Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25769 del 22/09/2021

Cassazione civile sez. I, 22/09/2021, (ud. 27/05/2021, dep. 22/09/2021), n.25769

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2412/2019 proposto da:

M.B., rappresentato e difeso dall’avv. Pietro Martire ed

elettivamente domiciliato in Canosa di Puglia, via Maddalena nr 7

presso lo studio del proprio difensore;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno (OMISSIS), Pm Procura Repubblica Tribunale

Bari;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BARI, depositata il 01/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/05/2021 da CAPRIOLI MAURA.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Considerato che:

Il Tribunale di Bari ha rigettato la domanda di protezione internazionale, sussidiaria e umanitaria avanzata da B.M., cittadino del bengalese. Il primo Giudice ha osservato, in sintesi, che:

il ricorrente aveva posto a fondamento dell’istanza di protezione ragioni di carattere essenzialmente economiche che in quanto tali restavano estranee al perimetro della protezione internazionale.

Il primo Giudice ha escluso alla luce del racconto fornito, che il timore di ricevere un danno si presentava pertanto come conseguenza di un mero conflitto di natura privatistica;inoltre, trattandosi di una vicenda privata, non risulta neppure adeguatamente giustificata l’impossibilità del ricorrente di rivolgersi alle autorità locali, così come richiesto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 6; con riguardo all’ipotesi di cui alla lett. c) dello stesso art. 14, secondo le fonti ufficiali consultate (ed esaminate a pag. 3 del decreto), in Bangladesh gli episodi di violenza, uccisioni, sparizioni e arresti illegali interessano specifiche categorie di persone (sostenitori del partito nazionalista di opposizione, mezzi di informazione critici verso le autorità) tra le quali non rientra il ricorrente, che non ha mai rivestito ruoli a livello politico; non è riconoscibile il permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6: in assenza di una adeguata dimostrazione di una situazione di particolare vulnerabilità e di una effettiva integrazione sociale stante la brevissima durata del rapporto di lavoro (11 aprile al 30 aprile 2018).

Il decreto è stato impugnato da B.M. con ricorso per cassazione affidato a due motivi.

L’Amministrazione intimata non ha svolto difese.

Con il primo motivo il ricorrente si duole della violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35- bis, comma 11, lett. a), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il tribunale nonostante l’espressa richiesta del richiedente omesso di fissare l’udienza di comparizione delle parti obbligatoriamente prevista dalle leggi sul rilievo che non essendo resa disponibile la videoregistrazione prevista dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 14, il giudicante non aveva disposto la comparizione personale del ricorrente ai sensi del richiamato art. 35 bis, comma 11, lett. a). Con il secondo motivo si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 o comunque per omessa e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere il giudice ritenuto non sussistente il rischio di grave pericolo incombente sul richiedente e sulla propria famiglia in caso di rientro in patria.

Si lamenta che il Tribunale non avrebbe dato rilievo alle situazioni persecutorie che erano state dedotte e che trovava corrispondenza nell’articolo del settimanale L’Internazionale riprodotto nel decreto impugnato, situazioni avrebbero reso difficile l’esercizio dei diritti civili e la stessa protezione statale per la tutela dei diritti fondamentali quali la proprietà privata.

Con il terzo motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2009, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 o comunque l’insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere il Tribunale totalmente omesso di esaminare i documenti allegati al ricorso e alle note prodotte il 23.4.2018 relativi al percorso di integrazione.

Con il quarto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 14, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 o comunque omessa, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere il tribunale omesso di prendere atto della documentazione prodotta e di attivare i poteri officiosi necessari a una adeguata conoscenza dello situazione del Paese di provenienza e valutare la domanda avente ad oggetto la protezione umanitaria.

Il primo motivo è infondato.

Giova ricordare che in tema di protezione internazionale, questa Corte, nell’enunciare il principio secondo cui, in mancanza della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente disporre lo svolgimento dell’udienza di comparizione delle parti, configurandosi altrimenti la nullità del decreto pronunciato all’esito del ricorso, per inidoneità del procedimento a consentire il pieno dispiegamento del contraddittorio, salvo che non sia stato lo stesso richiedente ad aver visto accolta la propria istanza motivata di non avvalersi del supporto della videoregistrazione ha precisato che l’obbligatorietà della fissazione dell’udienza di comparizione, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis non comporta automaticamente la necessità di dar corso all’audizione del richiedente (cfr. Cass. n. 17717 del 2018; Cass. n. 32318 del 2018). Tale affermazione trova conforto nella giurisprudenza comunitaria, la quale, pronunciandosi in ordine all’interpretazione degli artt. 12, 14, 31 e 46 della direttiva 2013/32/CE del 26 luglio 2013, ha precisato che l’obbligo di consentire al richiedente di sostenere un colloquio personale, prima di decidere sulla domanda di protezione internazionale, grava esclusivamente sull’autorità incaricata di procedere all’esame della stessa e non si applica, pertanto, nei procedimenti d’impugnazione, in quanto l’obbligo di procedere all’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto, imposto al giudice competente dall’art. 46, par. 3, della direttiva dev’essere interpretato tenendo conto della stretta connessione esistente tra la procedura d’impugnazione e quella di primo grado che la precede, nel corso della quale dev’essere consentito al richiedente di sostenere il colloquio personale, con la conseguenza che il giudice può decidere di non procedere all’audizione nel caso in cui ritenga di poter effettuare un esame siffatto in base ai soli elementi contenuti nel fascicolo, ivi compreso, se del caso, il verbale o la trascrizione del colloquio personale svoltosi in occasione del procedimento di primo grado (cfr. Corte di Giustizia UE, 26/07/2017, in causa C-348/16, Moussa Sacko).

