Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25762 del 13/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 13/11/2020, (ud. 23/07/2020, dep. 13/11/2020), n.25762

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. CENICCOLA Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9323/13 R.G. proposto da:

D.C.D., rappresentato e difeso, giusta procura speciale

rilasciata con scrittura privata con firma autenticata dal Notaio

del 14 febbraio 2020, dall’avv. Anna Domenica Graziella Buda, con

domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Giovanni Iaria, in Roma,

via Alessandro Malladra, n. 31, scala C, int. 15;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso

cui è elettivamente domiciliata, in Roma, via dei Portoghesi, n.

12;

– controricorrente –

e

RISCOSSIONE SICILIA S.P.A. (già Serit Sicilia s.p.a.), Agente della

Riscossione per la Provincia di Catania, in persona del legale

rappresentante, rappresentata e difesa, giusta procura in calce al

controricorso, dall’avv. Germano Garao, con domicilio eletto presso

il suo studio, in Catania, Viale Alcide De Gasperi, n. 173;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Sicilia n. 20/18/12 depositata in data 10 febbraio 2012;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 luglio

2020 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

 

Fatto

RITENUTO

che:

1. Daniele D.C. ricorre, con dodici motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c. per la cassazione della sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria regionale della Sicilia che, riformando la sentenza della Commissione tributaria provinciale che aveva accolto il ricorso proposto dal contribuente avverso la cartella di pagamento emessa dall’Agenzia delle entrate ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis, in relazione all’anno d’imposta 2002, ha accolto l’appello dell’Ufficio, confermando l’atto impugnato.

In particolare, i giudici d’appello, osservando preliminarmente che la sentenza impugnata aveva rilevato l’assenza di specifiche contestazioni da parte dell’Ufficio in ordine alle eccezioni sollevate dal contribuente, hanno evidenziato che in appello l’Amministrazione finanziaria aveva precisato che l’importo ingiunto era dovuto a titolo di differenza riscontrata nella dichiarazione Mod. Unico, quadro “RU”, per l’anno d’imposta 2002 tra il credito effettivamente utilizzato in compensazione, pari ad Euro 172.417,00, risultante dai versamenti abbinati alla dichiarazione effettuati negli anni 2001 e 2002, e il credito che il contribuente aveva dichiarato di avere utilizzato, pari ad Euro 41.472,00; sottolineando che le difese dell’Agenzia delle entrate, in ordine alle quali non operavano le preclusioni previste dal D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 57 e 58, avevano “circoscritto il thema decidendum al maggior credito di imposta portato in compensazione”, hanno ritenuto che legittimamente l’Ufficio si fosse avvalso della procedura D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36-bis e che il contribuente non avesse adeguatamente soddisfatto l’onere di specifica contestazione sullo stesso incombente, in difetto di doglianze afferenti alla pretesa impositiva.

2. L’Agenzia delle entrate e la società Riscossione Sicilia s.p.a. (già Serit Sicilia s.p.a.) resistono con separati controricorsi. La società Riscossione Sicilia s.p.a. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo articolato motivo (indicato in ricorso con la lettera A) il contribuente deduce nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 57 e 58, nonchè degli artt. 101 e 345 c.p.c..

Premettendo che l’Agenzia delle entrate, costituendosi nel giudizio di primo grado, si era limitata a contestare in modo generico l’infondatezza del ricorso, senza produrre documentazione a fondamento delle proprie controdeduzioni, sostiene che le nuove deduzioni fatte valere in appello dall’Amministrazione, accompagnate da nuovi documenti, non sarebbero ammissibili in quanto introducono questioni mai dedotte in primo grado e, quindi, tardive.

Fa, altresì, rilevare che la nuova attività istruttoria non origina da fatti nuovi o sopravvenuti, atteso che l’eccepita nullità della cartella esattoriale perchè non preceduta dall’avviso bonario – e, quindi, la violazione del contraddittorio nella fase di accertamento deì presupposti dell’atto impositivo per mancato invio dell’avviso bonario – era già stata sollevata con il ricorso introduttivo nel giudizio di primo grado.

