Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25732 del 15/11/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 25732 Anno 2013
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: BRONZINI GIUSEPPE

SENTENZA
sul ricorso 856-2011 proposto da:
GALATA’ ANGELA C.F. GLTNGL47H5OH359C, elettivamente
domiciliata in ROMA, PIAZZALE DELLE BELLE ARTI 8,
presso lo studio dell’avvocato PELLICANO’ ANTONINO, che
la rappresenta e difende giusta delega in atti;
– ricorrente 2013
2872

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE
C.F. 80078750587, in persona del legale rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale

Data pubblicazione: 15/11/2013

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati
CORETTI ANTONIETTA, TRIOLO VINCENZO, DE ROSE EMANUELE,
giusta delega in calce alla copia notificata del
ricorso;
– resistente con mandato –

di REGGIO CALABRIA, depositata il 15/12/2009,r.g.n.
586/04;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 15/10/2013 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE
BRONZINI;
udito l’Avvocato PELLICANO’ ANTONINO;
udito l’Avvocato CORETTI ANTONIETTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

avverso la sentenza n. 1272/2009 della CORTE D’APPELLO

Udienza 15.10.2013, causa n. 7
n.856/2011

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

■kt

L
Con ricorso avanti il Giudice del lavoro di Palmi l’ odiermencorrente agiva per ottenere
nei confronti dell’INPS il riconoscimento del diritto alla corresponsione degli interessi e
della rivalutazione monetaria sulla somma già percepita a titolo di indennità di
disoccupazione agricola dal 121 giorno dal termine di presentazione della relativa
domanda e precisamente dal 39 luglio di ogni armo sino alla liquidazione; ad ottenere la
rivalutazione dell’indennità di disoccupazione ordinaria pagata dall’INPS negli anni
indicati nella misura di 800 lire giornaliere con l’applicazione del meccanismo di
adeguamento del valore monetario previsto nei coefficienti indicati dalle tabelle ISTAT
e secondo l’orientamento della Corte costituzione. Si costituiva l’INPS che eccepiva
l’avvenuta liquidazione di quanto richiesto. Il Tribunale di * ,almi dichiarava l’avvenuta
cessazione della materia del contendere compensando tra le parti i due terzi delle spese
di lite e condannando l’INPS al pagamento del residuo un terzo. Interponeva appello
parte ricorrente in primo grado e la Corte di appello di Reggio Calabria con sentenza del
15.12.2009 rigettava l’appello compensando tra le parti le spese del grado. La Corte
territoriale osservava che avendo il primo giudice affermato che dalla documentazione
prodotta dall’INPS nel corso del giudizio era risultato l’avvenuto pagamento del preteso
adeguamento, sarebbe stato onere della parte appellante fornire, in sede di gravame, la
prova della fondatezza della propria deduzione relativa al fatto che detta
documentazione non fosse idonea a provare l’avvenuto incasso degli importi pretesi.
Parte appellante avrebbe dovuto, quindi, produrre, a prescindere dalla posizione
difensiva assunta in questo secondo grado del giudizio dall’INPS, copia della
documentazione già prodotta in prime cure dal medesimo Istituto previdenziale e ciò in
applicazione di quanto in materia del tutto condivisibile osservato dalla Corte di
cassazione a sezioni unite con sentenza n. 28498/2005.
Avverso la detta decisione propone ricorso per cassazione la ricorrente con due motivi.
Con il primo motivo allega l” illegittimità per violazione e/o falsa applicazione dell’art.
436 c.p.c. del principio del contraddittorio e del giusto processo ex art. 111 Cost. e con
il secondo motivo si allega la motivazione illogica e contraddittoria della sentenza
impugnata e “l’illegittimità per difetto assoluto di motivazione”, censure poi
ulteriormente sviluppate con memoria ex art. 378 c.p.c. Si è costituita l’INPS con
controricorso. La causa è stata sospesa con ordinanza del 15.2.2012 in attesa della
questione da parte delle Sezioni Unite di questa Corte.

R.G.

