Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25755 del 15/10/2018

Cassazione civile sez. II, 15/10/2018, (ud. 19/04/2018, dep. 15/10/2018), n.25755

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 15194 – 2014 R.G. proposto da:

P.R. – c.f. (OMISSIS) – A.C. – c.f. (OMISSIS) –

elettivamente domiciliati in Roma, alla via Val Gardena, n. 3,

presso lo studio dell’avvocato Lucio De Angelis che congiuntamente e

disgiuntamente all’avvocato Guido Raffaglio li rappresenta e difende

in virtù di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

R.A. – c.f. (OMISSIS) – RU.GI. – c.f.

(OMISSIS) – elettivamente domiciliati in Roma, alla via

Circonvallazione Clodia, n. 80, presso lo studio dell’avvocato

Enrica Bastoni che congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato

Andrea Ferrari li rappresenta e difende in virtù di procura

speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della corte d’appello di Brescia n. 526 del

9/16.4.2014, udita la relazione nella camera di consiglio del 19

aprile 2018 del consigliere dott. Luigi Abete.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

Con ricorso ex art. 703 c.p.c. al pretore di Brescia depositato in data 17.6.1995 R.A. e RU.GI., proprietari di un edificio in Capo di Ponte, esponevano che P.R. aveva dato corso alla ristrutturazione del fabbricato confinante; che i lavori intrapresi avevano determinato la chiusura delle luci collocate in prossimità del tetto del loro immobile, l’elevazione dell’edificio ristrutturato ad altezza superiore a quella precedente, l’apertura di due vedute illegittime e la realizzazione di una porta che consentiva l’accesso alla loro proprietà.

Chiedevano farsi ordine alla controparte di ripristinare lo status quo ante. Resisteva P.R..

Si costituiva A.C., nuda proprietaria dell’immobile di parte resistente, nei cui confronti era stata ordinata l’integrazione del contraddittorio.

Acquisite le relazioni di c.t.u., con sentenza n. 1/2009 il tribunale di Brescia, ogni ulteriore domanda reietta, ordinava l’eliminazione delle vedute “salvo che vengano munite di chiusura in vetrocemento”. Proponevano appello P.R. e A.C..

Resistevano RU.GI. e A.; spiegavano appello incidentale.

Con sentenza n. 526 dei 9/16.4.2014 la corte d’appello di Brescia, in parziale riforma della gravata sentenza, condannava i principali appellanti a ridurre il fabbricato alle dimensioni precedenti, ad eliminare la porta d’accesso e ad arretrare le due vedute.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso P.R. e A.C.; ne hanno chiesto sulla scorta di cinque motivi la cassazione con ogni conseguente statuizione anche in ordine alle spese di lite.

R.A. e RU.GI. hanno depositato controricorso; hanno chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con vittoria delle spese del giudizio di legittimità.

I ricorrenti hanno depositato memoria.

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 901 c.c. e art. 902 c.c., comma 2 e dell’art. 100 c.p.c.; l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Deducono che, così come avevano palesato di già nell’iniziale comparsa di costituzione e così come è stato acclarato dagli officiati consulenti, le vedute di cui si è lamentata l’apertura, sono state progettate come luci da chiudere con vetrocemento, sicchè risulta preclusa ogni possibilità di affaccio.

Deducono quindi che la corte di merito avrebbe dovuto rilevare il venir meno di qualsivoglia interesse alla prosecuzione, in parte qua agitur, della lite e dichiarare la cessazione della materia del contendere.

Il primo motivo è destituito di fondamento.

Questa Corte spiega che la dichiarazione di cessazione della materia del contendere può pronunciarsi, anche d’ufficio, solo quando sia sopravvenuta una situazione, riconosciuta ed ammessa da entrambe le parti, che ne abbia eliminato la posizione di contrasto anche circa la rilevanza giuridica delle vicende sopraggiunte ed abbia perciò fatto venir meno, oggettivamente, la necessità di una pronuncia del giudice su quanto costituiva l’oggetto della controversia (cfr. Cass. 30.5.1988, n. 3690; Cass. sez. lav. 17.8.2015, n. 16886, secondo cui la cessazione della materia del contendere presuppone che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongono al giudice conformi conclusioni in tal senso).

E’ necessario propriamente che la situazione sopravvenuta soddisfi in modo pieno ed irretrattabile il diritto esercitato, così da non residuare alcuna utilità alla pronuncia di merito (cfr. Cass. sez. lav. 20.3.2009, n. 6909).

In questo quadro è da escludere che nella fattispecie siano state integrate le condizioni postulate dai surriferiti insegnamenti.