2. Con il secondo motivo (indicato in ricorso con la lettera B) censura la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 57 e 58, nonchè degli artt. 101 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c., artt. 111 e 24 Cost. e art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e lamenta che la Commissione tributaria regionale, fondando la decisione sulle nuove deduzioni difensive e sui nuovi documenti prodotti dall’Agenzia delle entrate in appello, è incorsa nella violazione delle norme richiamate in rubrica ed ha pregiudicato il diritto di difesa del contribuente.

3. Con il terzo motivo (indicato in ricorso con la lettera C) censura la sentenza impugnata per omessa ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in quanto i giudici di appello avrebbero tralasciato di valutare l’ammissibilità delle argomentazioni difensive svolte dall’Amministrazione finanziaria per la prima volta in appello, limitandosi a sostenere che le previsioni di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 57 e 58 non precludevano tali difese, rendendo in tal modo una motivazione apodittica, illogica e contraddittoria.

4. Il primo, il secondo ed il terzo motivo, essendo strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.

4.1. Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, commi 1 e 2, stabilisce il divieto dei nova in grado di appello, disponendo che le domande ed eccezioni in senso stretto, non proposte nel precedente grado di giudizio, debbono essere dichiarate inammissibili in quanto estranee al thema decidendum.

Questa Corte ha chiarito che il processo tributario, in quanto rivolto a sollecitare il sindacato giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento impositivo, è strutturato come un giudizio di impugnazione del provvedimento stesso, nel quale l’Ufficio assume la veste di attore in senso sostanziale e la sua pretesa è quella risultante dall’atto impugnato, sia per quanto riguarda il petitum che per quanto riguarda la causa petendi: tale caratteristica circoscrive il dibattito alla pretesa effettivamente avanzata con detto atto, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati ed entro i limiti delle contestazioni mosse dal contribuente (ex multis, Cass., sez. 5, 30/07/2007, n. 16829).

Da tale principio discende che la novità della domanda o dell’eccezione dell’Amministrazione finanziaria che ha emesso l’atto impositivo impugnato deve essere verificata non tanto in base alle controdeduzioni svolte dall’Amministrazione in primo grado, ma, soprattutto, avuto riguardo alla pretesa effettivamente avanzata con detto atto, ovvero alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati. Di conseguenza, per eccepire validamente la novità della questione, è necessario dimostrare che gli elementi dedotti in secondo grado dall’Amministrazione non sono stati evidenziati nell’avviso di accertamento (o cartella) oggetto dell’impugnazione (Cass., sez. 5, 28/06/2012, n. 10806; Cass., sez. 5, 10/05/2019, n. 12467).

4.2. Tanto osservato, nella specie, le deduzioni difensive svolte in appello dall’Agenzia delle entrate non introducono elementi nuovi o diversi da quelli posti a fondamento della pretesa impositiva, considerato che la motivazione della cartella di pagamento evidenziava che l’atto era volto al recupero di un credito d’imposta indebitamente utilizzato in compensazione e che in sede di gravame, come evidenziato nella sentenza impugnata, l’Ufficio ha soltanto precisato che il contribuente aveva dichiarato di avere utilizzato un credito in compensazione per Euro 41.472,00, mentre in realtà aveva utilizzato un maggior credito pari a Euro 172.417,00.

Al fine di dimostrare la differenza rilevata, l’Agenzia delle entrate, come evidenziato dalla C.T.R., ha prodotto a supporto delle deduzioni difensive l’elenco dei versamenti abbinati alla dichiarazione, dal quale risultavano gli importi a credito compensati. Tale produzione documentale è ammissibile e rituale, in forza del disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, che, in deroga all’art. 345 c.p.c., riconosce alle parti la facoltà di produrre nuovi documenti in appello.

Infatti, per costante orientamento di questa Corte, in materia di produzione documentale in grado di appello nel processo tributario, alla luce del principio di specialità espresso dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 1, comma 2 – in forza del quale, nel rapporto fra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria, prevale quest’ultima – non trova applicazione la preclusione di cui all’art. 345 c.p.c., comma 3 (nel testo introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69), essendo la materia regolata dal citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, che consente alle parti di produrre liberamente i documenti anche in sede di gravame, sebbene preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado (Cass., sez. 5, 16/09/2011, n. 18907; Cass., sez. 6-5, 6/11/2015, n. 22776; Cass., sez. 5, 22/11/2017, n. 27774; Cass., sez. 5, 13/11/2018, n. 29087).

