Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25698 del 14/12/2016


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Cassazione civile, sez. trib., 14/12/2016, (ud. 22/11/2016, dep.14/12/2016),  n. 25698

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. GUARDIANO Alfredo – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23045-2012 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

LPR SRL in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI MONTI PARIOLI 48, presso

lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MARINI, che lo rappresenta e

difende giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 76/2011 della COMM. TRIB. REG. di BOLOGNA,

depositata il 06/07/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/11/2016 dal Consigliere Dott. MARULLI MARCO;

udito per il ricorrente l’Avvocato MADDALO che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato MARINI che si riporta al

controricorso e chiede il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

MASELLIS MARIELLA che ha concluso per l’accoglimento dei primi due

motivi di ricorso, assorbito il 3.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. A seguito di una verifica fiscale a carattere mirato l’ufficio di Piacenza dell’Agenzia delle Entrate faceva notificare alla LPR s.r.l., società attiva nella commercializzazione di telefoni cellulari, un avviso di accertamento con cui, recependo le risultanze di verifica e, segnatamente, il fatto che la parte fungesse da società filtro in una vasta ed articolata frode carosello, recuperava a tassazione costi ed IVA indebitamente detratti in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti.

L’appello dell’ufficio avverso la decisione, che in primo grado aveva accolto il ricorso della LPR ed aveva annullato l’atto impugnato, era definito con pronuncia di rigetto dalla CTR Emilia Romagna sulla base della considerazione che alla società contribuente, come ad altre società coinvolte nella vicenda, non erano “attribuiti comportamenti anomali (quali vendite, riacquisti, vendite sottocosto, false dichiarazioni di intento o costituzione di società ai soli fini della creazione di falsi documenti contabili) atti a costituire circostanze gravi, precise e concordanti, dimostranti il loro coinvolgimento nella frode”. Peraltro, osservava il giudice territoriale, la LRP “ha prodotto tutte le fatture che comprovano le operazioni sottostanti indicando il costo di acquisto, il carico e lo scarico della merce, documentando la normalità del prezzo di acquisto e di cessione”. E sarebbe stato perciò onere dell’ufficio “dimostrare la restituzione al contribuente da parte delle c.d. cartiere degli importi o di parte di questi corrispondenti all’IVA non versata ovvero dimostrare che il prezzo dell’acquisto della merce fosse di gran lunga inferiore a quello praticato nella prassi commerciale, nonchè dimostrare l’esistenza di un accordo tra la società filtro e le altre società partecipanti alla frode e diretto al conseguimento di un utile”. Non essendo stato tutto ciò “dimostrato”, concludeva il decidente, corretta doveva perciò giudicarsi la decisione appellata.

Per la cassazione di detta sentenza l’Agenzia si affida a tre motivi di ricorso ai quali replica la contribuente con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

2.1.1. Con il primo motivo di ricorso l’erario si duole della statuizione adottata dal giudice d’appello in violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54, 21 e 19 e artt. 2697 e 2729 c.c., dal momento che questi, addossando all’ufficio l’onere di provare l’inesistenza delle operazioni, ancorchè l’ufficio si fosse dato cura di dimostrare sulla base delle circostanze di fatto emerse in esito alla verifica che tutte le operazioni attive e passive imputate alla parte erano soggettivamente inesistenti, “ha violato” i principi vigenti in materia circa la riparazione dell’onere della prova che fanno carico all’amministrazione di allegare “elementi sufficienti a connotare la pretesa del fisco in termini di sufficiente verosimiglianza”, non essendo “necessario che il fisco provi la inesistenza delle operazioni”, bastando a questo fine anche la sola prova indiziaria.

