Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2574 del 03/02/2011

Cassazione civile sez. II, 03/02/2011, (ud. 12/01/2011, dep. 03/02/2011), n.2574

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.V. e P.M., rappresentati e difesi, in

forza di procura speciale a margine del ricorso, dall’Avv. Amabile

Carla, elettivamente domiciliati presso lo studio dell’Avv.

Gianfranco Garone in Roma, corso Trieste, n. 95;

– ricorrenti –

contro

C.D., in proprio e quale avente causa di C.

M., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a

margine del controricorso, dagli Avv. Tosti Renzo e Alfredo Barbieri,

elettivamente domiciliata nello studio di quest’ultimo in Roma, via

Lucrezio Caro, n. 67;

– controricorrente –

avverso le sentenze della Corte d’appello di Firenze n. 1210 del 13

luglio 2001 (sentenza non definitiva) e n. 1013 del 17 giugno 2004

(sentenza definitiva).

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 12

gennaio 2011 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti;

uditi gli Avv. Gianfranco Garone, per delega dell’Avv. Carla Amabile,

e Renzo Tosti;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per il

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex art. 700 cod. proc. civ., depositato il 10 settembre 1987, P.V., D.S. e L.P., proprietari di tre appartamenti siti al piano terreno, al primo piano ed al secondo ed ultimo piano dello stabile di via (OMISSIS), esponevano che, nel febbraio 1987, in seguito all’avaria di una pompa di sollevamento delle acque pluviali e di falda sita in apposito pozzo nel giardino di proprietà esclusiva di P.V., avevano appreso che, in tale pozzo di drenaggio, era stata immessa, abusivamente e clandestinamente, attraverso una perforazione sotterranea, una fognatura nera proveniente da uno scantinato, sito nello stesso palazzo, detenuto da C. B., il quale sembrava aver presentato una domanda di condono edilizio per l’abusiva trasformazione del predetto immobile in locale di abitazione.

I ricorrenti chiedevano che, in via d’urgenza, fosse ordinato a C.B., nella sua qualità di detentore dell’immobile in questione e quale esecutore delle immissioni, manomissioni e trasformazioni abusive che ledevano i diritti dei ricorrenti, e a M.R., quale intestatario dello stesso immobile, sia la rimozione della fognatura nera che, dallo scantinato di via (OMISSIS), confluiva nel pozzo condominiale, sia la cessazione dell’uso abitativo della predetta cantina.

Con altro ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. , depositato il 17 settembre 1987, C.B. chiedeva che venisse ordinato a tutti e tre i predetti condomini di non opporsi all’allacciamento dell’appartamento alla rete di distribuzione del gas metano e all’allacciamento degli scarichi delle acque nere al chiusino condominiale.

Disposta ed eseguita c.t.u., il Pretore di Livorno, con ordinanza depositata il 1 febbraio 1988, rigettava il secondo ricorso e, in parziale accoglimento del primo, intimava a C.B. l’immediata rimozione delle fognature nere che, dal locale seminterrato, confluivano nel pozzo condominiale di drenaggio delle acque chiare situate nel giardino di proprietà P..

Iniziato il giudizio di merito, il Tribunale di Livorno, con sentenza n. 805 del 12 dicembre 1996, confermava l’ordinanza pretorile, condannava il convenuto C.B. a rifondere agli attori le spese da loro sostenute per l’esecuzione dell’ordinanza, rigettava le domande principali (a) di risarcimento del danno, (b) di inibirsi al convenuto di destinare i locali di sua proprietà ad abitazione e (c) di dichiararsi la nullità dell’atto notarile di compravendita, con il quale il convenuto aveva inteso acquistare, dal curatore del fallimento di M.R., l’immobile di cui trattasi, dichiarava il difetto di legittimazione passiva del convenuto M.R. e rigettava la domanda riconvenzionale del convenuto C.B. di dichiararsi il suo diritto di allacciarsi, ex art. 1117 cod. civ. , alla fognatura condominiale e all’impianto di gas metano.

Proponevano appello principale C.M. e C. D., in qualità di successori a titolo universale di C.B.; resistevano e interponevano appello incidentale P.V., D.S. e L.P..

La Corte di Firenze, con sentenza non definitiva n. 1210 del 13 luglio 2001, rigettava l’appello incidentale e, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarava il diritto degli appellanti principali, nella loro qualità di condomini, a partecipare alla comunione relativa all’impianto fognario condominiale; statuiva, quindi, che essi avevano il diritto di allacciare gli scarichi provenienti dalla loro porzione d’immobile.