Sebbene, dunque, “nel processo tributario in appello, l’Amministrazione finanziaria non può mutare i termini della contestazione, deducendo motivi e circostanze diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento” (Cass., sez. 5, 29/10/2008, n. 25909), in quanto il divieto di domande nuove previsto al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, comma 1, trova applicazione anche nei confronti dell’ufficio finanziario, al quale non è consentito, innanzi al giudice di appello, avanzare pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo, e dunque, sul piano della causa petendi, da quelle recepite nell’atto impositivo, altrimenti ledendosi la concreta possibilità per il contribuente di esercitare il diritto di difesa attraverso l’esternazione dei motivi di ricorso (Cass., sez. 5, 7/05/2014, n. 9810), nella fattispecie in esame le deduzioni difensive svolte e i documenti prodotti in appello dall’Agenzia delle entrate non hanno immutato i fatti costitutivi della pretesa impositiva, per come cristallizzata nella cartella impositiva e, di conseguenza, deve escludersi una lesione del diritto di difesa e del diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità.

5. Con il quarto, il quinto, il sesto motivo (indicati in ricorso al paragrafo II con le lettere A, B e C), il ricorrente deduce nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione degli artt. 88,101,115,167,345 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 23, 57 e 58, artt. 111 e 24 Cost., violazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 88,115,167,345 c.p.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 23,57 e 58, nonchè omessa ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Prendendo le mosse dalla affermazione della Commissione tributaria regionale laddove si legge: “Non appare, invece, adeguatamente soddisfatto l’onere di contestazione processualmente incombente sul contribuente appellato giacchè lo stesso, con l’atto di controdeduzioni, pur nell’ambito di copiose deduzioni difensive in diritto, ivi comprese le difese svolte in primo grado, non ha sollevato nel merito alcuna specifica doglianza o censura nei confronti della pretesa impositiva, come precisata dall’Agenzia, che è rimasta priva di diretta e concreta contestazione….”, il ricorrente rileva che: a) il principio di non contestazione non può operare in grado di appello a favore della parte che, in primo grado, abbia essa stessa, con il suo contegno processuale inerte, determinato la cristallizzazione del thema decidendum; b) la decisione della C.T.R. si pone in contrasto con le norme che regolano il carattere dispositivo del processo, delineando un sistema di preclusioni processuali che sfocia nella cristallizzazione del thema decidendum e del thema probandum.

5.1. I motivi in esame, che possono essere trattati unitariamente in quanto vertenti sulla medesima contestazione, sono infondati.

5.2. Anche al processo tributario – caratterizzato, al pari di quello civile, dalla necessità della difesa tecnica e da un sistema di preclusioni, nonchè dal rinvio alle norme del codice di procedura civile, in quanto compatibili – è applicabile il principio generale di non contestazione ex art. 115 c.p.c., comma 1, come modificato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 14, che informa il sistema processuale civile (con il relativo corollario del dovere del giudice di ritenere non abbisognevoli di prova i fatti non espressamente contestati), il quale trova fondamento non solo negli artt. 167 e 416 c.p.c., ma anche nel carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena, nella generale organizzazione per preclusioni successive, che caratterizza in misura maggiore o minore ogni sistema processuale, nel dovere di lealtà e di probità previsto dall’art. 88 c.p.c., il quale impone alle parti di collaborare fin dall’inizio a circoscrivere la materia effettivamente controversa, e nel generale principio di economia che deve sempre informare il processo, soprattutto alla luce del novellato art. 111 Cost., non assumendo alcun rilievo, in contrario, le peculiarità del processo tributario, quali il carattere eminentemente documentale dell’istruttoria e l’inapplicabilità della disciplina dell’equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo (Cass., sez. 5, 24/01/2007, n. 1540).

5.3. Questa Corte (Cass., sez. 5, 6/02/2015, n. 2196) ha, tuttavia, precisato che nel giudizio tributario la non contestazione concerne esclusivamente il piano probatorio dell’acquisizione del fatto non contestato, ove il giudice non sia in grado di escluderne l’esistenza in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, e che tale principio trova un limite strutturale insito nel fatto che l’avviso di accertamento (o di rettifica) non è l’atto introduttivo del processo, quanto piuttosto l’oggetto (immediato), sicchè la cognizione del giudice è limitata dai profili che siano stati contestati dal ricorso.