I due motivi, da trattarsi congiuntamente, vanno respinti apparendo infondati. Sulla
vicenda è recentemente intervenuta questa Corte a Sezioni Unite ( cass. n. 3036/2013
dell’8.2.2013 ed altre decisioni adottate nello stesso giorno) che in una controversia di
oggetto identico alla presente ( sia per la domanda sia per il contenuto della sentenza
impugnata e per i motivi proposti in cassazione) che ha confermato l’orientamento già
espresso nella decisione richiamata nella sentenza impugnata. Questa Corte condivide
interamente la motivazione di quest’ultima decisione cui non ritiene di dover nulla
aggiungere. La Corte ha infatti osservato ” La questione sulla quale queste Sezioni
Unite sono chiamate a pronunziarsi attiene alla sussistenza o meno, a carico della parie
soccombente in primo grado, dell’onere, in grado di appello, di produrre copia dei
documenti prodotti dalla controparte in quello precedente e non anche nel secondo, sui
quali il primo giudice ha fondato la propria decisione.
La Corte d’Appello di Catanzaro ha ritenuto che a tal riguardo, trovasse applicazione il
principio, già affermato da queste Sezioni Unite nella sentenza n. 24898 del 23.12.2005
ed espresso nella seguente massima: “l’appellante è tenuto a fornire la dimostrazione
delle singole censure, atteso che l’appello, non è più, nella configurazione datagli dal
codice vigente, il mezzo per passare da uno all’altro esame della causa, ma una “revisio”
fondata sulla denunzia di specifici” vizi” di ingiustizia o nullità della sentenza
impugnata. Ne consegue che è onere dell’appellante, quale che sia stata la posizione da
lui assunta nella precedente fase processuale, produrre, o ripristinare in appello se giù
prodotti in primo grado, i documenti sui quali egli basa il proprio gravame o comunque
attivarsi, anche avvalendosi della facoltà, ex art. 76 disp. att. cod. proc. civ., di farsi
rilasciare dal cancelliere copia degli atti del fascicolo delle altre parti, perché questi
documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di appello, per cui egli
subisce le conseguenze della mancata restituzione del fascicolo dell’altra parte (nella
specie rimasta contumace), quando questo contenga documenti a lui favorevoli che non
ha avuto cura di produrre in copia e che il giudice di appello non ha quindi avuto la
possibilità di esaminare”. La ricorrente ha sostenuto, con il primo, già citato, motivo del
proprio ricorso per cassazione che, avendo egli contestato nel corso del giudizio di
merito l’avvenuto pagamento e gravando, anche in grado di appello, sull’Istituto
convenuto l’onere della prova del fatto estintivo della propria obbligazione, sarebbe
stato onere di quest’ultimo, e non della deducente, produrre nuovamente, anche in
considerazione del dovere di lealtà processuale, al riguardo pure affermato nella citata
pronunzia di legittimità, la relativa documentazione. La Sezione Lavoro di questa Corte,
pur ritenendo pertinente alla fattispecie il sopra riportato principio di diritto, in concreto
applicato dal giudice di secondo grado, ha tuttavia ravvisato ragioni di dissenso rispetto
allo stesso, sulla base due essenziali considerazioni, secondo cui: a) la facoltà,
riconosciuta a ciascuna delle parti dall’art. 76 disp. att. c.p.c. di estrarre copia dei
documenti contenuti nel fascicolo dell’altra, non comporterebbe un deroga alle regole
generali di riparto probatorio contenute nell’art. 2697 c.c., sicché la circostanza che non
se ne sia avvalsa l’appellante non esonererebbe l’appellato dall’onere della prova, ove su
di lui ancora ricadente secondo i principi generali; b) conseguentemente, in virtù del
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MOTIVI DELLA DECISIONE

