Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25734 del 22/09/2021

Cassazione civile sez. III, 22/09/2021, (ud. 09/03/2021, dep. 22/09/2021), n.25734

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – est. Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

N.E., (codice fiscale (OMISSIS)), rappresentato e difeso,

giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato

Riccardo Vallino Vaccari, del Foro di Verona, presso il cui studio

e’ elettivamente domiciliato in Verona, Via Valpantena n. 28;

– ricorrente –

contro

IL MINISTERO DELL’INTERNO, (cod. fisc. (OMISSIS)), in persona del

Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis

dall’Avvocatura dello Stato, domiciliata in Roma, via del Portoghesi

n. 12;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia n. 4965/2019,

pubblicata il 12/11/2019;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9 marzo 2021

dal Presidente, Dott. Giacomo Travaglino.

 

Fatto

PREMESSO IN FATTO

– che il signor N., nato a (OMISSIS), ha chiesto alla competente commissione territoriale il riconoscimento della protezione internazionale di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4, ed in particolare:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 7 e ss.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6, (nel testo applicabile ratione temporis);

– che la Commissione Territoriale ha rigettato l’istanza;

– che, avverso tale provvedimento, egli ha proposto, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35, ricorso dinanzi al Tribunale di Venezia, che lo ha rigettato con ordinanza resa in 29.5.2018data;

Che la Corte di appello di Venezia ne ha rigettato l’impugnazione con sentenza del 12 novembre 2019;

– che, a sostegno della domanda di riconoscimento delle cd. “protezioni maggiori”, il ricorrente, comparendo personalmente in udienza dinanzi al giudice di primo grado, aveva dichiarato di essere fuggito dal proprio Paese in giovane età, a causa del conflitto ivi presente e del pericolo attuale di subire danni alla propria persona e alla propria vita; di essere giunto in Libia, dove aveva trascorso 4 anni, di cui due e mezzo in un campo di prigionia, vittima di vessazioni e violenze; di non aver conservato alcun legame con il Paese d’origine poiché – nella qualità di figlio adottivo a seguito dell’abbandono in tenera età da parte dei genitori naturali – aveva perso il padre a seguito di un attacco dei golpisti, mentre la madre, fuggendo a sua volta dal Paese, era emigrata in Costa D’avorio.

– che, in via subordinata, aveva poi dedotto l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento, in suo favore, della protezione umanitaria, in considerazione della propria – oggettiva e grave – condizione di vulnerabilità;

– che (il Tribunale prima, e poi) la Corte di appello hanno ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento di tutte le forme di protezione internazionale invocate dal ricorrente, alla luce: 1) dell’assenza, nel racconto, di riferimenti precisi e puntuali (in particolare, per la mancata indicazione di date) e della relativa incoerenza interna, in assenza di qualsivoglia conoscenza politica del suo Paese, in particolare circa le motivazioni del colpo di Stato, nonostante il padre appartenesse al corpo militare; 2) della insussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, attesa l’inesistenza di una situazione di conflitto generalizzato con riferimento alla situazione della capitale Bamako (si cita il Report EASO del 2018 ed altri link relativi a documenti nei quali -osserva la Corte- non viene mai fatto riferimento al sud del Mali come area fuori controllo dove i civili potessero rimanere vittime di un conflitto interno o internazionale; 3) dell’impossibilità di riconoscere al richiedente asilo la protezione umanitaria in conseguenza della non credibilità del suo racconto; 4) della irrilevanza dei trascorsi in Libia, Paese di transito, riferiti dall’appellante, poiché “gli stessi non integrano gli estremi dei seri motivi di carattere umanitario, i quali devono trovare radice in gravi violazioni dei diritti umani cui il richiedente sarebbe esposto nell’ipotesi alternativa all’accoglimento della domanda di protezione, costituita dal rimpatrio, ossia dal rientro nel paese di origine (e non in un paese di transito)” (così, testualmente il giudice d’appello, che cita, a sostegno di tali affermazioni, Cass. 12357/2018, nella quale si legge ancora che, “quanto al riferimento – sottolineato dal ricorrente all’acquisizione di informazioni circa la situazione generale anche, “ove occorra, dei paesi in cui” i richiedenti “sono transitati”, che figura nel D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, va osservato che esso non attiene alla definizione delle fattispecie di protezione, bensì alla completezza del quadro fattuale di riferimento della decisione, e che il testo di tale disposizione riproduce quello dell’art. 10, par. 3, lett. b), della direttiva 2013/32/UE, per la quale un paese di transito può eventualmente venire in rilievo, ad esempio, quale paese terzo sicuro ai sensi dell’art. 39″).