5.4. Nel caso di specie non è configurabile violazione del principio di non contestazione, nè ricorrono gli ulteriori vizi dedotti con i mezzi in esame, in quanto il giudice del gravame, a fronte della pretesa dell’Amministrazione che trova specifica indicazione nella cartella impositiva, ha ritenuto che il contribuente, pur avendo svolto numerose eccezioni e difese in primo grado, non ha sollevato specifiche doglianze in merito al maggior credito di imposta che, secondo la ricostruzione dell’Ufficio, è stato illegittimamente portato in compensazione. Anche se nella motivazione della sentenza impropriamente si afferma che il contribuente non ha assolto l’onere di contestazione sullo stesso incombente, risulta evidente che i giudici di appello, dando rilevanza alle risultanze probatorie acquisite, hanno ritenuto raggiunta la prova della pretesa impositiva ed insussistenti elementi di prova di segno contrario, non offerti dal contribuente, idonei a superare l’accertamento svolto dall’Ufficio.

6. Con il settimo motivo (indicato in ricorso al paragrafo III con la lettera A) il contribuente censura la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 421, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis, L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, artt. 7,17 (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), nella parte in cui i giudici regionali, accogliendo l’appello dell’Ufficio, hanno ritenuto legittimo il ricorso alla procedura citato D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36-bis.

Lamenta che nell’ipotesi di diniego del credito per motivi di ordine sostanziale, al fine di consentire il diritto di difesa del contribuente, è prevista la notifica di un avviso di recupero del credito d’imposta, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 421, e non una immediata iscrizione a ruolo, potendo l’Ufficio ricorrere alla procedura di liquidazione delle dichiarazione dei redditi D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36-bis e D.P.R. n. 633 del 1972,m art. 54-bis solo nei casi in cui ictu oculi emergano inesattezze o errori nella compilazione della dichiarazione dei redditi.

Quanto, poi, alla violazione della L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, rileva che la sentenza d’appello, erroneamente, non ha configurato in capo all’Amministrazione l’onere di inviare l’avviso bonario al contribuente, nè ha ritenuto che l’omesso invio di tale avviso determini nullità della cartella di pagamento.

7. Con l’ottavo motivo (indicato in ricorso al paragrafo III, lettera B) deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. e con il nono motivo (indicato in ricorso al paragrafo III con la lettera C) omessa e/o insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Ribadisce che la C.T.R. non ha debitamente esaminato la questione dell’illegittimità dell’operato dell’Ufficio, il quale aveva erroneamente iscritto a ruolo somme risultanti dall’accertamento eseguito ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, anzichè notificare l’avviso di recupero del credito d’imposta, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 421.

8. Anche il settimo, l’ottavo ed il nono motivo, da trattare congiuntamente perchè connessi, non possono essere accolti.

8.1. Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis stabilisce che l’Amministrazione, avvalendosi di procedure automatizzate, provvede a: “e) ridurre i crediti di imposta esposti in misura superiore a quella prevista dalla legge ovvero non spettanti sulla base dei dati risultanti dalla dichiarazione”.

La norma prevede, dunque, il ricorso al controllo automatizzato anche in sede di disconoscimento di crediti del contribuente, a condizione che i presupposti di tale disconoscimento non derivino da un’attività di natura accertativa o rettificativa, ma emergano “sulla base dei dati risultanti dalla dichiarazione”.