Quindi la Corte d’appello, con sentenza definitiva n. 1013 del 17 giugno 2004, dichiarava inammissibile per difetto di interesse, ex art. 100 cod. proc. civ., la domanda degli appellanti principali diretta ad ottenere, al fine del collegamento all’impianto di fognatura condominiale, la pronuncia costitutiva di servitù coattiva, e regolava le spese di entrambi i gradi del giudizio, compensandole integralmente tra le parti.

Per la cassazione della sentenza non definitiva e della sentenza definitiva della Corte d’appello hanno proposto ricorso, sulla base di quattro motivi, P.V. e P.M., quest’ultimo quale avente causa di B.B. e S. D., a loro volta aventi causa di L.P..

Ha resistito, con controricorso, C.D., in proprio e quale avente causa di C.M..

La controricorrente ha depositato una memoria illustrativa in prossimità dell’udienza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia “violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 cod. proc. civ., n. 3, in relazione agli artt. 1102 e 1117 cod. civ.), lamentando che la Corte d’appello non abbia accolto il secondo motivo del gravame incidentale sul rilievo che i condomini non avessero diritto ad impedire al C. un uso del bene non vietato dalla legge o dal titolo. Ad avviso dei ricorrenti, la Corte territoriale non avrebbe considerato che l’uso dello scantinato quale abitazione comporta un mutamento dell’uso delle cose comuni che si risolve in un impedimento per gli altri condomini di far uso della cosa comune secondo il loro diritto, come previsto dall’art. 1102 cod. civ..

1.1. – Il motivo è inammissibile.

La sentenza impugnata, nell’esaminare il secondo motivo dell’appello incidentale, ha precisato che i condomini non hanno “alcun diritto (e nemmeno alcun, diverso interesse altrimenti tutelato dal punto di vista giuridico) di impedire a C.B. un uso del suo bene non vietato dalla legge o dai loro titoli”, tanto più che, “a seguito … della concessione in sanatoria”, era venuta meno la contrarietà alla legge dell’uso abitativo dell’immobile.

Ora, i ricorrenti prospettano la violazione degli artt. 1102 e 1117 cod. civ., deducendo che l’uso di abitazione dell’immobile da parte dei C. impedirebbe di far uso della cosa comune.

Si tratta di una questione prospettata in via generica, con la quale l’impedimento agli altri partecipanti di fare uso della cosa comune secondo il loro diritto è dedotto in via apodittica, senza indicare nè quali risultanze il giudice del merito avrebbe omesso di valutare, nè le affermazioni in diritto della sentenza impugnata ritenute erronee.

Invero, per costante giurisprudenza (Cass., Sez. 1^, 17 maggio 2006, n. 11501; Cass., Sez. 1^, 8 marzo 2007, n. 5353), il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 cod. proc. civ., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione del vizio, essendo nella specie l’errore di diritto individuato per mezzo della sola preliminare indicazione delle norme pretesamente violate, ma non dimostrato per mezzo di una critica circostanziata delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia.

2. – Il terzo motivo (violazione o falsa applicazione di norme di diritto e omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevato d’ufficio: art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5, in relazione agli artt. 869, 872 cod. civ. ed agli artt. 221 e ss. del R.D. 27 luglio 1934, n. 1265) – che in ordine logico va esaminato prima del secondo – lamenta che la Corte d’appello abbia attribuito agli appellanti principali il diritto di comproprietà sulla fognatura comune, interpretando erroneamente il certificato di abitabilità rilasciato dal Comune di Livorno il 24 luglio 1976 e ritenendo che negli scantinati del condominio di via (OMISSIS), fossero presenti ab origine servizi igienici. Con esso il ricorrente sottolinea che un locale destinato ad uso cantina non può contenere servizi igienici, perchè questo sarebbe contrario a qualsiasi norma edilizia e sanitaria e precisa che la licenza in sanatoria è stata concessa in data 13 gennaio 1988, cioè molto tempo dopo il rilascio del certificato di abitabilità e l’utilizzo dello scantinato per fini abitativi.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

La Corte territoriale – nell’accogliere, con la sentenza non definitiva, il primo motivo dell’appello principale dei C. -, dopo avere premesso che anche un locale adibito a cantina può ben essere dotato di servizi igienici o, almeno, di un lavandino, ha affermato che, anche a voler prescindere dal successivo e legittimo mutamento di destinazione, non può essere negata la partecipazione del condomino proprietario delle cantine stesse alla communio incidens relativa alla fognatura condominiale, e ciò anche nel caso in cui il collegamento alla fognatura condominiale fosse, inizialmente, non attuale ma, solo, potenziale.