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medesimo principio, l’onere del convenuto, ancorché vittorioso in primo grado, di
provare il fatto dedotto con l’eccezione accolta, permarrebbe anche in grado di appello,
non venendo meno per il solo fatto che l’appellante non abbia prodotto i documenti sui
quali si siano fondale le avverse eccezioni. La prima questione che si pone è se il
principio enunciato nella citata pronuncia di queste Sezioni Unite si attagli, come
ritenuto sia dalla corte di meritoria dalla sezione rimettente, alla fattispecie in esame. Il
caso esaminato nella sentenza n. 28498/05 riguardava una questione, se non
perfettamente sovrapponibile, in gran parte analoga a quella oggetto della presente
causa, riferendosi ad un giudizio in cui il giudice di primo grado aveva accolto una
domanda revocatoria proposta da una curatela fallimentare, con sentenza che era stata
impugnata dalla parte soccombente, deducendo che i documenti prodotti da quella
attrice, sui quali il primo giudice aveva fondato la propria decisione, non dimostrassero
la sq.entia decoctionis da parte del terzo. Il giudice d’appello, poiché la curatela, non
costituitasi in secondo grado e rimasta contumace, non aveva depositato il proprio
fascicolo, accolse il gravame rigettando la domanda revocatoria, decisione quest’ultima
che fu cassata con rinvio da queste Sezioni Unite, enunciando il principio in precedenza
riportato, sul la scorta delle motivazioni di cui si dirà oltre. Le differenze tra quella
vicenda processuale e la presente, costituite dal ruolo inverso rivestito dalle parti in
primo grado (nella precedente, attrice quella vincitrice, convenuta quella soccombente,
viceversa nella presente) e dallo stato di contumacia della parte appellata in quel
giudizio (mentre nel presente tale parte risulta costituita), non si ritengono significative
e di rilevanza tale da escludere la conferenza del principio in discussione alla
controversia in esame, considerato che anche in questa si pone la questione del riparto
dell’onere probatorio, in un contesto nel quale la mancata disponibilità da parte del
giudice di secondo grado dei documenti prodotti da una delle parti, ritenuti decisivi da
quello di primo, è comunque dovuta ad una scelta processuale della parie appellata, in
virtù della quale, sia nel caso in cui sia rimasta contumace, sia in quello in cui, pur
costituita, abbia ritenuto di non (ri)produrli. il materiale probatorio sottoposto al giudice
di appello è risultato diverso, per difetto, rispetto a quello esaminato dal primo giudice.
Stabilita, dunque, l’attinenza alla fattispecie del principio di diritto rimesso in
discussione dalla sezione rimettente, ne vanno riesaminate le motivazioni, al fine di
stabilire se le stesse siano tali da mantenerlo fermo, oppure rivederlo, alla luce delle
obiezioni sollevate nell’ordinanza interlocutoria o di altre eventuali ragioni ravvisabili
da queste S.U. Il ragionamento seguito nella citata sentenza del 2005 (il cui principio
era stato chiaramente affermato, in precedenza da una sola pronunzia di legittimità, la n.
5627 del 1998, sulla base tuttavia di iter logico – giuridico parzialmente diverso), si
fonda sui seguenti essenziali passaggi argomentativi: a) nella vigenza del codice di
procedura civile del 1865 l'”appellazione” dava luogo ad un novum iudicium,
nell’ambito del quale i criteri di riparto dell’onere probatorio rimanevano immutati
rispetto a quelli regolanti il giudizio di primo grado;
b) detto connotato, già notevolmente attenuato nel nuovo codice del 1940 dalle
disposizioni contenute negli artt. 342, 345 e 346 c.p.c. a seguito delle profonde
modifiche apportate dalla L. n. 353 del 1990, non è più riscontrabile nell’attuale