8.2. Le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 17758 del 8

settembre 2016, hanno confermato che “il procedimento di controllo C/

automatizzato dei dati è eseguito senza alcun intervento diretto degli uffici e in forza delle disposizioni di legge di cui ai ricordati artt. 36-bis e 54-bis può essere attivato nei casi di mancata considerazione dei pagamenti effettuati, errata o incompleta trasmissione e/o ricezione dei dati della dichiarazione, errori di compilazione della dichiarazione da parte del contribuente sanabili e facilmente riconoscibili, errata individuazione del contribuente, incoerenza della dichiarazione, eccedenze di imposta non completamente confermate dal sistema informativo (circ. n. 100/E e n. 143/E del 2000; circ. nn. 34/E del 2012 e 21/E del 2013), concludendosi la procedura con un atto liquidatorio ai fini dell’iscrizione a ruolo a titolo definitivo”. Hanno, inoltre, precisato che “(…) la CTR ha erroneamente ritenuto che l’attività dell’Ufficio correlata alla contestazione di detrazioni e crediti indicati dal contribuente implicasse un’attività valutativa, invece la stessa nascendo da una verifica dei dati indicati dallo stesso contribuente negli anni 2001, 2002 e 2003 e dalle incongruenze dagli stessi risultanti. Sulla base di tali considerazioni, ha dunque errato la CTR nel ritenere non correttamente utilizzato lo strumento di cui ai ricordati artt. 36-bis e 54-bis, potendo peraltro in fase processuale il contribuente pienamente dimostrare l’esistenza dei crediti che l’Ufficio ha disconosciuto sulla base della verifica dei dati esposti dal medesimo nelle dichiarazioni”.

8.3. La legittimità del controllo automatizzato è, quindi, subordinata al carattere meramente formale e non valutativo del disconoscimento del credito d’imposta, potendo quest’ultimo appunto dipendere sia da una valutazione giuridica ed accertativa di inesistenza ovvero non compensabilità del credito – ipotesi nella quale il controllo automatizzato non è consentito -sia dal riscontro puramente obiettivo della dichiarazione – ipotesi nella quale il controllo è, invece, ammesso (Cass., sez. 5, 16/11/2018, n. 29582; Cass., sez. 5, 21/03/2019, n. 7960).

8.4. Dalla sentenza impugnata si evince chiaramente che, nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria, a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione dei redditi per l’anno d’imposta 2002 presentata dal contribuente, ha riscontrato una differenza nel quadro “RU” tra il credito in compensazione dichiarato, pari a Euro 41.472,00, e quello verificato dall’Ufficio, pari ad Euro 172.417,00, riscontrato sulla base dei versamenti effettuati negli anni 2001 e 2002.

Il disconoscimento del maggior credito d’imposta utilizzato in compensazione non risulta, dunque, operato per contestazioni di merito, ma sulla base di un mero confronto formale tra i dati emergenti dalla dichiarazione relativa all’anno 2002 ed i versamenti in compensazione effettuati, sicchè la pretesa impositiva ben poteva essere fatta valere a mezzo di cartella di pagamento all’esito di controllo automatizzato.

Nella sentenza impugnata il giudice d’appello ha ritenuto che l’iscrizione a ruolo effettuata dall’Amministrazione finanziaria a seguito di controllo automatizzato sia avvenuta nel pieno rispetto delle condizioni prescritte dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, avendo rilevato “crediti di imposta esposti in misura superiore a quella prevista dalla legge ovvero non spettanti sulla base dei dati risultanti dalla dichiarazione”, in tal modo evidenziando che l’Ufficio ha proceduto ad un mero controllo cartolare che non ha implicato alcuna “valutazione giuridica” ed implicitamente escludendo che la iscrizione a ruolo della maggiore imposta ai sensi del citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis dovesse avvenire, come sostenuto dal contribuente, mediante un previo avviso di recupero di credito di imposta, come previsto dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 421.

8.5. Neppure ricorre l’asserita violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, comma 5.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, a cui questo Collegio intende dare continuità non sussistendo valide ragioni per discostarsene, “in tema di riscossione delle imposte, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, comma 5, non impone l’obbligo del contraddittorio preventivo in tutti i casi in cui si debba procedere ad iscrizione a ruolo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36-bis, ma soltanto “qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione”, situazione, quest’ultima, che non ricorre necessariamente nei casi soggetti alla disposizione appena indicata, la quale implica un controllo di tipo documentale sui dati contabili direttamente riportati in dichiarazione, senza margini di tipo interpretativo; del resto, se il legislatore avesse voluto imporre il contraddittorio preventivo in tutti i casi di iscrizione a ruolo derivante dalla liquidazione dei tributi risultanti dalla dichiarazione, non avrebbe posto la condizione di cui al citato inciso” (Cass., sez. 5, 19/11/2014, n. 24607; Cass., sez. 6-5, 20/01/2016, n. 996; Cass., sez. 6-5, 21/11/2017, n. 27716; Cass., sez. 5, 12/04/2017, n. 9463; Cass., sez. 5, 24/01/2018, n. 1711).