Invero la corte distrettuale ha congruamente ed esaustivamente puntualizzato che la prospettazione, in parte qua, dei principali appellanti rinveniva recisa smentita alla luce delle risultanze della c.t.u. depositata in data 30.10.1999 ed alla cui stregua era indubitabile che si trattasse “di vedute, oltre tutto apribili verso l’esterno, nonostante il progetto prevedesse, almeno per una, la chiusura in vetrocemento” (così sentenza d’appello, pag. 11, ove si soggiunge che il capitolo n. 8 della prova invocata dagli appellanti principali – vedasi sentenza d’appello, pag. 4 – è generico, valutativo e non decisivo).

Ovviamente la valutazione dell’idoneità della situazione sopravvenuta ad eliminare ogni contrasto sull’intero oggetto della lite è riservata al giudice del merito ed il relativo apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità, se correttamente e logicamente motivato (cfr. Cass. 30.5.1988, n. 3690).

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 901 c.c. e art. 902 c.c., comma 2 e dell’art. 112c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4; la mancanza assoluta di motivazione. Deducono che la corte territoriale ha ordinato l’arretramento delle vedute;

che nondimeno con l’appello incidentale le controparti non avevano domandato l’arretramento ed avevano fatto riferimento ad un’unica finestra – veduta.

Il secondo motivo del pari è destituito di fondamento.

Si è anticipato e ne danno conto gli stessi ricorrenti che “con sentenza 7.1.2009, n. 1, il Tribunale di Brescia (…) accoglieva l’azione soltanto per la parte relativa alle due “vedute” del nuovo fabbricato, disponendone l’eliminazione “salvo che vengano munite di chiusura in vetro cemento”; respingeva tutte le altre domande” (così ricorso, pag. 3. Al riguardo cfr. anche sentenza impugnata, pag. 9). In tal guisa, a rigore, non vi era ragione alcuna chè il gravame incidentale da RU.GI. e A. esperito inerisse propriamente alle “due vedute illegittime (realizzate) sulla proprietà R.” (così ricorso, pag. 2), atteso, appunto, in parte qua l’esito positivo per gli originari ricorrenti ex art. 703 c.p.c. del giudizio di primo grado.

In ogni caso si rappresenta quanto segue.

Per un verso, che questo Giudice del diritto spiega che, in tema di violazione delle distanze legali, non incorre in ultrapetizione il giudice che, richiesto dell’ordine di demolizione della costruzione, ne ordini il semplice arretramento, essendo la decisione contenuta nei limiti della più ampia domanda di parte, senza esulare dalla “causa petendi”, intesa come l’insieme delle circostanze di fatto poste a fondamento della pretesa (cfr. Cass. 3.4.2014, n. 7809). Tanto ovviamente a prescindere dal rilievo per cui l’ordine di arretramento pronunciato dalla corte di Brescia è statuizione più favorevole ai ricorrenti rispetto all’ordine di eliminazione pronunciato dal tribunale di Brescia.

Per altro verso, che in tema di interpretazione della domanda giudiziale il giudice non è condizionato dalle formali parole utilizzate dalla parte, ma deve tener conto della situazione dedotta in causa e della volontà effettiva, nonchè delle finalità che la parte intende perseguire (cfr. Cass. sez. lav. 18.3.2014, n. 6226). Irrilevante perciò è il riferimento letterale ad un’unica apertura. Per altro verso ancora, che la corte lombarda, in parte qua, ha, alla luce degli esiti delle espletate c.t.u., integralmente condiviso il primo dictum, sicchè la condanna all’arretramento delle “vedute” si correla alle medesime motivazioni sulla cui scorta il tribunale ne aveva disposto l’eliminazione.

Per altro verso infine, che la prospettazione dei ricorrenti a tenor della quale l’eliminazione delle vedute è integralmente assolta mercè la loro trasformazione in luci in vetrocemento, attinge il “giudizio di fatto” cui la corte bresciana ha atteso, sicchè l’ipotetico vizio motivazionale rileverebbe nei limiti della novella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis al caso di specie (la sentenza impugnata è stata depositata in data 16.4.2014) e nei termini che le sezioni unite di questa Corte hanno esplicitato con la pronuncia n. 8053 del 7.4.2014.

E tuttavia in siffatta prospettiva l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte di seconde cure, risulta pur al riguardo in toto ineccepibile all’insegna dell’articolato passaggio motivazionale di cui si è riferito in sede di disamina del primo mezzo di impugnazione (cfr. sentenza d’appello, pag. 11).

Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 986 c.c., comma 1, art. 1140 c.c., comma 1 e art. 1168 c.c., comma 1; la mancanza di motivazione; l’omesso esame di fatto decisivo e controverso in ordine alle prove articolate.

Deducono che la corte d’appello non ha correttamente risolto il profilo della legittimazione passiva, concernente l’individuazione dell’autore del fatto lesivo del loro possesso.

Deducono in particolare che a tale scopo la corte di merito non avrebbe potuto prescindere dalla circostanza per cui la costruzione è stata commissionata unicamente dalla nuda proprietaria, ovvero da A.C., “la quale ha, via via, provveduto ai correlativi pagamenti dovuti all’impresa edile che ha costruito (…) il nuovo edificio” (così ricorso, pag. 12).

Il terzo motivo è privo di fondamento.

Ed infatti la corte territoriale ha congruamente e plausibilmente esplicitato che anche a P.R., in quanto usufruttuario e dunque effettivo possessore dell’immobile, era da ascrivere, in veste di autore morale, l’azione lesiva del possesso dei R..

A nulla rileva quindi che ad incaricare la “Edilono s.n.c. di V.G. & C.”, ai fini dell’esecuzione dei lavori di ricostruzione del fabbricato rurale in via Limiti di Capo di Ponte, sia stata A.C., evidentemente destinata, per tale aspetto, ad assumere, nonostante la sua qualità di nuda proprietaria, la veste di autore materiale della lesione possessoria. Il dictum della corte di Brescia è pertanto ineccepibile.

Del resto questo Giudice del diritto spiega da tempo che sono passivamente legittimati all’azione di reintegrazione sia l’autore materiale dello spoglio che quello morale, intendendosi per tale il mandante e colui che ex post abbia utilizzato a proprio vantaggio il risultato dello spoglio (nel caso di specie l’usufruttuario, P.R.), sostituendo coscientemente il proprio al possesso dello spogliato (cfr. Cass. 6.5.1978, n. 2177).

In relazione poi all’ulteriore deduzione dei ricorrenti, secondo cui la corte lombarda ha omesso qualsivoglia motivazione in ordine ai capitoli di prova testimoniale al riguardo articolati, è sufficiente reiterare l’elaborazione di questa Corte.

Ovvero che non è censurabile in sede di legittimità il giudizio (anche implicito) espresso dal giudice di merito in ordine alla superfluità della prova testimoniale dedotta da una parte, specie quando lo stesso giudice abbia, con ragionamento logico e giuridicamente corretto (è il caso de quo), ritenuto di avere già raggiunto, in base all’istruzione probatoria già esperita, la certezza degli elementi necessari per la decisione (cfr. Cass. 27.7.1993, n. 8396).

Ovvero che la motivazione di rigetto di un’istanza di mezzi istruttori non deve essere necessariamente data in maniera espressa, potendo la stessa ratio decidendi, che ha risolto il merito della lite, valere da implicita esclusione della rilevanza dei mezzi dedotti ovvero da implicita ragione del loro assorbimento in altri elementi acquisiti al processo (cfr. Cass. 16.6.1990, n. 6078).

Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 880 e 832 c.c., art. 948 c.c., comma 3, art. 1140 c.c., comma 1; l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti; la mancanza di motivazione in ordine alla prova testimoniale.

Deducono che ha errato la corte d’appello, allorchè ha ritenuto nell’esclusivo possesso delle controparti la porzione di muro sul confine eccedente l’altezza del rudere residuato dopo il crollo dell’originario edificio; che invero l’originario manufatto era di altezza quanto meno pari a quello dei R. ed il suo crollo non è valso a comportare la perdita del compossesso della porzione di muro sovrastante.

Deducono altresì che, contrariamente all’assunto della corte di merito, le originarie costruzioni erano certamente in aderenza, con muro divisorio comune ad entrambi i confinanti.

Deducono inoltre che la corte distrettuale per nulla ha motivato in ordine alla mancata ammissione del prova testimoniale articolata onde dimostrare che il nuovo edificio è collocato esattamente ove era posizionato il preesistente e che l’altezza dell’edificio originario, poi crollato, era eguale a quella dell’edificio delle controparti.

Il quarto motivo parimenti è privo di fondamento.