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processo civile, nel cui ambito il giudizio di appello costituisce ormai una revisio prioris
instantiae, incanalata negli stretti limiti devoluti con i motivi di gravame;
c) tale processo evolutivo ha comportato riflessi anche sul riparto dell’onere della prova,
con l’effetto che, potendo il giudice di appello conoscere soltanto degli specifici “vizi di
ingiustizia o nullità” della sentenza di primo grado, dedotti dall’appellante, questi è
conseguentemente gravato dall’onere di provare le censure mosse alla decisione
impugnata e, pertanto, di mettere a disposizione del secondo giudice quello stesso
materiale probatorio sulla base del quale è stata assunta la pronunzia gravata.
Alla citata sentenza di queste S.U. che, accolta con riserve nei primi commenti, ha
successivamente suscitato, sul fronte dottrinario, pochi consensi e molte voci
dissenzienti (in linea di massima attestate sulla necessità di applicazione, anche in
appello, dell’art. 2697 cod. civ. sotto la tradizionale ottica sostanziale), si sono adeguate
la maggior parte delle successive pronunzie sezionali di legittimità (non sempre,
tuttavia, traendo dal pur richiamato principio, coerenti conclusioni nei casi concreti).
Del tutto difformi dall’indirizzo suddetto risultano, invece, la sentenza n. 78
dell’8.1.2007 della seconda sezione (relativa ad un caso pressocché in termini rispetto a
quello esaminalo dalle Sezioni Unite nel 2005, costituito da un’azione revocatoria
accolta in primo grado, che tuttavia era stata respinta in secondo, per la mancata
disponibilità del fascicolo della contumace appellata e, dunque, dei documenti, sulla
base dei quali il primo giudice era pervenuto all’accoglimento) e quella n. 8528 del
12.4.2006 della sezione lavoro (relativa ad un caso di rigetto in appello, per ritenuta
insussistenza della prova della dedotta cessione di credito, di una domanda, che in
primo grado era stata accolta sulla scorta della documentazione prodotta dal cessionario
attore, rimasto tuttavia contumace in secondo), in ambo le quali la conferma della
sentenza di appello, reiettiva della domanda già accolta dal primo giudice, è stata
giustificata con la ritenuta insussistenza della prova, ancora incombente sulla parte
attrice appellata, ancorché contumace, in ordine ai fatti costitutivi della pretesa azionata.
Comune a tali decisioni (nelle cui motivazioni, peraltro, non compare alcun cenno alla
sentenza n. 28498 del 2005) è la negazione dell’esistenza nell’attuale sistema
processuale di un “principio di immanenza” della prova documentale, tale da
comportare l’acquisizione irreversibile di quelle prodotte in primo grado dalla parte
risultata vittoriosa, ritenendosi che invece anche il giudice di appello debba decidere la
controversia iuxta alligata et probata, procedendo ad un autonomo e diretto riesame del
materiale probatorio posto a sua disposizione, con la conseguenza che la parte risultata
vittoriosa in primo grado, rimanendo contumace in appello, così da non consentire al
secondo giudice detto nuovo esame, non possa che risultare soccombente, per non aver
fornito la prova della sua pretesa sostanziale. Tali conclusioni, in tema di riparto
probatorio, risultano condivise dalla Sezione Lavoro nell’ordinanza rimettente, laddove
si osserva che “oggetto del giudizio di appello è il rapporto sostanziale controverso in
primo grado, devoluto al giudice di superiore attraverso gli specifici mezzi
d’impugnazione (tantum devolutum …), si che quel giudice conosce ex nova de
medesimo rapporto facendo uso, fra l’altro, della regola fondata sull’onere della prova ai
sensi dell’art. 2697 c.c.”, soggiungendosi che, pur nel contesto di un sistema che