– che il provvedimento è stato impugnato per cassazione dall’odierno ricorrente sulla base di 3 motivi di censura;

– che il Ministero dell’interno non si è costituito in termini mediante controricorso.

Diritto

OSSERVA IN DIRITTO

1. Col primo motivo, si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, per avere valutato la credibilità del ricorrente sulla base di una lettura parziale delle fonti COI, peraltro non aggiornate, non applicando, cumulativamente, i criteri di valutazione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, e così contravvenendo altresì al dovere di cooperazione (art. 360 c.p.c., n. 3).

Il motivo è infondato.

1.1. In tema di valutazione della coerenza e della credibilità del racconto del richiedente asilo, questa Corte ha costantemente affermato che essa non è affidata alla mera opinione soggettivistica del giudice, così che deve ritenersi integrare gli estremi dell’errore di diritto, come tale censurabile in sede di legittimità, tanto una motivazione meramente “di stile” (come quella predicativa, sic et simpliciter, di una pretesa “scarsa verosimiglianza delle allegazioni, contraddittorie e intrinsecamente illogiche”) quanto una valutazione del narrato che si sostanzi nella sua acritica scomposizione e nel suo sistematico frazionamento, volto alla ricerca delle singole, eventuali contraddizioni, pur talvolta esistenti, insite nella narrazione stessa.

1.2. Funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale deve ritenersi quella – del tutto autonoma rispetto alla precedente procedura amministrativa, della quale esso non costituisce in alcun modo prosecuzione impugnatoria – di accertare, secondo criteri legislativamente predeterminati, la sussistenza o meno del diritto al riconoscimento di una delle tre forme di asilo, onde il compito del giudice chiamato alla tutela di diritti fondamentali della persona appare funzionale – anche al di là ed a prescindere da quanto accaduto dinanzi alla Commissione territoriale – alla complessiva raccolta, accurata e qualitativa, delle predette informazioni, nel corso della quale dissonanze e incongruenze, di per se non decisive ai fini del giudizio finale, andranno opportunamente valutate in una dimensione di senso e di significato complessivamente inteso, secondo un criterio di unitarietà argomentativa e non di sistematico frazionamento, logico e sintattico, della narrazione, come confermato dal disposto del D.Lgs n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. e), a mente del quale, nella valutazione di credibilità, si deve verificare anche se il richiedente “e’, in generale, attendibile”.

1.3. Se, considerato isolatamente, ogni frammento dichiarativo può non essere ritenuto sufficiente a pervenire ad un giudizio complessivo di credibilità (rectius, a fondare un parcellare e scomposto giudizio di non credibilità), è l’insieme intrinseco delle connessioni logico-espositive delle dichiarazioni a formare oggetto di valutazione, che deve risultare complessiva, e non frantumata e/o relativizzata rispetto ad ogni singolo episodio, esaminato ex se in modo del tutto avulso dalla complessa trama narrativa oggetto di esame e di giudizio (quae singula non possunt, collecta iuvant).

1.4. Nel caso di specie, la motivazione approda alla necessaria dimensione del “minimo costituzionale” richiesta dalle stesse sezioni unite di questa Corte al fine di ritenerla immune da censure in sede di legittimità.

