena sottolineato) ed alla valutazione delle prove.

Infine, si deve osservare che vengono richiamati, a sostegno delle indicate contestazioni, anche documenti prodotti solo in secondo grado, che però la corte di appello ha ritenuto prodotti tardivamente e quindi non valutabili (senza che, nel motivo di ricorso in esame, vi sia una specifica censura sul punto).

3. Con il terzo motivo si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ed, in particolare, degli artt. 1326 e ss. 1350 e delle norme sulla forma dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 1988 c.c., nonchè art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Secondo il ricorrente, diversamente da quanto ritenuto dalla corte di appello, esisterebbe un contratto scritto in relazione agli “adempimenti extra” (anche per gli anni 2009 e seguenti) nonchè una ricognizione di debito della società convenuta in relazione alla sussistenza del suo diritto ad ottenere il pagamento dei relativi compensi.

Il motivo è, ancora una volta, in parte inammissibile ed in parte infondato.

Le censure in esame costituiscono (come quelle di cui ai motivi precedenti) contestazioni di accertamenti di fatto e di attività di valutazione delle prove, anche con riguardo all’interpretazione del contenuto dei contratti stipulati dalle parti, non ammissibili in sede di legittimità.

Le suddette contestazioni, anche in questo caso, sono poi in parte fondate su documenti prodotti solo in secondo grado, che la corte di appello ha ritenuto prodotti tardivamente e quindi non valutabili.

Il ricorrente, nell’ambito del motivo di ricorso in esame, contesta in effetti la valutazione di inammissibilità delle nuove produzioni documentali effettuata dai giudici di secondo grado, ma non chiarisce in modo sufficientemente specifico perchè quei documenti avrebbero dovuto ritenersi “indispensabili” ai fini della decisione, con conseguente ammissibilità della loro produzione per la prima volta in appello, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., e non semplicemente “rilevanti”, quindi non passibili di nuova produzione in appello (cfr. sul punto Cass., Sez. U, Sentenza n. 10790 del 04/05/2017, Rv. 643939 – 01; sulla distinzione tra mera “rilevanza” e “indispensabilità” dei documenti, ai fini della ammissibilità della loro produzione in appello: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 22577 del 25/09/2018, non massimata).

4. Il ricorso è rigettato.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012 n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– condanna il ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore della società controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 5.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonchè spese generali ed accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012 n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2019

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