concepisce il giudizio di appello quale revisio prioris instantiae anziché di riesame, la
cognizione del relativo giudice, quando i motivi d’impugnazione riguardino il merito,
sarebbe comunque “finalizzata alla pronuncia sulle condizioni dell’azione, allo stesso
modo della pronuncia del giudice di primo grado, e in questo ambito il criterio
dell’onere della prova mantiene un ruolo inderogabile”. Premesso quanto precede,
ritengono queste Sezioni Unite di dover mantenere fermo il principio enunciato nella
propria precedente sentenza del 2005, in considerazione anzitutto dell’esigenza, di
carattere generale, evidenziata in recenti pronunzie di questa Corte, secondo cui, nei
casi in cui una norma processuale si presti a due possibili alternative interpretazioni,
ciascuna compatibile con la lettera della legge, ragioni di continuità dell’applicazione
giurisprudenziale e di affidabilità della funzione nomofilattica devono indurre a
privilegiare quella consolidatasi nel tempo, a meno che il mutamento del contesto
processuale o l’emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l’abbandono,
consentendo la conseguente adozione delle diversa opzione ermeneutica (v. S.U.
n.13620/12, n. 1086/11).Tali condizioni, atte a giustificare un ripensamento siffatto, non
si ravvisano con riguardo alla tematica in discussione. Benvero, le doglianze della
ricorrente, di cui si è fatta carico l’ordinanza rimettente, nel solco delle principali
obiezioni sollevate nelle citate voci di dissenso dottrinali e giurisprudenziali, non hanno
colto il nucleo argomentativo essenziale su cui si è basata quella decisione, nel la quale
si è avuto modo di evidenziare, attraverso la ricostruzione storico – normativa
dell’istituto (cui si rimanda), come il processo evolutivo subito dal giudizio di appello, a
partire dall’entrata in vigore del codice di procedura civile del 1940, attraverso i vari
interventi modificativi apportati dal legislatore, sia pervenuto ad uno stadio tale, in cui il
gravame rappresenta ormai non più un mezzo per procedere al riesame della causa,
quale rinnovo totale o parziale, secondo i criteri tradizionali del novum iudicium, della
disamina del merito di cui una parte si sia dichiarata insoddisfatta, costituendo bensì una
revisione basata sulla deduzione di specifici vizi di illegittimità, formale o sostanziale,
della sentenza di primo grado, la dimostrazione della cui fondatezza non può, dunque,
che gravare sull’appellante, che tale revisione ha chiesto.
Tale linea di tendenza, improntata allo snellimento complessivo, nell’ottica
costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) di quello civile,
recentemente completato dall’intervento legislativo di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83,
art. 54, conv. con modd. nella L. 7 agosto 2012 (che ha ulteriormente disciplinato e
“tecnicizzato” l’onere di specificità di cui all’art. 342 c.p.c. eliminato il potere
discrezionale del giudice di appello di ammettere documenti nuovi, già previsto dall’art.
345 c.p.c., comma 3 ed introdotto il cd. “filtro” di ammissibilità con i nuovi artt. 348 bis
e 348 ter c.p.c. quest’ultimo finalizzato alla preliminare verifica di completezza
dell’appello, al fine della valutazione della ragionevole probabilità di accoglimento del
gravame), era comunque già approdata, all’epoca dell’arresto giurisprudenziale che in
questa sede si conferma, ad una fase in cui quei caratteri di marcata e preminente
connotazione processuale della revisio prioris instantiae imponevano una radicale,
profonda, rivisitazione del ruolo delle parti nell’ambito del giudizio di appello.
Costituendo, infatti, quest’ultimo una seconda e solo eventuale fase (peraltro non