1.4.1. Afferma, difatti, a Corte territoriale, ai fini di trarre poi la definitiva conclusione di non credibilità del richiedente asilo (ff. 3-5 della sentenza):

a) “Che il racconto era apparso privo di riferimenti precisi e puntuali, atteso che il ricorrente non ricorda una sola data, nemmeno per approssimazione”;

b) “Che quest’ultimo aveva negato di aver dichiarato quanto riportato nel modulo C-3, ossia di aver lasciato il Mali nel gennaio 2012, e dunque 2 mesi prima dello scoppio della guerra civile”;

c) “Che non aveva dimostrato di non avere alcuna conoscenza politica, né di conoscere le ragioni del colpo di Sato”;

d) “Che tale circostanza era tale da rendere poco credibile l’appartenenza del padre al corpo militare”.

e) Che la vicenda relativa agli scontri tra berretti rossi e berretti verdi, per sua stessa ammissione, gli era stata riferita dalla madre (fuggita in Costa D’avorio) senza saper spiegare come la madre avesse appreso tale circostanza.

1.4.2. Nel giudizio finale espresso dalla Corte territoriale non appaiono predicabili né inemendabili frammentazioni né illegittime parcellizazioni fattuali, né esso risulta fondato esclusivamente su singoli e non decisivi elementi fattuali, come il riferimento all’elemento cronologico indicato supra, sub b) – in ordine al quale questa giudice di legittimità ha già evidenziato (Cass. 8282/2013) l’erroneità di uno scrutinio finale fondato soltanto su una mera discordanza cronologica circa l’indicazione temporale di un fatto, e non sul suo accadimento o mancato accadimento.

1.5. Difatti, tutte le circostanze di fatto evidenziate dal richiedente asilo, e cioè quelle:

a) Di aver abitato in un campo, che si chiamava Campara, a Djikorini, uno dei quartieri di Bamako;

b) Che il campo era occupato dai berretti rossi;

c) Che vi erano stati scontri armati tra i berretti rossi e i berretti verdi successivi al colpo di Stato del 2012;

d) Che i berretti verdi erano militari di terra, mentre i berretti rossi erano paracadutisti;

e) Che dei berretti rossi faceva parte l’ex presidente del Mali;

f) Che i berretti verdi avevano attaccato e distrutto il campo dei berretti rossi (in quella circostanza era stato ucciso il padre);

g) Che i berretti verdi “uccidevano i berretti rossi ed i loro familiari, risparmiando soltanto gli anziani”, per tale ragione determinandosi alla fuga dal Paese, sono state tanto singolarmente, quanto (e soprattutto) complessivamente vagliate dalla Corte veneta, così che non appare fondata la censura volta a contestare la omessa valutazione di fatti narrati in sede di audizione, ovvero la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, dettato in tema di obblighi di informazione relative al paese di origine da acquisire ex officio qualora, in mancanza di prove, tali informazioni si rendano necessarie per una complessiva valutazione di coerenza della narrazione.

1.6. Non ricorre, nella specie, alcun vizio di scomposizione atomistica del racconto, né un’analisi di singole circostanze isolate dal contesto e condotta in modo del tutto avulso rispetto alla struttura complessiva del narrato. Fermo l’oggettivo rilievo della congruità logica del discorso giustificativo articolato nel provvedimento impugnato, varrà considerare come la difesa del ricorrente abbia per altro verso omesso di circostanziare gli aspetti dell’asserita decisività della mancata considerazione, da parte del giudice del merito, delle vicende di fatto asseritamente trascurate, e che avrebbero al contrario (in ipotesi) condotto ad una diversa risoluzione dell’odierna controversia;

1.6.1. Attraverso le odierne censure, il ricorrente altro non prospetta se non una rilettura nel merito dei fatti di causa secondo il proprio soggettivo punto di vista, in una dimensione solo astrattamente critica, come tale inammissibilmente prospettata in questa sede di legittimità, dovendo per converso ritenersi che la motivazione adottata dal giudice a quo a fondamento della decisione impugnata sia (non solo esistente, bensì anche) articolata in modo tale da permettere di ricostruirne e comprenderne il percorso logico, che si dipana in termini lineari e logicamente coerenti, sulla base di criteri interpretativi e valutativi dotati di sufficiente ragionevolezza ed accettabile congruità logica;

