Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25753 del 30/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 30/10/2017, (ud. 25/05/2017, dep.30/10/2017),  n. 25753

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4819/2012 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliaLa in ROMA, VIA

DELLE TRE MADONNE 8, presso lo studio dell’avvocato MARCO MARAZZA,

che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA

195, presso lo studio dell’avvocato SERGIO VACIRCA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIO LALLI, giusta

delega in atti;

– concroricorrente –

avverso la sentenza n. 96/2011 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 22/02/2011 R.G.N. 789/10.

Fatto

RILEVATO

Che con sentenza del 27.1.2011 la Corte di Appello di L’Aquila ha riformato la sentenza del Tribunale di Pescara che aveva respinto la domanda di D.M.A. ed ha accertato la nullità del termine apposto al contratto stipulato con Poste Italiane spa per il periodo dal 13.12.2001/31.1.2002, con causale relativa a “esigenze tecniche produttive e organizzative della struttura operativa connessa anche alle punte di più intensa attività prevista per fine/inizio anno”.

Che la Corte, respinta l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, ha ritenuto applicabile al rapporto la disciplina di cui all’art. 25 del CCNL 11.1.2001 e quindi illegittimo il termine per non avere Poste Italiane spa fornito la prova del rispetto della clausola di contingentamento, regolata prima dal comma 3 dell’art. 8 del ccnl ‘94 e quindi dall’art. 25 del CCNL del 2001, che prevede una percentuale di lavoratori assunti a termine non superiore, su base regionale, al 5% del numero dei lavoratori in servizio alla data del 31.12. dell’anno precedente.

Che avverso tale sentenza Poste Italiane spa ha proposto ricorso affidato a tre motivi, con deposito anche di memoria ex art. 378 c.p.c..

Che D.M. ha resistito con controricorso, depositando memoria. Che il P.G. in data 8.5.2017 ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

Che i motivi di ricorso hanno riguardato: 1) la violazione degli artt. 1362 e 1175 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte disatteso l’eccezione di risoluzione per mutuo consenso tempestivamente formulata; 2) la violazione dell’art. 2967 c.c. e dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la corte ritenuto che il superamento della soglia di contingentamento di cui all’art. 25 del ccnl 11.1.2001, che tuttavia con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001, era stata abrogata la L. n. 230 del 1962 e dunque anche l’art. 3 che poneva a carico del datore di lavoro l’onere di provare i presupposti dell’assunzione a termine;3) la violazione della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, nn. 5 e 7, non avendo comunque la corte applicato la nuova disciplina in punto di conseguenze risarcitorie in ipotesi di nullità del termine.

Che il primo motivo è infondato. Questa Corte ha più volte statuito (cfr. da ultimo Cass. n. 14422/2015, Cass. 9 aprile 2015 n. 7156; Cass. 12 gennaio 2015 n. 231) che ai fini della configurabilità della risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso (che costituendo eccezione in senso stretto, va provata da colui che la eccepisce, cfr., Cass. 7 maggio 2009 n. 10526, Cass. 1 febbraio 2010 n. 2279), non è di per sè sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo l’impugnazione del licenziamento e dopo la scadenza del contratto a termine, o anche il semplice ritardo nell’esercizio dei suoi diritti, ma è necessario che sia fornita la prova di altre significative circostanze che denotano una chiara e certa volontà delle parti contraenti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze non sono state evidenziate dalla società ricorrente, che si è limitata ad evidenziare il solo trascorrere di quattro anni dalla cessazione del contratto all’inizio dell’azione giudiziaria.

Che infondato è altresì il secondo motivo. Non può revocarsi in dubbio che al contratto a termine stipulato dalle parti in data 13.12.2001 con riferimento alla causale prevista dall’art. 25 del CCNL 11.1.2001, che si è aggiunta a quelle già previste dall’art. 8 del CCNL 94 ai sensi della L. n. 86 del 1997, art. 23, la disciplina applicabile è quella di cui al sistema vigente anteriormente al D.Lgs. n. 368 del 2001, in forza dell’art. 11 di tale decreto, con proroga sino alla scadenza del contratto collettivo del gennaio 2001 (ossia sino al 31.12.2001). Conseguentemente va applicata la normativa previgente che richiedeva come unico limite quello della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato prescindendo, pertanto, “dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” cfr., per tutte (v. Cass. n. 21063/2008).

Che è consolidato l’orientamento di questa Corte secondo cui “In tema di clausola di contingentamento dei contratti di lavoro a termine di cui della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, l’onere della prova dell’osservanza del rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine previsto dalla contrattazione collettiva, da verificarsi necessariamente sulla base dell’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo terminato, è a carico del datore di lavoro, sul quale incombe la dimostrazione, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 3, dell’oggettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro (cfr., da ultimo Cass. n. 1351/2015, Cass. n. 4764/2015).

Che deve invece accogliersi il terzo motivo di gravame, con riferimento all’applicazione dello jus superveniens, costituito dalla normativa di cui della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7, come richiesto da parte ricorrente, trattandosi di giudizio “pendente” ai sensi del citato art. 32, comma 7. Ed infatti è pacifico che la sopravvenuta disciplina di cui all’art. 32 citato, è stata emanata prima della decisione e della pubblicazione della sentenza impugnata (rispettivamente in data 27.1.2011 e 24.2.2011); comunque la norma in esame appartiene a quelle che, in quanto retroattive, sono applicabili al rapporto, non essendo richiesto necessariamente un errore nell’applicazione della legge, posto che oggetto del giudizio di legittimità non è l’operato del giudice ma la conformità della decisione adottata all’ordinamento giuridico (cfr. Cass. SSUU. 27/10/2016 n. 22691).

che pertanto rigettati i primi due motivi di ricorso e accolto il terzo, la sentenza va cassata in relazione al motivo accolto e rinviata alla Corte di appello di Campobasso, che dovrà limitarsi a quantificare l’indennità spettante all’odierna parte contro ricorrente per il periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia con cui è stata disposta la riammissione in servizio (cfr., per tutte Cass. n. 14461/2015), con interessi e rivalutazione da calcolarsi a far tempo dalla sentenza dichiarativa della nullità del termine (cfr., Cass. n. 3062/2016).

PQM

accoglie il terzo motivo, rigettati gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Campobasso, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza Camerale, il 25 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2017

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