Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25736 del 14/12/2016


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Cassazione civile, sez. I, 14/12/2016, (ud. 05/10/2016, dep.14/12/2016),  n. 25736

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPPI Aniello – Presidente –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) s.r.l., in persona dell’amministratore giudiziario, rappr.

e dif. dall’avv. Gaetano Franchina, elett. dom. in Roma, piazza

Cavour n. 17, presso lo studio dell’avv. Maurizio Canfora, come da

procura in calce all’atto;

– ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) s.r.l., in persona del curatore fall. p.t.,

rappr. e dif. dall’avv. Salvatore Nicolosi, elett. dom. presso lo

studio dell’avv. Ludovica Longari, in Roma, via Cola di Rienzo n.

264, come da procura in calce all’atto;

– controricorrente –

ATLAS Cementi s.r.l.;

Procuratore generale presso la Corte d’appello di Messina;

– intimati –

per la cassazione della sentenza App. Messina 12.12.2013, n.

846/2013, RG 841/2012, Cron. 2807/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

giorno 5 ottobre 2016 dal Consigliere relatore Dott. Ferro Massimo;

udito l’avvocato G. Latini per il ricorrente;

udito il P.M. in persona del sostituto procuratore generale Dott.

SALVATO Luigi che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

IL PROCESSO

La società (OMISSIS) s.r.L., in persona dell’amministratore giudiziario nominato dal Tribunale di Messina (collegio delle misure di prevenzione), impugna la sentenza App. Messina 12.12.2013 n. 846/2013 con cui veniva rigettato il suo reclamo avverso la sentenza Trib. Messina 30.11.2012 dichiarativa del fallimento della medesima società, a sua volta resa su istanza della società Atlas Cementi s.r.l..

Rilevò innanzitutto la corte d’appello l’infondatezza dell’eccezione di carenza di legittimazione della società Atlas Cementi s.r.l., posto che l’istanza da questa presentata per la dichiarazione di fallimento, per quanto priva originariamente della autorizzazione del giudice delegato alla sua misura di prevenzione, era stata poi integrata con decreto in sanatoria del Tribunale di Agrigento e senza conflitto con il sequestro preventivo penale, la cui efficacia sospensiva sulla prima misura era venuta meno a seguito della successiva revoca. In secondo luogo, affermò la sentenza che non si poneva alcuna questione di prevalenza sul fallimento della misura di prevenzione a carico di (OMISSIS) s.r.l., avendo essa – e poi la confisca – avuto per oggetto le quote sociali già appartenenti a P.D., dunque trattandosi di vincoli non coincidenti, nè rilevando sul punto la sospensione dall’amministrazione disposta ai sensi della L. n. 575 del 1965, art. 3 quater. Nè si poneva alcun obbligo per l’istante creditore di far confluire le sue pretese quale incidente di esecuzione penale ovvero di esaminare l’insolvenza di cui alla L.Fall. art. 5, in modo speciale, così dando rilievo alle esigenze della procedura di prevenzione, una volta stabilita la regola della possibilità del fallimento stesso in capo ad un imprenditore commerciale a tutti gli effetti, che tra l’altro aveva contratto un debito non adempiuto di 300 milioni di Euro quand’era già in amministrazione giudiziaria, aveva altre obbligazioni insolute ed era in fase di riduzione dell’attività e generale crisi di liquidità.

Il ricorso è affidato a quattro motivi, cui resiste con controricorso il fallimento. Le parti hanno depositato memoria.

Diritto

I FATTI RILEVANTI DELLA CAUSA E LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione della L. n. 575 del 1965, art. 2 septies, nonchè della L. cit. art. 2 novies e degli artt. 115 e 182 c.p.c., avendo il giudice di secondo grado trascurato che, per un verso, nel 2012 faceva difetto in capo alla società istante per il fallimento la necessaria autorizzazione del giudice della sua misura di prevenzione, con oggetto azienda e quote, a tale scopo non risultando appropriata la documentazione depositata in integrazione ex art. 182 c.p.c. e, per altro verso, che sussisteva il difetto di competenza a concedere detta autorizzazione, la quale doveva comunque provenire dal giudice di Palermo, investito di un previo sequestro penale (del 2009), posto che la misura di prevenzione era stata nel frattempo sospesa, conseguendone l’inottemperanza al termine pur concesso dalla corte d’appello.

Con il secondo motivo, ancora si deduce la violazione di legge quanto alla L. n. 575 del 1965, artt. 2 ter e 3 quater, avendo erroneamente la sentenza omesso di dare conto che la società debitrice fallita era divenuta amministrata dall’amministratore giudiziario, per effetto dei provvedimenti di sospensione dalla carica degli amministratori adottati dal tribunale per le misure di prevenzione e con riguardo specificamente alle posizioni del socio P.D., ciò impedendo la concorrente attuazione dell’apprensione fallimentare sui medesimi beni, un unicum formato da quote, beni strumentali e azienda.

Con il terzo motivo, viene fatta valere la ulteriore violazione di legge, quanto agli artt. 665 e s. c.p.p., L. n. 575 del 1965, art. 2 ter, non essendo ammissibile la dichiarazione di fallimento in caso di pendenza di misura di prevenzione antimafia, dovendo le pretese dei creditori essere fatte valere davanti al giudice dell’esecuzione penale.