1.6.2. L’iter argomentativo seguito dal giudice di merito, sulla base di tali premesse, è pertanto valso a integrare gli estremi di un discorso giustificativo della ritenuta non credibilità del ricorrente quanto ai motivi della fuga dal Paese di origine, logicamente lineare e comprensibile, elaborato nel rispetto dei canoni di correttezza giuridica e logica, come tale destinato a sottrarsi alle censure mosse alla pronuncia con il motivo in esame (della rilevanza delle vicende relative al soggiorno in Libia, si dirà nel corso dell’esame dei motivi che seguono).

2. Col secondo motivo, si lamenta: motivazione apparente e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti mancata valutazione della violazione di diritti fondamentali in Mali nell’ottica di bilanciamento tra integrazione del richiedente in Italia e compromissione dei suoi diritti in caso di rientro nel Paese di origine (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5);

2.1. Con il terzo motivo, si lamenta: motivazione apparente e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti mancata valutazione della violazione di diritti fondamentali in Libia, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

2.2. I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, attesane l’intrinseca connessione, sono manifestamente fondati.

2.3. La motivazione della Corte territoriale risulta così concepita (ff. 7-9):

a) “Nel valutare la vulnerabilità di una persona, non si può prescindere dalla credibilità dello straniero, analogamente a quanto accade per lo status di rifugiato e per la protezione sussidiaria”;

b) “Nel caso di specie, la narrazione del ricorrente non è stata ritenuta credibile, e quindi non può essere posta a fondamento della domanda di protezione umanitaria”;

c) “Non è idoneo allo scopo di ottenere la predetta misura la mera allegazione di aver acquisito un certo grado di integrazione sociale nella specie nemmeno allegato tuttavia – atteso che esso non è desumibile dall’effettuazione di prestazioni lavorative regolarmente retribuite, ma comporta la dimostrazione di un’effettiva e irreversibile integrazione nel tessuto sociale e culturale nel Paese ospitante, occorrendo invece la prova della compromissione del nucleo fondamentale dei diritti di cui all’art. 2 Cost., qui esclusa secondo quanto si desume dalle COI sopra richiamate”;

d) “Quanto ai trascorsi riferiti dall’appellante in Libia, paese di transito, si osserva che gli stessi non integrano gli estremi dei seri motivi di carattere umanitario di cui all’art. 5, comma 6 T.U.I., i quali devono invece trovare radice in gravi violazioni dei diritti umani cui il richiedente sarebbe esposto nell’ipotesi alternativa all’accoglimento della domanda di protezione, costituita dal rimpatrio, ossia dal rientro nel Paese di origine e non in un Paese di transito” (si cita a conforto Cass. 12357/2018).

e) “L’attuale situazione geopolitica del paese di provenienza è stata valutata e deve escludersi allo stato che, per il solo fatto di provenire da detta area geografica, il richiedente sia persona vulnerabile nei sensi di cui si è detto sopra”.

2.4. Ciascuna di queste proposizioni non risulta conforme a diritto, mentre la loro sintesi si sostanzia in una motivazione che, nel suo complesso, è ben lontana dall’attingere ai pur necessari confini del minimo costituzionale secondo i principi affermati dalle sezioni unite di questa Corte (Cass.8053/2014).