In particolare, questa Corte ha individuato due ipotesi nei controlli eseguiti ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, comma 3, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis, comma 3, e precisamente quella ricollegabile al riscontro di errori od omissioni meramente materiali – come l’avere dichiarato un importo d’imposta cui non corrisponda il conseguente versamento, oppure l’avere erroneamente effettuato il calcolo aritmetico in ordine al reddito percepito, agli oneri deducibili ed alle detrazioni ai fini della quantificazione dell’imposta dovuta – casi nei quali con il controllo automatizzato si dà luogo alla correzione di un mero errore che non richiede interlocuzione con il contribuente e, dunque, comunicazioni preventive alla emissione della cartella (prima ipotesi) e quella, che, invece, comprende i controlli automatizzati che non richiedano un mero ricalcolo, ma preventive rettifiche dei medesimi dati.

Questa seconda ipotesi, secondo quanto precisato da Cass., sez. 5, del 24 gennaio 2018, n. 1711 cit., deve essere a sua volta distinta “in due ulteriori sottoipotesi, il cui discrimine è segnato dalla presenza di incertezze su aspetti qualificabili come rilevanti o meno della dichiarazione; in tali ipotesi la comunicazione è dovuta, ma la sua omissione può costituire una mera irregolarità, non incidente sulla validità della cartella di pagamento successivamente emessa, qualora le incertezze riguardino aspetti meno rilevanti della dichiarazione; oppure può incidere più radicalmente sulla validità della procedura automatizzata di liquidazione dei tributi e sulla successiva cartella, qualora il diverso risultato del controllo riveli incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione” (ad analoghe conclusioni perviene anche Cass., sez. 5, 6/07/2016, n. 13759, secondo cui ” ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis, l’invio al contribuente della comunicazione di irregolarità, al fine di evitare la reiterazione di errori e di consentire la regolarizzazione degli aspetti formali, è dovuto solo ove dai controlli automatici emerga un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione ovvero un’imposta o una maggiore imposta e, comunque, la sua omissione determina una mera irregolarità e non preclude, una volta ricevuta la notifica della cartella, di corrispondere quanto dovuto con riduzione della sanzione, mentre tale adempimento non è prescritto in caso di omessi o tardivi versamenti, ipotesi in cui, peraltro, non spetta la riduzione delle sanzioni amministrative ai sensi del D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 2, comma 2″).

Peraltro, come è stato sottolineato da Cass., sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27562 (in motivazione), “in ipotesi di mancato versamento di imposta dichiarata dallo stesso contribuente, la previsione del preventivo invito al pagamento, contenuta nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 60, comma 6, quale adempimento prodromico alla iscrizione a ruolo dell’imposta, non è prevista a pena di nullità di tale iscrizione e degli atti successivi, ma comporta, in caso di omissione, una mera irregolarità, inidonea ad incidere sull’efficacia dell’atto, sia perchè non si tratta di condizione di validità – stante la mancata espressa sanzione della nullità -, avendo il previo invito al pagamento l’unica funzione di dare al contribuente la possibilità di attenuare le conseguenze sanzionatorie dell’omissione di versamento, sia perchè l’interessato può comunque pagare, per estinguere la pretesa fiscale, con riduzione della sanzione, una volta ricevuta la notifica della cartella”.

Nella specie, non sussistevano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, atteso che le compensazioni non consentite erano rilevabili sulla base della stessa dichiarazione del contribuente e, pertanto, correttamente la Commissione tributaria regionale ha implicitamente escluso la necessità della preventiva comunicazione di irregolarità di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5.

9. Con il decimo motivo (indicato in ricorso al paragrafo IV), rubricato “nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 112 e 346 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) e omessa e/o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”, il ricorrente censura la decisione impugnata in quanto i giudici di appello hanno omesso di esaminare la eccezione di violazione dell’art. 148 c.p.c.; ribadisce che la notifica della cartella di pagamento impugnata è nulla in quanto la relazione di notificazione (cd. relata) risulta apposta sul frontespizio della prima pagina e non in calce all’atto, come previsto dal citato art. 148 c.p.c., e che la nullità della notificazione è insuscettibile di sanatoria.