2.1.2. Il secondo motivo di ricorso addebita all’impugnata decisione errore di diritto nell’applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 54, art. 2729 c.c. ed in relazione ai principi enunciati in materia di frode dalla giurisprudenza unionale in quanto, contrariamente all’assunto fatto proprio dal giudice d’appello, “il presupposto in forza del quale il giudice nazionale è tenuto a negare il diritto alla detrazione non è dato dalla partecipazione alla dolosa preordinazione con atti aventi lo scopo esclusivo o preminente di realizzare l’evasione tributaria, ma dalla mera consapevolezza – effettiva ovvero colposa (ossia superabile con l’uso della normale diligenza) – di entrare in una frode orchestrata da altri”.

2.2. Entrambi i motivi – che possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente avvinti – sono fondati e la loro fondatezza, imponendo la rinnovazione del giudizio probatorio, assorbe il terzo motivo di ricorso inteso a far valere l’insufficiente motivazione con cui la CTR, pur ravvisando la sussistenza della frode nelle relazioni intercorse tra talune delle società coinvolte nella vicenda, ha tuttavia ritenuto che nessun addebito in questa direzione fosse ascrivibile alla verificata, “obliterando tuttavia le fondamentali circostanze” dedotte dall’impugnante a riprova dell’esercitata pretesa.

2.3. Quanto ai motivi accolti, vanno qui ribaditi i noti orientamenti in materia di questa Corte che, sul filo dell’insegnamento dispensato dalla giurisprudenza unionale da ultimo da Corte Giust. UE C-277/14 – a tenore della quale “le disposizioni della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, come modificata dalla direttiva 2002/38/CE del Consiglio, del 7 maggio 2002, devono essere interpretate nel senso che esse ostano a una normativa nazionale, quale quella di cui al procedimento principale, che neghi a un soggetto passivo il diritto di detrarre l’imposta del valore aggiunto dovuta o assolta per beni che gli sono stati ceduti sulla base dei rilievi che la fattura è stata emessa da un soggetto che deve essere considerato, con riferimento ai criteri previsti da tale normativa, un soggetto inesistente e che è impossibile identificare il vero fornitore dei beni, tranne nel caso in cui si dimostri, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal soggetto passivo verifiche che non gli incombono, che tale soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare” – ha da tempo espresso il convincimento che, sebbene spetti all’amministrazione finanziaria che contesti il diritto del contribuente a portare in detrazione l’IVA pagata su fatture emesse da soggetto diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio (cd. operazioni soggettivamente inesistenti), “provare, anche a mezzo di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, gli elementi di fatto attinenti al cedente (la sua natura di “cartiera”, l’inesistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell’I.V.A.) e la connivenza da parte del cessionario, indicando gli elementi oggettivi che, tenuto conto delle concrete circostanze, avrebbero dovuto indurre un normale operatore a sospettare dell’irregolarità delle operazioni” (17818/16), provando segnatamente a tale ultimo riguardo “che il contribuente, al momento in cui acquistava il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente avesse, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o compiuto una frode” (23560/12), è compito poi del contribuente “dimostrare, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta, di non essere stato in grado di superare l’ignoranza del carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti coinvolti” (2630/16; 14863/15; 20059/14), all’uopo non essendo peraltro bastevole che egli si limiti a dedurre che la merce sia stata consegnata e rivenduta e la fattura, IVA compresa, sia stata effettivamente pagata, poichè trattasi di circostanze pienamente compatibili con la frode fiscale perpetrata mediante un’operazione soggettivamente inesistente (18374/15; 14863/15; 15044/14), ma richiedendosi piuttosto che, facendo uso della comune diligenza che si raccomanda ad un operatore professionale del settore mediamente avveduto (“diligentia viri eiusdem generis ac professionis”), il contribuente si premuri di verificare – e di ciò offra la prova – la regolarità sostanziale della operazione e non soltanto la regolarità formale della fattura anche con riferimento alla condizione soggettiva del cedente (13803/14 in motivazione).

2.4.1. Poste queste chiare premesse di diritto, che delineano con puntuale esattezza i compiti probatori di ciascuna delle parti di fronte alla tematica delle operazioni inesistenti e, particolarmente, delle frodi carosello, è presto detto che l’impugnata decisione d’appello si rivela effettivamente affetta dal duplice errore di diritto denunciato con entrambi i motivi in rassegna.

