Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25731 del 22/09/2021

Cassazione civile sez. lav., 22/09/2021, (ud. 17/06/2021, dep. 22/09/2021), n.25731

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – rel. Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 572/2019 proposto da:

FIAMMA S.P.A., in persona legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE FAVARELLI 22,

presso lo studio dell’avvocato VALERIA COSENTINO, che la rappresenta

e difende unitamente agli avvocati GIORGIO TREGLIA, FRANCESCA MARIA

VALLE;

– ricorrente –

contro

D.M., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dagli avvocati LIVIO NERI, ALBERTO GUARISO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1683/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 23/10/2018 R.G.N. 789/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/06/2021 dal Consigliere Dott. GUIDO RAIMONDI;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE

Alberto, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23 comma 8 bis,

convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha

depositato conclusioni scritte.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Milano, con sentenza pubblicata il 23/10/2018, ha rigettato il reclamo proposto dalla Fiamma s.p.a. ed ha confermato, seppur con diversa motivazione, la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio resa in sede di opposizione (rito “Fornero”, L. n. 92 del 2012) con la quale, fermo l’annullamento del licenziamento intimato per giusta causa dalla società a D.M. e la disposta reintegrazione della lavoratrice, era rideterminata l’indennità risarcitoria in sette mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto con detrazione dell’aliunde perceptum.

2. La Corte territoriale, per quanto qui ancora interessa, ha accertato che era pacifica l’esistenza di una corrispondenza sulla chat aziendale “world client” tra la D.o ed un’altra collega avente contenuto pesantemente offensivo nei confronti di una superiore gerarchica e di qualche altra collega. Ha poi ricordato che di tali conversazioni la società aveva appreso l’esistenza ed il contenuto in esito ad un controllo effettuato dal personale IT (tecnico informatico) che doveva verificare – in occasione della chiusura della chat e del conseguente progressivo suo abbandono – se vi fossero dati aziendali da conservare. La Corte milanese accertava che la chat era stata introdotta anni prima dell’assegnazione a ciascun dipendente di un indirizzo di posta elettronica e veniva utilizzata per le comunicazioni interne. Ciascun dipendente vi accedeva con una propria password personale, così come in seguito sarebbe stato fatto per la posta elettronica aziendale. Successivamente all’introduzione di quest’ultima, l’utilizzo della chat si era ridotto, tanto da indurre l’azienda a decidere di eliminarla.

2.1. I giudici di appello hanno osservato che ai sensi di quanto disposto al punto 13 del regolamento aziendale l’accesso alla chat era lecito, perché consentito in occasione di interventi di manutenzione, aggiornamento o per ricavare dati utili per la programmazione dei costi; tuttavia la società aveva omesso di dare la necessaria tempestiva ed adeguata informazione ai dipendenti ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 4, comma 3.

2.2. In particolare la Corte di appello ha sottolineato che la comunicazione della interruzione del servizio di chat era stata inviata quando i controlli erano stati già eseguiti. Inoltre essa ha evidenziato che l’accesso alla chat era possibile solo con l’uso di una password e che i messaggi inviati potevano essere letti solo dai destinatari. In sostanza si trattava di corrispondenza privata svolta in via riservata rispetto alla quale si impone una tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni ai sensi dell’art. 15 Cost., con la conseguenza che l’accesso al contenuto delle comunicazioni è precluso agli estranei e non ne è consentita la rivelazione ed utilizzazione.

2.3. Inoltre, la Corte territoriale ha escluso un intento denigratorio ed ha ritenuto che il contenuto delle e-mail e le espressioni in esse utilizzate costituissero uno sfogo della mittente, destinato ad essere letto dalla sola destinataria, privo del carattere di illiceità ed espressione della libera manifestazione del pensiero in una conversazione privata.

2.4. Infine i giudici di appello hanno sottolineato che nella contestazione non erano individuate altre inadempienze lavorative né era stato contestato un uso anomalo dei beni aziendali sicché, limitato l’addebito disciplinare al contenuto della conversazione ed esclusa la sua rilevanza disciplinare, ha ritenuto insussistente la giusta causa di licenziamento confermando la reintegrazione ed il risarcimento.

3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso Fiamma s.p.a. con tre motivi ai quali resiste con controricorso D.M.. La società ricorrente ha depositato memoria.