9.1. Anche tali censure sono infondate.

9.2. Deve, in primo luogo, escludersi il dedotto error in procedendo, in quanto ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., sez. 1, 13/10/2017, n. 24155; Cass., sez. 5, 6/12/2017, n. 29191).

La Commissione tributaria regionale, confermando la cartella di pagamento, ha implicitamente (secondo l’ordine logico-giuridico delle questioni stabilito dall’art. 276 c.p.c., comma 2) ritenuto infondata la doglianza afferente alla notificazione della cartella (questione, in tesi, preliminare e assorbente di ogni altra).

9.3. E’ pur vero che la motivazione su tale questione risulta totalmente omessa, ma deve farsi applicazione del principio secondo cui la sentenza non può comunque essere cassata qualora la questione giuridica non esaminata, non richiedendo ulteriori accertamenti in fatto, sia comunque da disattendere (Cass. Sez. U, 2/02/2017, n. 2731). Ciò posto, sul punto questo Collegio non può che osservare che un eventuale vizio di nullità della notifica della cartella di pagamento deve intendersi sanato, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., per effetto della proposizione del ricorso di primo grado.

Infatti, la notificazione è una mera condizione di efficacia e non un elemento dell’atto d’imposizione fiscale, sicchè la sua nullità è sanata, a norma dell’art. 156 c.p.c., comma 2, per effetto del raggiungimento dello scopo, desumibile anche dalla tempestiva impugnazione (Cass., sez. 5, 13/03/2015, n. 5057; Cass., sez. 5, 21/09/2016, n. 18480).

10. Con l’undicesimo motivo (indicato in ricorso al paragrafo IV con la lettera B) il ricorrente deduce “violazione della L. n. 212 del 2000, artt. 7 e 17, nonchè del D.Lgs. n. 32 del 2001, art. 8 e per l’illegittimità della procedura di assunzione- violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis”, affermando che la cartella sarebbe nulla in quanto non preceduta dall’avviso di recupero del credito d’imposta, per mancanza del titolo legittimante la pretesa tributaria, oltre che per difetto di motivazione.

Il primo profilo di doglianza, per le ragioni già esposte al p. 8.1), va rigettato.

Inammissibile risulta, invece, il secondo profilo di doglianza, atteso che la questione con esso posta, attinente alla sussistenza dei requisiti per la compensazione del credito complessivamente indicato con le imposte dovute all’Erario, è volto a sollecitare una rivisitazione del merito, già esaminato dalla Commissione regionale, precluso in questa sede.

Neppure è ravvisabile l’eccepita carenza di motivazione dell’atto impositivo, posto che la cartella di pagamento emessa all’esito di un procedimento di controllo cd. formale o automatizzato, a cui l’Amministrazione finanziaria ha potuto procedere attingendo i dati necessari direttamente dalla dichiarazione, può essere motivata con il mero richiamo a tale ultimo atto, atteso che il contribuente è già in grado di conoscere i presupposti della pretesa, anche qualora si richiedano somme maggiori di quelle risultanti dalla dichiarazione (Cass., sez. 5, 28/11/2014, n. 25329; Cass., sez. 5, 27/07/2016, n. 15564; Cass., sez. 5, 20/09/2017, n. 21804).

11. Con il dodicesimo motivo (indicato in ricorso al paragrafo V) il contribuente deduce violazione dell’art. 91 c.p.c., assumendo che erroneamente il giudice di appello avrebbe integralmente compensato le spese.

Il motivo è inammissibile per difetto di interesse.

In tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse. Con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è pertanto limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti (Cass., sez. 1, 4/08/2017, n. 19613).

Nel caso in esame, il ricorrente è risultato totalmente soccombente in grado di appello e, di conseguenza, egli non ha interesse ad impugnare la statuizione della sentenza di secondo grado con la quale i giudici di appello, anzichè condannarlo al pagamento integrale delle spese, hanno disposto la integrale compensazione delle stesse tra le parti.

12. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al rimborso, in favore dell’Agenzia delle entrate, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Condanna il ricorrente al rimborso, in favore della Riscossione Sicilia s.p.a., delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese generali nella misura forfettaria del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2020

 

 

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