2.4.1. Condivisibimente il ricorrente lamenta (f. 18), oltre che l’omesso esame di fatti decisivi – ed emergenti dalle (ben più aggiornate) COI del 2019, puntualmente allegate al ricorso (e altrettanto puntualmente ignorate dalla Corte d’appello), pubblicate in epoca precedente di oltre un mese rispetto alla data di deposito della sentenza, che limita la più aggiornata delle proprie indagini a fonti risalenti all’anno 2018 – anche la evidente erroneità del giudizio comparativo tra la situazione del richiedente asilo in Italia e la situazione oggettiva del Paese di origine, in spregio ai principi più volte affermati da questa Corte regolatrice in tema di protezione umanitaria, a mente dei quali, se, per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, lett. a) e b), deve essere dimostrato che il richiedente asilo abbia subito, o rischi concretamente di subire, atti persecutori come definiti dall’art. 7 (atti sufficientemente gravi per natura o frequenza, tali da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, ovvero costituire la somma di diverse misure il cui impatto si deve risolvere in una grave violazione dei medesimi diritti), così che la decisione di accoglimento consegue ad una valutazione prognostica dell’esistenza di un rischio, onde il requisito essenziale per il riconoscimento di tale forma di protezione consiste nel fondato timore di persecuzione, personale e diretta, nel paese di origine del richiedente asilo, alla luce di una violazione individualizzata – e cioè riferibile direttamente e personalmente al richiedente asilo in relazione alla situazione del Paese di provenienza, da compiersi in base al racconto ed alla valutazione di credibilità operata dal giudice di merito, diversa, invece, è la prospettiva dell’organo giurisdizionale in tema di protezione umanitaria, per il riconoscimento della quale è necessaria e sufficiente (anche al di là ed a prescindere dal giudizio di credibilità del racconto) la valutazione comparativa tra il livello di integrazione raggiunto in Italia e la situazione del Paese di origine, qualora risulti ivi accertata la violazione del nucleo incomprimibile dei diritti della persona che ne vulnerino la dignità.

2.4.1.1. Tale accertamento prende le mosse, e non può prescinderne, dal dettato costituzionale di cui all’art. 10, comma 3, ove si discorre, significativamente, di impedimento allo straniero dell’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana (norma che, come è noto, fu oggetto di un intenso dibattito in Assemblea costituente, ed il cui contenuto immediatamente precettivo, nonostante il contrario avviso di una retriva e risalente giurisprudenza del Consiglio di Stato, fu immediatamente rilevato dalla dottrina maggioritaria e definitivamente riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza delle sezioni unite del 26 maggio 1997, n. 4674). Il riconoscimento della natura di diritto costituzionalmente garantito della situazione giuridica dei richiedenti asilo e quindi di “concreta e materiale esigibilità in via giurisdizionale” del relativo diritto soggettivo ne implica la qualità di diritto perfetto, in quanto il suo fondamento necessario e sufficiente, nonché la sua causa di giustificazione risiedono entrambi nella sola Costituzione. Pur vero che, da questa Corte, è stato ripetutamente affermato il principio (fra le altre, Cass. 4/8/2016 n. 16362) secondo cui il diritto di asilo riconosciuto dall’art. 10 Cost., risulterebbe interamente attuato e regolato attraverso le tre forme di protezione previste dall’ordinamento vigente (rifugio, protezione sussidiaria e protezione umanitaria) – con la conseguenza che, al di fuori della “esaustiva normativa” di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, e al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 comma 6, “non vi è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto dell’art. 10 Cost., comma 3, in chiave processuale o strumentale, a tutela di chi abbia diritto all’esame della sua domanda di asilo alla stregua delle vigenti norme sulla protezione” (Cass. 26/6/2012 n. 10686) è vero altresì che tale indirizzo (non da tutti condiviso) deve pur sempre confrontarsi con la norma costituzionale (e con le norme sovranazionali), di rango superiore in sede di interpretazione della legge ordinaria, escludendone l’applicabilità tutte le volte che tale interpretazione si ponga in conflitto con la norma gerarchicamente sovraordinata.

2.4.2. Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, pertanto, deve ritenersi necessaria e sufficiente la valutazione dell’esistenza e della comparazione degli indicati presupposti (per tutte, Cass. 8819/2020; Cass. 19337/2021), che non sono condizionati dalla eventuale valutazione negativa di credibilità del ricorrente – o, comunque, dal contenuto della sua narrazione, ove pur ritenuta credibile ma non rilevante ai fini della concessione della misura di protezione invocata.