4. L’Ufficio del Procuratore Generale ha presentato conclusioni scritte ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, conv. in L. n. 176 del 2020, instando per il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione della L. 30 maggio 1970, art. 4, e successive modificazioni, e dell’art. 15 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo la ricorrente la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che le conversazioni offensive intrattenute nella chat aziendale non potessero essere utilizzate a fini disciplinari. Non si era trattato di controlli finalizzati all’adempimento della prestazione lavorativa né, inizialmente, di controlli difensivi. L’accesso era stato occasionato dalla scelta organizzativa di eliminare la chat e dalla necessità di conservare dati aziendali ivi presenti. Le frasi offensive e sconvenienti ivi rinvenute erano state inviate utilizzando il pc in dotazione di proprietà dell’azienda durante l’orario di lavoro e attraverso la chat aziendale da usare esclusivamente per le comunicazioni di servizio. Sostiene la ricorrente che ad una fattispecie come quella in esame non trovi applicazione l’art. 15 Cost., che tutela la corrispondenza e le forme di comunicazione private (la ricorrente cita Cass. 26682 del 10/11/2017) e che si verta piuttosto nell’ambito di un controllo difensivo a tutela dell’immagine del datore di lavoro. L’emersione è stata del tutto casuale e legittimo l’utilizzazione delle informazioni rinvenute a fini disciplinari. Non vi sarebbe stato alcun controllo diretto sull’attività lavorativa e la condotta della lavoratrice sarebbe contraria al minimo etico ed al buon vivere civile. Secondo la ricorrente, quindi, sarebbero stati legittimi l’esercizio del potere disciplinare ed il licenziamento, per cui l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, da applicarsi, ratione temporis, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23, comma 1, sarebbe stato male applicato.

2. Con il secondo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., e dell’art. 18 della L. n. 300 del 1970 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Secondo la ricorrente la condotta accertata era disciplinarmente rilevante e suscettibile di essere punita con un licenziamento in tronco. Viene dedotto un vizio di sussunzione (cita Cass. 26/04/2012 n. 6498, 02/03/2011 n. 5095 e 15/04/2016n. 7568). La società richiama ancora la decisione di questa Corte n. 26682 del 2017 e osserva che la Corte di appello avrebbe trascurato di considerare due circostanze: da una parte la spregevolezza della condotta e dei contenuti delle frasi e, dall’altra, la consapevolezza della condotta stessa, consistente in reiterati insulti e contrarietà a regole del buon vivere civile (cita Cass. 26/06/2013 n. 16098 e 6606/2018). Si tratterebbe di comportamenti che ledono il vincolo fiduciario.

3. Con il terzo motivo di ricorso la società deduce che in violazione dell’art. 2697 c.c., e art. 115 c.p.c., la Corte milanese non avrebbe osservato il principio di non contestazione, e anche le regole sulla ripartizione dell’onere probatorio, atteso che i fatti erano pacifici e avevano rilievo disciplinare.

4. Il ricorso non merita accoglimento.

5. Prima di iniziare l’esame dei motivi, il Collegio, osserva che la decisione impugnata si regge su tre autonome ragioni del decidere.

5.1. In primo luogo, l’illegittimità del licenziamento è stata ritenuta a causa dell’inutilizzabilità del materiale estratto dal computer della lavoratrice a causa della violazione dell’art. 4, comma 3, dello Statuto dei lavoratori nel testo modificato dal D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23, comma 1, e dal D.Lgs. n. 185 del 2016, art. 5, applicabile ratione temporis, in particolare perché la società aveva omesso di dare la necessaria tempestiva ed adeguata informazione ai dipendenti ai sensi di questa disposizione, osservando che la comunicazione della interruzione del servizio di chat era stata inviata quando i controlli erano stati già eseguiti.

5.2. In secondo luogo, la Corte territoriale è giunta alla stessa conclusione di inutilizzabilità del materiale probatorio rilevando – dopo aver accertato che l’accesso alla chat era possibile solo con l’uso di una password e che i messaggi inviati potevano essere letti solo dai destinatari – che le conversazioni litigiose costituivano una forma corrispondenza privata svolta in via riservata rispetto alla quale si impone una tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni ai sensi dell’art. 15 Cost., con la conseguenza che l’accesso al contenuto delle comunicazioni è precluso agli estranei e non ne è consentita la rivelazione ed utilizzazione.

5.3. Infine, la Corte milanese ha escluso un intento denigratorio ed ha ritenuto che – in ogni caso, quindi anche nell’ipotesi della loro utilizzabilità – il contenuto dei messaggio di posta elettronica e le espressioni in esse utilizzate costituissero uno sfogo della mittente, destinato ad essere letto dalla sola destinataria, privo del carattere di illiceità ed espressione della libera manifestazione del pensiero in una conversazione privata, per cui, non essendo state individuate nella contestazione altre inadempienze lavorative né contestato un uso anomalo dei beni aziendali sicché, essendo limitato l’addebito disciplinare al contenuto della conversazione ed esclusa la sua rilevanza disciplinare, doveva ritenersi comunque insussistente la giusta causa di licenziamento.