La Corte ha altresì rilevato, in fatto, che, nella specie, il collegamento esisteva certamente fin dall’inizio: sia perchè nel permesso di abitabilità rilasciato dal Sindaco di Livorno il 24 luglio 1976 – e, dunque, in riferimento alla situazione originaria del fabbricato, conforme alla licenza edilizia – si dava atto che nello scantinato di cui trattasi erano presenti “servizi vari”; sia perchè nella scheda di accatastamento del 2 settembre 1976 la porzione di immobile de qua era descritta come scantinato, posto al piano seminterrato, composto da due camere, una cucina ed un wc. Ora, la censura dei ricorrenti per un verso non coglie l’intera ratio decidendi che sorregge la sentenza impugnata, non confrontandosi affatto con la specifica motivazione in punto di diritto che ammette la partecipazione del condomino proprietario delle cantine alla comunione avente ad oggetto la fognatura condominiale, anche nel caso in cui il collegamento alla fognatura stessa sia, ab origine e prima del mutamento di destinazione d’uso, soltanto potenziale.

Per l’altro verso, il motivo – oltre a non considerare che la Corte del merito ha basato il proprio convincimento sulla presenza di detto collegamento fin dall’inizio anche sulle emergenze catastali – si risolve in una generica contestazione dell’interpretazione data dal giudice del gravame al certificato di abitabilità rilasciato dal Sindaco del Comune di Livorno, senza indicare quali criteri ermeneutici quel giudice avrebbe in concreto violato, e limitandosi a richiamare un altro documento – la licenza in sanatoria concessa in data 13 gennaio 1988 – senza trascriverne il contenuto, come era necessario in virtù del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione.

3. – Con il secondo mezzo (violazione o falsa applicazione degli artt. 278 e 279 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5) i ricorrenti lamentano il rigetto, per difetto di prova sul quantum, della domanda di risarcimento dei danni dagli stessi avanzata in primo grado, dolendosi che il giudice di secondo grado abbia erroneamente ritenuto che l’originaria domanda comprendesse, non solo l’an debeatur, ma anche il quantum. La citazione introduttiva – si osserva – conteneva infatti la richiesta della condanna al risarcimento dei danni provocati dagli abusi dei convenuti, danni da liquidarsi in corso di causa o in separato giudizio.

2.1. – Il motivo è inammissibile per difetto di interesse.

Per costante giurisprudenza, ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 278 cod. proc. civ., occorre accertare l’illegittimità della condotta e, sia pure con modalità sommaria e valutazione probabilistica, la portata dannosa di essa; nel caso di condanna generica, infatti, ciò che viene rinviato al separato giudizio è soltanto l’accertamento in concreto del danno nella sua determinazione quantitativa, mentre l’esistenza del fatto illecito e la sua potenzialità dannosa devono essere accertate nel giudizio relativo all’an debeatur e di esse va data la prova sia pure sommaria e generica, in quanto costituiscono il presupposto per la pronuncia di condanna generica (Cass., Sez. 2^, 1 agosto 2001, n. 10453; Cass., Sez. Lav., 22 gennaio 2009, n. 1631).

Ora, poichè – per effetto del rigetto del primo e del terzo motivo – è rimasta definitivamente esclusa la fondatezza delle domande rivolte all’accertamento dell’illieceità delle condotte poste in essere dai C., consistenti nell’allacciamento della loro porzione immobiliare alla fognatura condominiale e nella trasformazione della destinazione d’uso dello scantinato, è da escludere che – stante l’esclusione del lamentato fatto illecito – residuino ragioni per una condanna al risarcimento del danno, in favore degli originari attori, sia pure limitata all’an debeatur.

4. – Con il quarto mezzo (violazione e falsa applicazione dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, in relazione agli artt. 91 e 92 cod. proc. civ.) si lamenta che la Corte d’appello abbia compensato le spese di entrambi i gradi del giudizio e della c.t.u. disposta dal Pretore di Livorno, ritenendo che sussistesse la reciproca soccombenza.

4.1. – La censura è infondata.

La compensazione delle spese tra le parti delle spese del doppio grado è stata basata sulla reciproca soccombenza, avendo la Corte d’appello, per un verso, in riforma della sentenza di primo grado, riconosciuto in capo ai C., nella loro qualità di condomini, il diritto a partecipare alla comunione relativa all’impianto fognario condominiale, e, per l’altro verso, dichiarato il difetto di interesse di costoro all’accoglimento della domanda riconvenzionale diretta ad ottenere la pronuncia costitutiva di servitù coattiva.

La compensazione, pertanto, è stata disposta in un caso che, ai sensi dell’art. 92 cod. proc. civ., comma 2, lo consentiva.

Di ciò sono consapevoli gli stessi ricorrenti, i quali affidano in realtà le ragioni della censura sulle spese all’accoglimento degli altri motivi di ricorso, da cui solo deriverebbe la “piena soccombenza dei C.”.

5. – Il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese processuali sostenute dalla controricorrente, liquidate in complessivi Euro 2.200,00 di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2011

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