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generalizzata e priva di copertura costituzionale) del giudizio di merito, comportante un
inevitabile rallentamento della relativa definizione, più coerente all’attuale connotazione
del gravame, nel contesto normativo di maggior rigore che ormai lo caratterizza, deve
ritenersi la nuova concezione del ruolo dell’appellante, da intendersi quale parte
processualmente attrice (quale che sia stata la sua posizione nel giudizio di primo grado,
che l’ha vista totalmente o parzialmente soccombente) nell’ambito del giudizio
revisionale anzidetto, quale è oggi quello di secondo grado. Essendo questo finalizzato
alla riforma di una decisione, quella del primo giudice, che nel vigente sistema è da
tempo assistita da una vera e propria presunzione di legittimità (la cui più significativa
espressione è costituita dalla disposizione dell’art. 337 c.p.c., come sostituito dalla
“novella” L. n. 353 del 1990, prevedente la regola, salve poche eccezioni,
dell’esecutorietà della sentenza, pur in pendenza del gravame), la parte appellante è
tenuta, al fine del relativo superamento, ad approntare ogni mezzo processuale posto a
sua disposizione dall’ordinamento (così, dunque e segnatamente, ad avvalersi della
facoltà prevista dall’art. 76 disp. att. c.p.c. di ottenere dalla cancelleria copia dei
documenti prodotti dalle altre parti) ed indipendentemente dalla, più o meno
prevedibile, condotta processuale della controparte, al fine di dimostrare l’ingiustizia o
l’invalidità della sentenza impugnata. In siffatto contesto, allorquando l’appellante
assuma che l’errore del primo giudice si annidi nell’interpretazione o valutazione di un
documento, il cui preciso contenuto testuale non risulti dalla sentenza impugnata,
ovvero, pacificamente, dagli atti delle parti, è onere di quella impugnante metterlo a
disposizione del giudice di appello, perché possa procedere al richiesto riesame anche
nei casi in cui lo stesso sia stato in precedenza prodotto dalla controparte, risultata
vincitrice in primo grado, non sussistendo alcuna norma che imponga a quest’ultima,
tanto meno ove continuaceli (ri)produrlo nel grado successivo
In quest’ultimo, invero, tenuto conto dell’odierna, sopra delineata, configurazione d
giudizio di appello, i criteri di riparto probatorio desumibili dalle norme generali di cui
all’art. 2697 c.c. vanno si applicati, ma non nella tradizionale ottica sostanziale, bensì
sotto il profilo processuale, in virtù del quale è l’appellante, in quanto attore
nell’invocata revisio, a dover dimostrare il fondamento della propria domanda,
deducente l’ingiustizia o invalidità della decisione assunta dal primo giudice, onde
superare la presunzione di legittimità che l’assiste. Le considerazioni suesposte
comportano, dunque, la reiezione del primo motivo di ricorso, nella parte deducente
violazione e falsa applicazione di norme processuali, confutandosi il criterio di riparto
probatorio, come sopra ribadito, che è stato correttamente applicato nella fattispecie
dalla corte territoriale. Infondato è, altresì, il profilo di censura, secondo cui detto
giudice di merito avrebbe anche disatteso l’insegnamento della sentenza n. 28498/05 di
queste S.U., che al riguardo avrebbe in realtà richiamato l’obbligo di lealtà processuale,
prescritto dall’art. 88 c.p.c., oltre al principio non codificalo della cd. “immanenza della
prova”, alla stregua dei quali il giudice di appello sarebbe dovuto pervenire ad una
soluzione della controversia opposta rispetto a quella adottata.
In proposito è sufficiente osservare che le menzionate considerazioni, contenute nel
paragrafo 8.1 della citata sentenza e correlate al rilievo del “lacunoso dettato normativo”

