Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25721 del 22/09/2021

Cassazione civile sez. II, 22/09/2021, (ud. 16/02/2021, dep. 22/09/2021), n.25721

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24964/2019 R.G. proposto da:

A.C.T.A., rappresentato e difeso dall’avv.

Roberto Ricciardi, con domicilio in Caserta, Viale Lincoln n. 77;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e

difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio in Roma,

Via dei Portoghesi n. 12;

– resistente –

avverso il decreto del Tribunale di Venezia n. 6164/2019, depositata

in data 25.7.2019;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16.2.2021 dal

Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con decreto n. 6164/2019, il tribunale di Venezia, confermando il provvedimento adottato dalla Commissione territoriale di Verona, ha respinto la domanda di protezione internazionale proposta da A.C.T.A..

Il ricorrente, cittadino (OMISSIS), aveva dedotto di aver avuto, sin dall’infanzia, problemi di salute; di esser stato curato in patria senza riuscire a sconfiggere definitivamente la malattia e di aver perduto il lavoro, subendo atti di discriminazione anche in ambito familiare, legati alla sua condizione di infermità.

Secondo la pronuncia impugnata, i fatti dedotti non integravano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria sub D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b), non essendo prospettata un’ipotesi di persecuzione per ragioni di razza, lingua, religione o il rischio di subire una condanna penale o trattamenti inumani e degradanti, negando che nel paese di provenienza del ricorrente vigesse un clima di violenza indiscriminata tale da legittimare la concessione della protezione ex art. 14, lett. c) del citato decreto.

Quanto alla protezione umanitaria, il tribunale ha dato atto che le certificazioni mediche in atti attestavano che le problematiche legate alla salute erano – in parte – superate e che l’interessato non era bisognevole di cure.

Per la cassazione del decreto A.C.T.A. propone ricorso in tre motivi.

Il Ministero ha depositato memoria ai soli fini

dell’eventuale partecipazione all’udienza pubblica.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia la violazione dell’art. 10 Cost., comma 3, art. 3 Direttiva 2011/95/UE e D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che il diritto di asilo riconosciuto dalle norme costituzionali ed internazionali deve essere accordato anche a chi, pur non essendo perseguitato, non voglia vivere in uno Stato autoritario che, come il (OMISSIS), riconosce solo in astratto le libertà personali, risultando da più fonti internazionali numerosi casi di violazioni dei diritti delle donne, dei minori, dei disabili o di soggetti perseguitati per ragioni connesse all’orientamento sessuale, nonché l’applicazione della pena capitale. Andava in ogni caso riconosciuta la protezione umanitaria, benché l’interessato non fosse esposto a pericoli nella zona di residenza, occorrendo considerare la specifica condizione di vulnerabilità personale dell’interessato ed operare la necessaria comparazione con il grado di integrazione sociale e lavorativa conseguito in Italia.

Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, nel punto in cui postula la sussistenza di un’area di diretta applicabilità dell’art. 10 Cost. e la configurazione di situazioni soggettive attive in capo al migrante, ulteriori e diverse rispetto a quelle che si realizzano nella forma dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, da cui non si ha motivo di dissentire, il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo “status” di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, adottato in attuazione della Direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, e di cui all’art. 5, comma 6, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

All’infuori di tali ipotesi, non è alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3, in chiave processuale o strumentale, a tutela di chi abbia diritto all’esame della sua domanda di asilo alla stregua delle vigenti norme sulla protezione (Cass. 10686/2012; Cass. 13362/2016; Cass. 11110/2019).

1.1. Riguardo alla protezione sussidiaria, la censura attinge profili in fatto rimessi al giudice di merito e neppure si confronta con la dichiarata insussistenza dei presupposti applicativi dell’art. 14, lett. a) e b) del decreto qualifiche e quindi sulla ritenuta impossibilità di ravvisare un rischio personalizzato di danno, non essendo – comunque – neppure allegato né il rischio di persecuzione politica, per ragioni etniche o di appartenenza ad una data categoria, né il pericolo di sottoposizione alla pena capitale o a trattamenti inumani o degradanti.

1.2. La possibilità di concedere la protezione umanitaria andava scrutinata in relazione alla specifica situazione personale allegata, fondata esclusivamente su motivi di salute, profilo su cui il tribunale ha motivatamente ritenuto che la permanenza in Italia non trovasse alcuna giustificazione, essendo venute meno le esigenze di cura rappresentate in giudizio.