2.4.3. Il riconoscimento della protezione umanitaria postula – una volta che il richiedente abbia allegato i fatti costitutivi del diritto – l’obbligo per il giudice del merito, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, estensivamente interpretato, di cooperare nell’accertamento della situazione reale del Paese di provenienza, mediante l’esercizio di poteri/doveri officiosi d’indagine, ed eventualmente di acquisizione documentale (Cass. n. 28435/2017; Cass. 18535/2017; Cass. 25534/2016) – essendo quel giudice investito di singole vicende aventi ad oggetto diritti fondamentali della persona e non di cause cd. “seriali”, improvvidamente risolte con motivazioni “di stile” altrettanto seriali – in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate sul Paese di origine del richiedente; e al fine di ritenere adempiuto tale obbligo officioso, l’organo giurisdizionale è altresì tenuto ad indicare specificatamente le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto (Cass. n. 11312 del 2019), ma senza incorrere nell’errore di utilizzare le fonti informative che escludano (a torto o a ragione) l’esistenza di un conflitto armato interno o internazionale (rilevanti al solo fine di valutare la domanda di protezione internazione sub specie del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c)) – al diverso fine di valutare la situazione del Paese di origine sotto l’aspetto della mancata tutela dei diritti umani e del loro nucleo incomprimibile – valutazione, questa, del tutto assente, nel provvedimento impugnato, che si limita a riportare il contenuto dello COI utilizzate al solo fine di escludere l’esistenza di un conflitto armato.

2.4.4. Va pertanto riaffermato il principio di diritto, cui il giudice di rinvio si atterrà nel riesaminare la domanda di protezione umanitaria, alla luce del quale, secondo l’interpretazione fatta propria dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di protezione umanitaria l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del suo riconoscimento, occorre operare la valutazione comparativa della situazione oggettiva, oltre che eventualmente soggettiva, del richiedente asilo con riferimento al Paese di origine sub specie della libera esplicazione dei diritti fondamentali della persona, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza – pur senza che abbia rilievo esclusivo l’esame del livello di integrazione, se isolatamente ed astrattamente considerato – non potendo darsi seguito ad una risalente giurisprudenza di questa Corte (Cass. 21424/2016) che esige la presenza “di riscontri oggettivi tali da permettere una verifica sotto il profilo della attendibilità e della specificità (così confondendosi la rilevanza probatoria delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia in sede penale con quelle di un richiedente asilo, che ben possono essere ritenute credibili alla luce della valutazione complessiva di un racconto privo di tali riscontri, ma integrato, se necessario, dal doveroso esercizio di poteri officiosi di indagine da parte del giudice di merito).

2.5. Totalmente difformi dal modello legale descritto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, risultano le considerazioni svolte in merito al soggiorno in Libia del richiedente asilo.

2.5.1. In relazione a tale circostanza, difatti, andavano ulteriormente e specificamente indagati, nel caso di specie, gli aspetti di vulnerabilità soggettiva del ricorrente – che pur possono, in ipotesi, prescindere dal giudizio sulla sua credibilità, non essendo ad esso inscindibilmente legati da un nesso di consequenzialità necessaria – alla luce della traumatica esperienza vissuta nel Paese di transito – così come essa si presenta agli occhi del giudice al momento della decisione.

2.5.1.2. In premessa, va osservato come la motivazione adottata dalla Corte territoriale in parte qua non metta in discussione la credibilità del ricorrente (in applicazione, sicuramente corretta, del principio secondo il quale il giudice di merito può pervenire alla conclusione che un racconto sia solo parzialmente credibile). Non avrebbe alcun senso, difatti, se non sul presupposto logico della credibilità della vicenda, la motivazione adottata, nel merito, dal giudice di appello (peraltro gravemente viziata in diritto) “quanto ai trascorsi riferiti dall’appellante in Libia, paese di transito”, con riferimento ai quali “si osserva che gli stessi non integrano gli estremi dei seri motivi di carattere umanitario di cui all’art. 5 ccomma 6 T.U.I., i quali devono invece trovare radice in gravi violazioni dei diritti umani cui il richiedente sarebbe esposto nell’ipotesi alternativa all’accoglimento della domanda di protezione, costituita dal rimpatrio, ossia dal rientro nel Paese di origine e non in un Paese di transito”. Un’interpretazione così concepita si risolverebbe nella sostanziale abrogazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, poiché la rilevanza della situazione del richiedente asilo con riferimento al Paese di transito non potrebbe mai riguardare l’eventualità del rimpatrio, da individuarsi ex lege nel Paese di origine.