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(con riferimento a non del tutto risolte problematiche connesse al ritiro del fascicolo di
parte), non risultano funzionali, nel contesto complessivo della pronunzia, alla decisione
adottata, che si basa invece esclusivamente sul principio di diritto riportato nella parte
iniziale della presente motivazione. Giova comunque osservare che anche il principio
cd. “di immanenza della prova”, ove rettamente inteso, non è di alcun apporto alla tesi
sostenuta. Quando si assume che la prova, una volta entrata nel processo, vi permane e
può essere utilizzata anche dalla parte diversa da quella che l’ha prodotta, il principio va
inteso con riferimento non al documento materialmente incorporante la prova, bensì
all’efficacia spiegata dal mezzo istruttorio, virtualmente a disposizione di ciascuna delle
parti, delle quali tuttavia, quella che ne invochi una diversa valutazione da parie del
giudice del grado successivo non è esonerata dall’attivarsi perché lo stesso possa
concretamente procedere a richiesto riesame. Ne consegue che, mentre nessun problema
si pone per quelle prove, orali e verbalizzate o comunque acquisite al fascicolo di
ufficio (destinato in base alle norme di rito a pervenire al giudice di secondo grado), per
quanto riguarda quelle documentali, materializzate nelle produzioni di parte, nei casi in
cui il giudice di appello, per l’inerzia della parte interessata e tenuta alla relativa
allegazione, non sia stato in grado di riesaminarle, le stesse, ancorché non
materialmente più presenti in atti (per la contumacia dell’appellato o per l’insindacabile
scelta del medesimo di non più produrle), continuano tuttavia a spiegare la loro
efficacia, nel senso loro attribuito nella sentenza emessa dal primo giudice, la cui
presunzione di legittimità non risulta superata per fatto ascrivibile all’appellante.
Questi, rimasto inerte, pur disponendo di un adeguato mezzo processuale (la richiesta di
cui all’art. 76 disp. att. c.p.c.) per prevenire la sopra esposta situazione di carenza
documentale, deve considerarsi soccombente, in virtù del principio, desumibile dall’art.
2697 c.c., secondo cui actore non probante, reus absolvitur.
Non miglior sorte meritano i profili di censura del primo mezzo con riferimento ai vizi
della motivazione, laddove si lamenta che il giudice di appello, pur disponendo di
sufficienti elementi di prova per pervenire alla riforma della sentenza di primo grado, si
sarebbe attestato sull’astratta e formalistica applicazione del principio di diritto in
precedenza esaminato. Sotto un primo profilo, nel quale, si deduce che l’INPS si è
regolarmente costituito in giudizio e ha depositato il fascicolo di produzione contenente
la documentazione offerta a supporto dell’eccezione di pagamento svolta in primo
grado”, è agevole rilevare come la doglianza si traduca in una palese censura di carattere
revocatorio, ex art. art. 395, n. 4, deducente (peraltro in palese contrasto con le premesse
in fatto delle censure in diritto precedentemente esposte) una vera e propria svista
percettiva in cui sarebbe incorso il giudice di appello, come tale esulante dalla
cognizione di questa Corte. p. 6.3. Sotto il secondo profilo, nel quale si sostiene che il
contenuto del prospetto “informatico”, ritenuto decisivo dal primo giudice, ancorché
non prodotto in grado di appello, sarebbe stato comunque chiaramente desumibile dagli
altri atti, la censura risulta palesemente generica, non precisando se l’eventuale precisa
descrizione ne fosse contenuta nella sentenza di primo grado, oppure nell’atto di appello
e/o nella comparsa di costituzione e risposta dell’I.N.P.S., senza che al riguardo fosse
insorto contrasto tra le parti. Nè al rilevato difetto di specificità può ovviare la

Il secondo motivo di ricorso, con il quale si deduce ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 che
la Corte d’Appello, ove avesse fatto buon governo dei “principi del giusto processo”,
avrebbe dovuto accogliere il gravame, essendo il documento, già prodotto dall’I.N.P.S.,
in quanto mero appunto interno, inidoneo a provare l’adempimento della propria
obbligazione, in dittto di un atto di quietanza del debitore, è chiaramente dipendente
dal primo e, perta to, resta reiettivamente assorbito dal relativo rigetto” ( cass. n.
3036/2013 cit.).
Circa la deduzione per cui la Corte di appello avrebbe ordinato all’INPS di produrre la
documentazione senza esito si tratta di una deduzione prospettata solo nelle note
difensive e quindi tardivamente; in ogni caso tale circostanza non è idonea a ribaltare la
prospettazione seguita dalla Suprema Corte nella decisione prima ricordata nella quale
viene dato rilievo preminente alla situazione di appellante dell’odierna ricorrente.
Si deve quindi rigettare il proposto ricorso: sussistono giusti motivi per compensare tra
le parti le spese del giudizio di legittimità, tenuto conto che la pronunzia delle SU cui si
è conformata la Corte territoriale non aveva sopito i precedenti contrasti
giurisprudenziali ed il dibattito dottrinale, tanto da rendere necessario un nuovo
intervento delle Sezioni Unite.

P.Q.M.

La Corte:
rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 15.10.2013

trascrizione del documento inserita nel ricorso a questa Corte, posto che la stessa
avrebbe dovuto essere fornita al giudice di appello, per metterlo in condizione di
acquisire sufficiente conte77.9 del gravame; ma tanto non è stato precisalo
nell’impugnazione di legittimità, nè a tale carenza può ovviare la tardiva deduzione,
contenuta soltanto nella seconda memoria illustrativa, secondo cui l’appellante “di tale
documento aveva riportato la compiuta descrizione”, considerato che con le memorie ex
art. 378 c.p.c. è possibile soltanto illustrare i motivi dedotti ne ricorso, ma non anche
proporre nuove censure o ovviare a lacune di quelle già esposte.

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