Non essendo più attuale una condizione di fragilità legata a motivi di salute, non era doverosa alcuna comparazione con il grado di inserimento in Italia, inserimento che può solo concorrere a delineare una situazione che autorizza la concessione della protezione, ma che da solo non può condurre all’accoglimento della domanda.

Quanto alla mancata valutazione della situazione di generale compromissione dei diritti fondamentali nel paese di provenienza, tali ulteriori allegazioni non risultano proposte nel giudizio di merito, sicché legittimamente il giudice non ne ha tenuto conto.

Con riferimento alle forme di protezione che risultano focalizzate sulle condizioni personali del richiedente, l’adempimento dell’onere di allegazione costituisce un prius rispetto all’attivazione dei poteri officiosi di indagine e all’adempimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria che grava sul giudice, tenuto ad indagare pur sempre sulle circostanze ed i presupposti posti a fondamento della domanda, che non è sottratta all’applicazione del principio dispositivo (Cass. 27336/2018; Cass. 21123/2019, Cass. 19197/2015).

Anche in tali ipotesi, occorre partire dalla situazione oggettiva del paese di origine del richiedente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza. Tale punto di avvio dell’indagine, è intrinseco alla ratio stessa della protezione umanitaria, non potendosi eludere la rappresentazione di una condizione personale di effettiva deprivazione dei diritti umani che abbia giustificato l’allontanamento (Cass. 4455/2018).

2. Il secondo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3 e 4, art. 6 e art. 9, lett. b) Direttiva 2011/95/UE e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, assumendo che, date le condizioni personali del richiedente asilo, non era esigibile la prova rigorosa della situazione del paese di appartenenza, che il tribunale avrebbe dovuto approfondire d’ufficio, dovendo inoltre tener conto che il ricorrente aveva già subito atti di persecuzione e gravi violazioni dei diritti umani consumate anche nel paese di transito, avendo titolo già solo per tale ragione – alla protezione internazionale.

Il motivo è inammissibile, poiché elude il nucleo argomentativo della pronuncia impugnata che, con riferimento alle forme di protezione maggiore, ha rilevato un’evidente carenza di una delle situazioni legittimanti previste dalla disciplina, non occorrendo attivare i poteri istruttori officiosi rivolti ad approfondire la situazione generale del (OMISSIS), non essendo la domanda, già per tale aspetto, meritevole di accoglimento.

Ne’, per come descritti in ricorso, erano configurabili pregressi atti di persecuzione, eventualmente rilevanti ai fini di cui si discute, tenuto conto delle descritte allegazioni di parte, che lasciavano emergere solo accadimenti attinenti alla sfera familiare e lavorativa, dipendenti da condizioni di salute dell’interessato non più attuali.

Quanto all’omessa valutazione delle vicende personali con specifico riferimento al paese di transito, la doglianza si palesa del tutto priva di specificità, non indicando quali elementi di vulnerabilità, specificamente dedotti, fossero emersi durante il soggiorno in Libia e quale attinenza avesse la situazione nel paese di transito con la storia personale dedotta a giustificazione della richiesta di protezione.

3. Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver il tribunale valutato la situazione del paese di provenienza senza partire dal dato di fatto, del tutto pacifico, della sussistenza di gravi e diffuse violazione dei diritti umani comprovate dalla storia recente del continente africano.

Il giudice di merito avrebbe illegittimamente fatto ricorso ad una presunzione de presumpto riguardo alla assenza di discriminazione ad opera delle etnie maggioritarie nel paese.

Il motivo inammissibile.

A fronte del motivato accertamento svolto dal tribunale – sulla base delle fonti internazionali – della situazione interna del (OMISSIS), il ricorso pretende di valorizzare un’ipotetica e non meglio circostanziata violazione dei diritti umani che, a detta del ricorrente, caratterizzerebbe l’intero continente africano, senza alcun aggancio ai fatti allegati ed analizzati in giudizio.

In ogni caso, la ritenuta insussistenza di una condizione personale di fragilità, ricollegabile a ragioni di salute ormai superate, giustificava ampiamente il rigetto della domanda.

Nessun riferimento si rinviene nella pronuncia alle condizioni delle etnie maggiormente diffuse nel paese, sicché, sotto tale profilo, la censura introduce questioni non dibattute tra le parti e non riferibili alle allegazioni processuali.

Il ricorso è – in definitiva – inammissibile.

Nulla sulle spese, non avendo il Ministero svolto difese.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione Seconda civile, il 16 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2021

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