2.4.2. Erra, invero, il giudice d’appello, laddove in violazione dell’onere probatorio che compete sull’ufficio, nel mentre reputa decisivo il fatto che la contribuente abbia “prodotto tutte le fatture che comprovano le operazioni sottostanti indicando il costo di acquisto, il carico e lo scarico della merce e documentando la normalità del prezzo di acquisto e di cessione” – elementi circostanziali, questi, che, sia detto per inciso, costituiscono attributo indefettibile di qualsiasi operazione fraudolenta ben organizzata, che deve mascherare appunto sotto l’apparente veste di una regolarità formale la propria natura illecita, sicchè essi sono, decisionalmente, del tutto inconferenti approfondendo ulteriormente il tema traccia un panorama dei compiti operativi del fisco che lo chiamano ad assolvere un prova che assume con tutta evidenza i connotati della prova impossibile in quanto secondo il ragionamento del decidente l’ufficio dovrebbe “dimostrare la restituzione al contribuente da parte delle c.d. cartiere degli importi o di parte di questi, corrispondenti all’IVA non versata ovvero dimostrare che il prezzo dell’acquisto della merce fosse di gran lunga inferiore a quello praticato nella prassi commerciale, nonchè dimostrare l’esistenza di un accordo tra la società filtro e le altre società partecipanti alla frode e diretto al conseguimento di un utile”, e ciò in aperta negligenza del sopra visto insegnamento di questa Corte che consente di provare gli elementi costitutivi dell’illecito anche a mezzo di presunzioni aventi i caratteri tipici del meccanismo inferenziale.

2.4.3. Non meno grave, poichè il ragionamento decisorio qui cozza frontalmente contro l’interpretazione del diritto unionale enunciata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, è il secondo errore di diritto in cui cade il giudice d’appello laddove pretende che l’ufficio, oltre alla distorta rappresentazione del compito probatorio che ad esso pertiene con riferimento all’elemento oggettivo dell’illecito, debba anche dimostrare “l’esistenza di un accordo tra la società filtro e le altre società partecipanti alla frode e diretto al conseguimento di un utile”, atteso che, in disparte della già rilevata difficoltà di una prova siffatta se per essa si pretendesse una prova in senso storico, ben diversamente da quanto mostra in tal modo di credere il decidente, l’ufficio può compiutamente ed efficacemente assolvere l’onere probatorio su di sè gravante non solo a mezzo di una prova logica, ma, segnatamente, di una prova logica che, facendo leva su regole di comune esperienza a cui si associa, l’osservanza degli ordinari principi di correttezza e trasparenza nello svolgimento delle relazioni commerciali, consenta di dimostrate che un operatore commerciale, esperto del settore e mediamente avveduto, poteva conoscere e avrebbe potuto conoscere la natura fraudolenta dell’operazione a cui a prendeva parte, sicchè la prova di una connivenza piena, di una partecipazione consapevole e fin’anco, forse, di un contributo fattivo all’ideazione della frode è un quid pluris probatorio che l’ordinamento non richiede e che il fisco non è perciò tenuto a dare.

3. L’accoglimento dei primi due motivi di ricorso, assorbito il terzo, obbligano alla cassazione dell’impugnata sentenza a mente dell’art. 383 c.p.c., comma 1, ed il rinvio della causa avanti al giudice territoriale competente perchè nel susseguente giudizio a mente degli artt. 392 e segg. c.p.c., si attenga ai sopra enunciati principi di diritto.

PQM

La Corte Suprema di Cassazione accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso, dichiara assorbito il terzo, cassa l’impugnata sentenza e rinvia avanti alla CTR Emilia Romagna che, in altra composizione, provvederà pure alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

Cosi deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 5 sezione civile, il 21 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2016

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