E’ indubitabile che la presunzione di comproprietà di un muro divisorio a norma dell’art. 880 c.c., fondandosi su uno stato di fatto, qual è l’esistenza di due edifici confinanti divisi da un muro di eguale utilità per l’uno e l’altro, comporta, in mancanza di prova contraria, la presunzione anche del compossesso del muro stesso, in considerazione dell’utilità che esso fornisce ad entrambi gli immobili, sicchè in funzione dell’eccezione feci sed iure feci la presunzione di compossesso può spiegare rilevanza nel giudizio possessorio che abbia oggetto la tutela del medesimo muro (cfr. Cass. 23.2.1990, n. 1348).

Su tale scorta si osserva che certamente, qualora in virtù della coesistenza di due edifici il muro che li divide è da ritenere comune (in virtù della presunzione di comunione sancita dall’art. 880 c.c. riguardo ai muri che separano entità prediali omogenee), il venir meno di tale coesistenza, per la demolizione, in tutto o in parte, di uno dei due edifici, non immuta lo stato giuridico presunto, sicchè resta a carico di chi invoca la proprietà esclusiva l’onere di dimostrare che, in realtà, la comunione non sussisteva al tempo della contemporanea esistenza dei due edifici o è venuta a cessare per un fatto posteriore, idoneo a trasferire il dominio (cfr. Cass. 24.6.1972, n. 2145; Cass. 3.8.1995, n. 8497).

E nondimeno, diversamente dall’ambito petitorio, in ambito possessorio il venir meno della coesistenza di due edifici immuta lo stato di fatto, sicchè è onere della parte che invoca l’originario compossesso dimostrare, onde dar ragione del buon fondamento dell’eccezione – evidentemente – feci sed iure feci, correlantesi al prefigurato suo proprio jus possessionis, che il compossesso esisteva al tempo della contemporanea esistenza dei due edifici.

In questi termini appieno è da condividere il rilievo della corte territoriale.

Ovvero, da un canto, l’affermata operatività della presunzione ex art. 880 c.c., comma 1, prima parte, di comune proprietà, recte di compossesso, del muro divisorio sino all’altezza del “casotto – baracca con tetto in lamiera posseduto dal P., ad esso appoggiato” (così sentenza d’appello, pag. 16).

Ovvero, dall’altro, l’affermata operatività della presunzione ex art. 880 c.c., comma 1, seconda parte, di proprietà esclusiva, recte di possesso esclusivo in capo ad RU.GI. e A. della porzione dello stesso muro che si eleva al di sopra del “casotto -baracca”.

In questo quadro il complesso delle censure che il mezzo in disamina veicola, egualmente attinge il “giudizio di fatto” cui la corte di Brescia ha atteso (“che, nella specie, si tratti di costruzione originaria in aderenza e, quindi, con muro divisorio comune ad entrambi i confinanti, emerge dai seguenti dati decisivi, (…)”: così ricorso, pag. 15). Cosicchè analogamente l’asserito vizio motivazionale potrebbe rilevare nei limiti della novella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e nei termini di cui alla statuizione n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte. E tuttavia in questa proiezione l’iter motivazionale su cui si fonda la pronuncia della corte lombarda, risulta anche al riguardo in toto ineccepibile.

D’altronde nella prima relazione depositata il 30.10.1999 il consulente d’ufficio riferiva esplicitamente di non essere in grado di precisare l’altezza dell’originario edificio grosso modo coincidente con il mappale n. (OMISSIS) (cfr. ricorso, pagg. 15 – 16). Nel quadro dapprima delineato, inoltre, non riveste precipuo significato la circostanza per cui la corte bresciana ha aggiuntivamente assunto che trattasi “di un edificio contiguo, (…) non costruito in aderenza al muro R., (…) proprio per l’esistenza di un’intercapedine fra i due manufatti” (così sentenza d’appello, pag. 17).

Nel quadro dapprima delineato, infine, in ordine alla prova testimoniale di cui si è censurata la mancata ammissione, esplicano valenza ovviamente gli insegnamenti di questo Giudice del diritto in precedenza richiamati (il riferimento è a Cass. 27.7.1993, n. 8396, e a Cass. 16.6.1990, n. 6078).

Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4; l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti; la mancanza di motivazione in ordine alla prova testimoniale.

Deducono che la corte d’appello si è limitata ad affermare che la porta lede il possesso degli iniziali ricorrenti, giacchè consente un accesso dapprima precluso; che in tal guisa la corte ha omesso ogni motivazione sul punto.

Deducono altresì che segnatamente le risultanze delle espletate c.t.u., del libero interrogatorio di R.A. e delle dichiarazioni rese dal teste Sergio Sostene danno ragione della preesistenza della porta da epoca immemorabile.

Il quinto motivo non merita seguito.

In proposito non può prescindersi da taluni rilievi dei controricorrenti.