Con il quarto motivo, viene fatta valere la ulteriore violazione di legge in punto di fallibilità ed insolvenza, laddove la corte d’appello non ha considerato che le esigenze di funzionamento della impresa sottoposta a misura di prevenzione ostavano al riconoscimento di un significato comune degli inadempimenti.

1. Il primo motivo di ricorso è infondato, pur se sulla base di una ragione che impone un intervento correttivo sulla motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c.. Osserva invero questo Collegio che l’istanza di fallimento che attivò il relativo procedimento e condusse alla conseguente dichiarazione ad opera del Tribunale di Messina, venne depositata dal legale rappresentante della società creditrice, secondo requisiti di capacità e conseguente legittimazione attiva superfluamente dubitati, davanti alla corte d’appello e in sede di reclamo L.Fall. ex art. 18, all’altezza della individuazione dell’esercizio corretto dei poteri integrativi del giudice della misura di prevenzione antimafia L. n. 575 del 1965, ex artt. 2 septies e 3 quater, ovvero del giudice del sequestro preventivo penale. Può invero ripetersi, con Cass. n. 23461/2014, che già il sequestro preventivo penale dei beni di una società di capitali non rende il custode giudiziario di tali beni contraddittore necessario nel procedimento diretto alla dichiarazione di fallimento, per la validità del quale è sufficiente la convocazione dell’amministratore della medesima società, che resta nella titolarità di tutte le funzioni non riguardanti la gestione del patrimonio. D’altronde, la stessa dichiarazione di fallimento non comporta l’estinzione della società, ma solo la liquidazione dei beni, con conseguente legittimazione processuale dell’organo di rappresentanza a difendere gli interessi dell’ente nell’ambito della procedura fallimentare, nè reca alcun pregiudizio alla procedura di prevenzione patrimoniale diretta alla confisca dei beni aziendali (sia quando il fallimento sia stato pronunciato prima del sequestro preventivo, sia quando sia stato dichiarato successivamente) dovendo essere privilegiato l’interesse pubblico perseguito dalla normativa antimafia rispetto all’interesse meramente privatistico della par condicio creditorum perseguito dalla normativa fallimentare. Il principio richiamato vale ovviamente anche con riguardo alla società le cui quote (o una parte delle cui quote) sia stata oggetto di una misura segregativa con affidamento ad un terzo, di nomina ovvero controllo giudiziale, di un’attività di custodia. Tanto più che anche l’istanza di fallimento rientra in tale corrente attività conservativa, senza perciò esigenza di integrazione dell’ordinario potere di amministrazione: così questa Corte ha stabilito che Il ricorso per la dichiarazione di fallimento del debitore, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall’amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci, non trattandosi di un atto negoziale nè di un atto di straordinaria amministrazione, ma di una dichiarazione di scienza, peraltro doverosa, in quanto l’omissione risulta penalmente sanzionata, tale principio trova applicazione anche nel caso in cui l’amministratore sia stato nominato dal custode giudiziario della quota pari all’intero capitale sociale di cui il giudice per le indagini preliminari abbia disposto il sequestro (Cass. 19983/2009).

2. Osta all’accoglimento dei motivi secondo e terzo, riuniti nella trattazione perchè connessi, il principio – che qui si ribadisce e si connette alla identificazione in fatto della misura di prevenzione siccome avente ad oggetto quote sociali di un preposto – per cui In tema di fallimento della società di capitali, la confisca del “capitale sociale”, disposta ai sensi della L. n. 575 del 1965, art. 2 ter, deve intendersi riferita alle quote di partecipazione dell’indiziato di mafia, non al patrimonio sociale, cosicchè essa non interferisce con la dichiarazione di fallimento della società; neppure rileva, agli effetti della dichiarazione di fallimento della società, che il creditore sociale non dimostri la propria buona fede nell’acquisto del titolo sui beni aziendali, in quanto tale stato soggettivo incide esclusivamente sui conflitti interni alla procedura di confisca, mentre i beni aziendali non sono colpiti in modo diretto da questa, al pari della società in sè considerata (Cass. 8238/2012).

3. Il quarto motivo è inammissibile, avendo con esso, in realtà, il ricorrente chiesto un diverso apprezzamento del materiale probatorio già esaminato e valutato dal giudice di merito quale dimostrativo dell’insolvenza, sulla base del corretto principio della sua rilevanza meramente oggettiva (Cass. 7252/2014), nè costituendo la misura di prevenzione factum principis di portata esimente, rinvenendosi nell’ordinamento concorsuale una unitaria ed acausale nozione di impotenza solutoria, fenomenologicamente solo recepita nella L.Fall., art. 5. Il vizio è stato dunque scorrettamente invocato, posto che La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 Prel., come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Cass. s.u. 8053/2014).

Il ricorso pertanto va rigettato, con pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità secondo le regole della soccombenza e meglio liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in favore del controricorrente in Euro 7.200 (di cui 200 per esborsi), oltre al 15% forfettario sul compenso e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 5 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2016

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