6. Il primo motivo, non esente da profili di inammissibilità, è infondato.

6.1. La doglianza è inammissibile relativamente agli aspetti in essa sollevati in ordine alla utilizzazione del computer in dotazione alla lavoratrice di proprietà dell’azienda, alla realizzazione dell’attività litigiosa durante l’orario di lavoro e attraverso la chat aziendale da usare esclusivamente per le comunicazioni di servizio. Sul punto la sentenza impugnata (a p. 5) – come si è già notato – osserva (pur dando atto nella enunciazione dei motivi di reclamo della società che quest’ultima sottolineava che le esternazioni litigiose avevano luogo durante l’orario di lavoro utilizzando la chat aziendale) che la contestazione mossa alla lavoratrice attiene esclusivamente al contenuto delle chat, mentre non contiene nessun riferimento a inadempienze lavorative o a un uso anomalo e inappropriato degli strumenti aziendali, statuizione quest’ultima che non viene specificamente censurata con la doglianza in esame. è principio consolidato che nel giudizio di cassazione non è consentita la prospettazione di nuove questioni di diritto o contestazioni che modifichino il thema decidendum ed implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito (ex multis, Cass. n. 14477/2018, n. 2193/2020). Si tratta dunque di questione sollevata per la prima volta nel giudizio di legittimità, donde la sua inammissibilità.

6.2. Un ulteriore profilo di inammissibilità riguarda la prospettazione della tesi secondo la quale il controllo del computer in uso alla lavoratrice, inizialmente determinato esclusivamente da ragioni tecniche ed esigenze di manutenzione del sistema, ai sensi dell’art. 13 del Regolamento aziendale, aveva assunto poi – una volta rilevata l’esistenza delle conversazioni litigiose – la natura di un “controllo difensivo”, come tale, in tesi, sottratto al rigido regime di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 4, nel testo applicabile ratione temporis. Nell’esposizione dei motivi di reclamo della società contenuta nella sentenza impugnata non vi è traccia, al di là di un generico riferimento alla possibilità di accedere alla chat aziendale, tra l’altro “per finalità di controllo”, della prospettazione della tesi secondo cui la natura di “controllo difensivo” dell’azione avrebbe consentito l’accesso ai dati della chat al di fuori delle regole stabilite dalla L. n. 300 del 1970, art. 4, nel testo applicabile ratione temporis. Ne’ la sentenza impugnata esamina una tale tesi difensiva, menzionando una eventuale contestazione dell’applicabilità dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori. Applicabilità che, a ben vedere, la società nemmeno contesta in questa sede di legittimità, solo lamentando l’errata applicazione della disposizione. Anche qui va fatta dunque applicazione del ricordato principio per cui i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio d’appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio. Il ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (v. decisioni già citate e Cass. n. 4787/2012, 22069/2015, 28060/2018 e 7803/2020).

6.2.3. Il Collegio non ha dunque necessità, ai fini della decisione del presente ricorso, ritenuta l’inammissibilità del profilo di doglianza in esame, di affrontare la questione, di indubbio rilievo nomofilattico, della compatibilità dei c.d. “controlli difensivi”, concetto elaborato dalla giurisprudenza precedentemente alla modifica dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori recata dal D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23, e dal D.Lgs. n. 185 del 2016, art. 5, con l’attuale assetto normativo.

6.3. Sotto il profilo della pretesa errata applicazione dell’art. 4, comma 3, dello Statuto dei lavoratori, il motivo non merita accoglimento. La lavoratrice osserva nel controricorso che l’accesso era stato sì legittimo ai sensi dell’art. 13 del Regolamento aziendale, ma l’inutilizzabilità dei dati raccolti è stata fatta correttamente derivare dalla mancata tempestiva informazione dei dipendenti ai sensi dell’art. 4 comma 3 dello Statuto dei lavoratori.

Ad avviso del Collegio la norma in esame è stata correttamente applicata dai giudici di appello.

Nella sua nuova formulazione la L. n. 300 del 1970, art. 4, così recita:

Art. 4.

Impianti audiovisivi.

1. Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi. (2)

2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196″.

Quanto alla questione relativa alla qualificazione come “strumento di lavoro” della chat aziendale oggetto dei controlli non sembra possano sussistere dubbi, essendo essa, pacificamente, funzionale alla prestazione lavorativa. In questi casi la disciplina vigente prevede bensì l’esclusione delle procedure di garanzia di cui all’art. 4, comma 1, per tali controlli.