Ossia che la porta atta a consentire l’accesso all’immobile nel possesso dei R. “dal (OMISSIS) in poi (…) era stata sigillata e nessuno vi era più passato sino a quando non veniva riaperta durante i lavori di ricostruzione” (così controricorso, pag. 27).

Ossia che, “provato l’esclusivo e pieno possesso del fondo (…) antistante la porta in questione da parte del (…) R., era onere della controparte semmai provare di aver posseduto in modo non violento o clandestino e per oltre un anno l’immagine di servitù rivendicata con la creazione della porta” (così controricorso, pag. 28).

Al cospetto di tali rilievi, allorchè, a fronte dell’azione possessoria esperita da RU.GI. e A., i ricorrenti assumono ed ambiscono a provare che “è sempre esistita, da tempi immemori e comunque da prima del (OMISSIS), un’apertura di ampiezza uguale o superiore all’attuale apertura, dalla quale i proprietari dell’edificio ora di A. ed aventi causa accedevano per accesso e regresso attraverso la proprietà dei ricorrenti” (così ricorso, pag. 24; così capitolo n. 9 della prova orale invocata dai ricorrenti: cfr. al riguardo sentenza di appello, pag. 4), i medesimi P.R. e A.C. evidentemente eccepiscono – feci sed iure feci – il possesso da parte loro della servitù di passaggio (cfr. Cass. 20.4.1976, n. 1383, secondo cui l’eccezione feci sed iure feci non vale a contrastare l’azione di reintegrazione se sia fondata su un preteso ius possidendi; essa vale invece ad escludere l’arbitrarietà del fatto, se idonea a dimostrare, anzichè lo jus possidendi, lo jus possessionis, ossia che lo spogliatore operò nell’ambito del suo possesso, esclusivo o comune con l’attore in reintegrazione).

E nondimeno nel segno della contestuale valutazione delle rispettive posizioni di possesso (jus possessionis) non può non rimarcarsi che non si ha riscontro nè dell’allegazione nè dell’avvenuta dimostrazione della pacifica ed ininterrotta durata ultrannuale dell’eccepito possesso della servitù di passaggio attraverso la porta oggetto di contestazione con specifico riferimento al periodo temporale immediatamente precedente il (OMISSIS), dì in cui RU.GI. e A. ebbero a proporre il ricorso ex art. 703 c.p.c. che ha dato inizio alla presente vicenda litigiosa. Ben vero a tal specifico fine non rivestono valenza ed influenza alcuna i capitoli di prova orale, segnatamente il capitolo n. 9, reiterati dai ricorrenti in veste di appellanti principali innanzi alla corte di merito (cfr. sentenza di appello, pagg. 3 – 5).

Nessun seguito merita pertanto la deduzione di P.R. e A.C. secondo cui “la Corte territoriale (…) omette (…) di motivare sulle ragioni della mancata ammissione della pur risolutiva prova, concernente la preesistenza, da tempo immemorabile (…) della porta in questione (…)” (così ricorso, pag. 25).

Più esattamente si reputa che la durata (ininterrotta, pacifica e pubblica) minima di un anno ed un giorno, quale imprescindibile connotazione sostanziale delle figure di possesso di cui all’art. 1170 c.c., comma 1, rileva non solo ai fini dell’esperibilità dell’azione di manutenzione, ma pur ai fini dell’esperibilità dell’eccezione riconvenzionale feci sed iure feci correlantesi alla pretesa sussistenza di una distinta ancorchè concorrente situazione possessoria, rispetto alla quale l’iniziativa possessoria azionata in via di ricorso può assumere significato di molestia di diritto (cfr. a tal ultimo proposito Cass. 20.5.1997, n. 4463, secondo cui, ai fini dell’azione possessoria di manutenzione, le turbative possono assumere la forma di molestie di fatto, quando attentino all’integrità del possesso attraverso qualsiasi apprezzabile modificazione o limitazione del modo del precedente esercizio, operate contro la volontà del possessore, o di molestie di diritto, che si concretizzano in contestazioni avanzate in via giudiziale o stragiudiziale contro l’altrui possesso, in maniera da esporre a pericolo il godimento del bene).

In dipendenza del rigetto del ricorso i ricorrenti vanno in solido condannati a rimborsare ai controricorrenti le spese del giudizio di legittimità.

La liquidazione segue come da dispositivo.

Il ricorso è datato 3.6.2014. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna in solido i ricorrenti, P.R. e A.C., a rimborsare ai controricorrenti, R.A. e RU.GI., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nel complesso in Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti, P.R. e A.C., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ sez. civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 19 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2018

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