Nel motivo, invece, non è dato superare il principio per cui, proprio nel solco di quanto affermato da Cass. 21584/2020, “il corredo esplicativo dell’istanza di audizione deve risultare anche dal ricorso per cassazione, in prospettiva di autosufficienza; in particolare il ricorso, col quale si assuma violata l’istanza di audizione, implica che sia soddisfatto da parte del ricorrente l’onere di specificità della censura, con indicazione puntuale dei fatti a suo tempo dedotti a fondamento di quell’istanza” (Cass. 25312/2020); va pertanto ribadito che il principio “equivale a costruire l’audizione pur sempre come oggetto di una facoltà, non di un obbligo; sebbene di una facoltà che, laddove esercitata in un senso o nell’altro, presupponga (come ovvio) l’esplicitazione dei motivi della afferente decisione”.

Il ricorrente infatti non solo, non indica quali siano le informazioni che, in concreto, avrebbero potuto determinare l’accoglimento del proprio ricorso, ma fa riferimento, sempre generico, al fatto di dover specificare le ragioni per le quali temeva per la sua incolumità senza neppure indicarle.

Non merita, pertanto, alcuna censura il decreto impugnato lì dove ha ritenuto che non fosse necessario procedere all’audizione del richiedente, avendo adeguatamente giustificato tale decisione sul rilievo che, ai fini della decisione, era esaustivo il colloquio effettuato in sede ammnistrativa.

Il secondo motivo è inammissibile non si confronta con la ratio decidendi posta a fondamento del diniego di protezione nelle sue diverse articolazioni.

Il Tribunale ha evidenziato in modo puntuale i motivi per i quali il richiedente non poteva fruire delle misure di protezione invocate basate su ragioni strettamente economiche ed ha sottolineato come il paventato timore di ricevere un danno fosse una mera conseguenza di un conflitto di natura privatistica estranea al regime di protezione internazionale.

Si tratta di affermazioni coerenti con gli orientamenti già espressi da questa Corte che ha chiarito come le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possano essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando né nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e), né nei casi di protezione sussidiaria (art. 2, lett. g). E’ stato precisato che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave solo ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi (cfr. Cass. nn. 24214 e 23281 del 2020, n. 9043 del 2019). E’ stato pure precisato, sempre in tema di protezione sussidiaria, che, quando si deduca un fatto suscettibile di rilevare del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b), riconducibile all’azione di privati, l’onere di allegazione del richiedente deve essere adempiuto in termini sufficientemente specifici, non potendosi, in mancanza, attivare l’obbligo di integrazione istruttoria officiosa del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3 (Cass. n. 8930 del 2020, n. 23604 del 2017; v. pure Cass. 26823 del 2019).

Ciò posto il ricorso per cassazione ora all’esame si limita a proporre inammissibilmente una diversa valutazione di tale aspetto, sostituendo un diverso apprezzamento di fatto a quello compiuto dal giudice di merito.

Con riguardo agli altri due profili di censura (terzo e quarto) che possono essere trattati congiuntamente per l’intima connessione se ne deve rilevare l’inammissibilità per genericità.

Nel caso di specie, il tribunale ha rigettato la domanda di protezione umanitaria proposta dal ricorrente rilevando, in sostanza, che il richiedente non presenta una situazione di effettiva vulnerabilità personale che potesse giustificare la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Si tratta, com’e’ evidente, di un accertamento in fatto che, in quanto tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, e cioè per omesso esame di una o più di circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata. Nel caso di specie, però, ciò non è accaduto: il ricorrente, infatti, pur avendone l’onere (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), non ha specificamente indicato i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame, ancorché dedotti in giudizio, sia stato del tutto omesso dal giudice di merito, né, infine, la loro decisività ai fini di una differente pronuncia a lui favorevole.

Si lamenta di una mancata valutazione di documenti che avrebbe prodotto nella prima fase senza puntualmente indicarli né riprodurli nel loro contenuto al fine di consentire a questa Corte di apprezzarne la decisività.

Alla stregua delle considerazioni sopra esposte va dichiarata l’inammissibilità del ricorso.

Nessuna determinazione in punto spese stante il mancato svolgimento di attività difensiva da parte del Ministero.

PQM

La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso; nulla per le spese;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2021

 

 

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