Tuttavia, negli stessi casi l’utilizzabilità del risultato di tali controlli “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”, compresi quindi quelli disciplinari, è subordinata, secondo il comma 3 dello stesso art. 4, alla “condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196.”

Ora, la sentenza impugnata ha accertato che era mancata l’adeguata informazione preventiva del lavoratore, giacché la comunicazione aziendale del 9 marzo 2017 con la quale i lavoratori erano stati informati della soppressione della chat aziendale con decorrenza immediata era successiva all’effettuazione dei controlli. Ne’ poteva soccorrere la previsione del Regolamento aziendale, che nulla diceva in ordine alle modalità con cui potevano essere eseguiti i controlli.

A fronte di questa ricostruzione in fatto ed in diritto la società ricorrente si limita ad osservare che non vi era stato alcun controllo diretto dell’attività lavorativa e che la manifestazione di frasi offensive da parte della lavoratrice esula dalla prestazione lavorativa, insistendo poi sul disvalore della condotta della D., questione quest’ultima che si colloca evidentemente a valle di quella qui esaminata della utilizzabilità dei dati estratti dallo strumento di lavoro della resistente.

Ne’ può soccorrere il precedente di questa Corte (Cass. 26682/2017) invocato dalla ricorrente, per la verità con riferimento alla critica, nell’ambito della doglianza in esame, della diversa e autonoma ragione del decidere centrata sull’art. 15 Cost., e della riservatezza della corrispondenza. La fattispecie presa in considerazione da quest’ultima decisione consisteva nel controllo effettuato dalla datrice di lavoro sulla posta elettronica aziendale di un dipendente accusato di aver inviato una serie di e-mail contenenti reiterate espressioni scurrili nei confronti del legale rappresentante della società e di altri collaboratori, nonché apprezzamenti negativi nei confronti dell’azienda in quanto tale. In questo caso, al quale era applicabile ratione temporis la precedente versione della L. n. 300 del 1970, art. 4, la Corte ha ritenuto che in tema di controllo del lavoratore, la duplicazione periodica dei dati contenuti nei computer aziendali, preventivamente nota ai dipendenti (corsivo aggiunto), esula dal campo di applicazione delle garanzie procedurali imposte dall’art. 4, comma 2, St. lav. (nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23, comma 1), se effettuata a tutela di beni estranei al rapporto di lavoro, quali l’immagine dell’azienda e la tutela della dignità di altri lavoratori, e non riguardi l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto stesso. Indipendentemente dal suo riferimento al quadro normativo non più oggi applicabile, il precedente è inconferente, perché da un lato esso si riferisce all’ipotesi dei cosiddetti “controlli difensivi”, dunque ad una fattispecie non correttamente introdotta in questo giudizio di legittimità, e dall’altro esso afferma, come la sentenza impugnata, il principio della necessità, al fine della utilizzabilità dei dati raccolti, della previa informazione dei dipendenti circa le modalità di registrazione dei dati, cioè di un elemento di cui la sentenza impugnata ha accertato il difetto, senza che la relativa statuizione venisse specificamente criticata.

Correttamente la Corte milanese ha quindi escluso l’utilizzabilità dei dati raccolti, con la conseguenza del venir meno dell’intera base fattuale della contestazione disciplinare. 6.3.1. Il rigetto della critica relativa all’applicazione dell’art. 4 St. lav. da parte della sentenza impugnata esime la Corte dall’esame delle residue doglianze contenute nel motivo in esame, doglianze inerenti alla questione della dedotta inapplicabilità dell’art. 15 Cost., e della tutela della riservatezza della corrispondenza, nonché a quella questioni da ritenere assorbite, essendo la statuizione della sentenza impugnata relativa all’inutilizzabilità dei dati raccolti per violazione dell’art. 4 St. lav., idonea a sorreggere la decisione.

7. Sono quindi da considerare assorbiti anche gli altri due motivi (il secondo contenente critiche alla statuizione della sentenza impugnata relativa alla irrilevanza disciplinare della condotta rimproverata alla lavoratrice e il terzo relativo alla dedotta violazione del principio di non contestazione e della regola del riparto dell’onere probatorio), perché entrambe le doglianza presuppongono l’utilizzabilità a fini disciplinari dei dati raccolti, il che è stato escluso dalla sentenza impugnata con una statuizione che ha passato il vaglio dello scrutinio di legittimità e che, come detto, è da sola sufficiente a reggere la decisione.

8. Segue alle svolte considerazioni il rigetto del ricorso. La novità della questione giustifica la decisione di compensare le spese del giudizio di legittimità.

9. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2021

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