2.5.1.3. La violazione sistematica dei diritti fondamentali nel Paese di transito, difatti, rileva, secondo un principio già affermato da questa Corte (Cass. 13096/2019), al quale il collegio intende dare continuità, ed al quale il giudice di rinvio sarà tenuto ad attenersi, “quale elemento in grado di ingenerare nella persona un forte grado di traumaticità destinato ad incidere sulla condizione di vulnerabilità e ad essere quindi ostativa ad un rientro nel Paese di origine”.

3. Il concetto di vulnerabilità soggettiva – sostantivo il cui significato letterale, alla luce della sua stessa etimologia, è rappresentato “dalla possibilità di essere ferito”, nella “attitudine ad essere offeso, attaccato e sopraffatto”, tanto sul piano fisico quanto su quello emotivo – non si sostanzia, in concreto, in una condizione (ed in una conseguente valutazione) necessariamente totalizzante o “complessiva” dell’essere umano, ma in uno status (attuale) dell’animo che tale attitudine comporti – valutata, se del caso, in tutti i suoi possibili aspetti.

3.1. Prioritaria, a tal fine, appare esigenza di valorizzare (pur sempre al fine di un giudizio comparativo tra tale condizione soggettiva e quella oggettiva del Paese d’origine sotto il profilo del rispetto dei diritti umani), una particolare situazione di vulnerabilità (quale quella di chi ha subito per due anni e mezzo la prigionia in Libia e le conseguenti vessazioni e trattamenti inumani) in una dimensione di comparazione “attenuata” (Cass. 1104/2020), di tal che il giudice di merito è chiamato a verificare una concreta compromissione di una condizione soggettiva attuale, di fatto-diritto, realizzatasi nel Paese membro della UE – e non una semplice comparazione delle migliori o peggiori condizioni di vita nel Paese d’origine.

3.2. Quanto al procedimento di comparazione, giusta gli insegnamenti di questa Corte, anche a sezioni unite (Cass. n. 29459 del 2019), osserva il collegio come, con la sentenza 1104/2020, sia stato affermato il principio (cui il collegio intende dare continuità) della cd. “comparazione attenuata”, che prende le mosse da valutazioni soggettive ed individuali, condotte caso per caso (onde impedire che il giudice di merito si risolva a declinare considerazioni di tipo “seriale”, improntate ai più disparati quanto opinabili criteri, altrettanto seriali, a mò di precipitato di una chimica incompatibile con valori tutelati dalla Carta costituzionale e dal diritto dell’Unione).

3.3. Il principio “di comparazione attenuata” risulta concettualmente caratterizzato da una relazione di proporzionalità inversa tra fatti giuridicamente rilevanti, che impone un peculiare bilanciamento tra condizione soggettiva del richiedente asilo e situazione oggettiva del Paese di eventuale rimpatrio.

3.4. Si deve conseguentemente affermare che, quanto più risulti accertata in giudizio (con valutazione di merito incensurabile in sede di legittimità se scevra da vizi logico-giuridici che ne inficino la motivazione conducendola al di sotto del minimo costituzionale richiesto dalle stesse sezioni unite con la sentenza 8053/2014) una situazione di particolare, di grave, o addirittura di eccezionale vulnerabilità, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il secundum comparationis, costituito dalla situazione oggettiva del Paese di rimpatrio, onde la conseguente attenuazione dei criteri rappresentati “dalla privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”.

3.5. Può legittimamente ricondursi alle massime di comune esperienza (che, giusta l’insegnamento di cui a Cass. ss.uu. 26792/2008, costituiscono un mezzo di prova di pari dignità rappresentativa rispetto alla prova storica o documentale), il convincimento per il quale la condizione emotiva di una persona che, approdato in Italia dopo una traumatica esperienza nei campi di prigionia libici, si vede costretto ad abbandonare il Paese di accoglienza ben possa integrare gli estremi della grave vulnerabilità. Ed è compito del giudice interrogarsi, prima che sull’aspetto topico della comparazione circa le possibili situazioni di vita futura nel Paese di respingimento, sulla residua capacità di resilienza di un giovane uomo che – dopo aver affrontato i rischi e i disagi dell’emigrazione forzata – si veda sottoposto ad una nuova violenza quale quella che lo costringa ad abbandonare il Paese di accoglienza. Considerazioni, queste, che impongono al giudice di merito una valutazione comparativa “attenuata” dell’elemento oggettivo costituito dalla presumibili condizioni di vita che attendono la richiedente asilo di ritorno nel Paese di origine.

3.6. Parimenti (e gravemente) erroneo risulta l’ulteriore principio affermato dalla Corte territoriale in ordine al concetto di integrazione del richiedente asilo.

3.6.1. Nell’opinare circa la presunta inidoneità allo scopo di ottenere la protezione umanitaria “della mera allegazione di aver acquisito un certo grado di integrazione sociale – nella specie nemmeno allegato tuttavia – atteso che esso non è desumibile dall’effettuazione di prestazioni lavorative regolarmente retribuite, ma comporta la dimostrazione di un’effettiva e irreversibile integrazione nel tessuto sociale e culturale nel Paese ospitante (supra, sub 2.3. c)”, la Corte veneta afferma una circostanza non vera (la mancata allegazione di un certo grado di integrazione sociale), omettendo totalmente di valutare la copiosa e significativa documentazione lavorativa ritualmente e tempestivamente prodotta dalla difesa del richiedente asilo (e puntualmente allegata al presente ricorso, in ossequio al principio di autosufficienza: doc. 6 fascicoletto allegato al ricorso, richiamato al f. 18), volta che la pretesa prova dell’integrazione non e’, né potrebbe essere, costituita da ciò che, con formula ripetitivamente stereotipata, la Corte d’appello mostra erroneamente di ritenere necessaria, e cioè un’effettiva e irreversibile integrazione nel tessuto sociale e culturale del paese ospitante (requisito di difficile verificabilità anche con riferimento a non pochi cittadini italiani).

4. Vanno, pertanto, affermati i seguenti principi di diritto:

a) A prescindere dalla credibilità della vicenda narrata dal richiedente asilo, la circostanza per la quale quest’ultimo sia approdato in Italia dopo aver subito per un considerevole lasso di tempo vessazioni e trattamenti inumani in condizione di prigionia nel Paese di transito costituisce un fattore di grave vulnerabilità, da valutare scrupolosamente al fine del riconoscimento della protezione umanitaria in seno al giudizio di comparazione tra situazione del Paese di respingimento e grado di integrazione raggiunto in Italia.

b) In tema di giudizio di comparazione tra la condizione di vulnerabilità soggettiva del richiedente asilo e la condizione politica e sociale del Paese di provenienza sotto il profilo della tutela dei diritti umani, una condizione di particolare vulnerabilità soggettiva consente al giudice una valutazione di “comparazione attenuata” tra fatti, da compiersi attraverso una meno severa e meno pregnante valutazione della situazione-Paese sotto il profilo della libera esplicazione dei diritti umani e della loro tutela, ed una rigorosa e puntuale valorizzazione dell’integrazione sociale, dando preminente rilievo allo svolgimento di un’attività lavorativa, specie se a tempo indeterminato o comunque di tipo continuativo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo e terzo motivo del ricorso, rigetta il primo, cassa il provvedimento impugnato in relazione al motivo accolto e rinvia il procedimento alla Corte di appello di Venezia, che, in diversa composizione, farà applicazione dei principi di diritto suesposti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 9 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2021

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