Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25690 del 11/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 11/10/2019, (ud. 09/07/2019, dep. 11/10/2019), n.25690

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO

82, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO BONOLI, rappresentata e

difesa dall’avvocato GUALTIERO CAVALLARO;

– ricorrente –

contro

RISCOSSIONE SICILIA S.P.A. (già SERIT SICILIA S.P.A) – Agente della

Riscossione per la Provincia di Catania, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

CIRCONVALLAZIONE CLODIA 36/A, presso lo studio dell’avvocato FABIO

PISANI, rappresentata e difesa dagli avvocati ANTONIO CALVO e

GIUSEPPE CALVO;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 735/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 24/07/2014, R. G. N. 973/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/07/2019 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GUALTIERO CAVALLARO; udito l’Avvocato GIUSEPPE

CALVO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Catania, con sentenza n. 735 pubblicata il 24.7.14, in parziale accoglimento dell’appello proposto da Riscossione Sicilia s.p.a. (già Serit Sicilia s.p.a.) e in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha rideterminato in Euro 58.719,00, oltre accessori, il danno non patrimoniale sofferto da A.F. a causa della condotta datoriale illegittima; ha compensato per metà le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio, condannando la società alla rifusione della residua metà.

2. La Corte di merito ha dato atto del licenziamento intimato alla A. dalla Montepaschi Serit s.p.a. (poi Serit Sicilia s.p.a.) il 29.11.89, dichiarato illegittimo con sentenza del pretore del lavoro di Catania n. 90 del 1995, confermata in appello e dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 9164 del 2001, e del fatto che la società non avesse ottemperato all’ordine giudiziale di reintegra se non nel dicembre 2003, costringendo peraltro la lavoratrice ad agire più volte in giudizio anche per ottenere il pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del recesso.

3. Ha richiamato giurisprudenza di legittimità secondo cui nel regime di tutela reale di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo originario, la predeterminazione legale del danno risarcibile in favore del lavoratore non esclude che questi possa chiedere il risarcimento dei danni ulteriori derivati dal ritardo nella reintegra.

4. Ha confermato la statuizione di rigetto della domanda della A. di risarcimento dei danni patrimoniali “conseguenti al fallimento” per mancanza di allegazioni e prove sul nesso di causalità tra il mancato pagamento delle retribuzioni alla medesima spettanti e il fallimento dell’impresa di cui la stessa era titolare.

Ha parimenti confermato il rigetto della domanda di risarcimento dei danni patrimoniali “per spese legali, mediche, medico legali sostenute o da sostenere” per assoluta genericità delle allegazioni e, quanto alle spese legali, poichè sostenute in altri procedimenti.

5. Ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, che ha liquidato secondo i criteri di cui alle tabelle del tribunale di Milano, in base ad una percentuale di danno biologico del 16% risultante dalla c.t.u. svolta in primo grado (senza fare riferimento alla c.t.u. disposta nel giudizio di appello, che aveva accertato un danno biologico nella misura del 30%, in ragione dei “limiti dell’appello incidentale” della lavoratrice), ed applicando un coefficiente di personalizzazione del 37%.

6. Avverso tale sentenza, A.F. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. La Riscossione Sicilia s.p.a. ha depositato nomina dei procuratori speciali per la partecipazione alla discussione orale, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1.

7. La difesa della A. ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

8. Nel corso della pubblica udienza, la difesa di Riscossione Sicilia s.p.a. ha proposto istanza di rimessione in termini per il deposito del controricorso; ha spiegato di aver notificato il controricorso per via telematica, con ricevuta di accettazione generata dopo le ore 21.00 dell’ultimo giorno utile e perfezionamento della notifica per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, secondo il disposto del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-septies, convertito, con modificazioni, nella L. n. 221 del 2012, inserito dal D.L. n. 90 del 2014, art. 45-bis, comma 2, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. n. 114 del 2014, all’epoca vigente, ma successivamente dichiarato incostituzionale, con sentenza della Corte Cost. n. 75 del 2019.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, l’istanza di rimessione in termini presentata nell’interesse della Riscossione Sicilia s.p.a. non può trovare accoglimento.

2. Tale istanza ha ad oggetto la rimessione in termini per il deposito del controricorso, pacificamente non depositato nei termini perentori previsti dall’art. 370 c.p.c..

3. Il mancato deposito del controricorso nella cancelleria della Corte nel termine di venti giorni dalla data di notificazione alla parte contro il quale esso è stato proposto, è causa di improcedibilità che deve essere rilevata d’ufficio, stante il carattere perentorio del suddetto termine (cfr. Cass. n. 1635 del 2006; Ord. n. 22914 del 2013).

4. Quanto alla rimessione in termini, ai sensi dell’art. 153 c.p.c., comma 2, essa presuppone che la istante sia incorsa nella decadenza da un’attività processuale per causa ad essa non imputabile (cfr. Cass. Ord. n. 18361 del 2018; n. 6102 del 2019).

5. Nel caso di specie, il mancato deposito del controricorso nel termine perentorio non risulta determinato da causa non imputabile alla parte controricorrente, ma anzi frutto di una specifica scelta difensiva, sicchè non ricorrono i presupposti per la rimessione in termini; nè la pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 16-septies cit., che concerne il momento in cui si perfeziona la notifica, può avere rilievo al fine di rendere non imputabile alla parte controricorrente il mancato rispetto del termine di cui all’art. 370 c.p.c. sul deposito del controricorso.

6. Col primo motivo di ricorso la A. ha dedotto omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia nonchè violazione degli artt. 2087,2043,1175 e 1375 c.c. e degli artt. 32 e 41 Cost..

7. Ha criticato la sentenza d’appello per aver omesso di dichiarare l’esistenza di una condotta datoriale vessatoria e persecutoria, integrante mobbing verticale, oggetto di espressa domanda, nonostante l’accertamento definitivo (sentenza Cass. n. 9164 del 2001) della illegittimità del licenziamento intimato e la sequenza di comportamenti ostili successivi, consistiti nella mancata reintegrazione protratta per molti anni, nella mancata corresponsione delle retribuzioni e nell’omesso versamento dei contributi previdenziali. In particolare, secondo la ricorrente, la sentenza impugnata avrebbe fondato la responsabilità datoriale sul singolo fatto illecito costituito dal ritardo nella reintegra, ignorando del tutto sia i fatti relativi all’omesso protratto pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e alle opposizioni esercitate dalla società in ogni sede e sia le valutazioni e conclusioni della c.t.u. medico legale svolta nel giudizio di appello, dati complessivamente idonei a disvelare un’azione datoriale di sistematica strategia vessatoria, incredibilmente protratta nel tempo e produttiva dei seri pregiudizi accertati. La decisione della Corte di merito risulterebbe pertanto sorretta da motivazione insufficiente e contraddittoria, oltre che adottata in violazione delle disposizioni di legge poste a tutela della salute psicofisica del lavoratore (art. 32 Cost. e art. 2087 c.c.), dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) e senza tener conto anche del profilo di responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c.).

8. Il motivo di ricorso non può trovare accoglimento.

9. La censura, che ha ad oggetto non una omessa pronuncia bensì la mancata declaratoria di una condotta di mobbing verticale, appare inammissibile per più profili. Anzitutto, perchè afferisce alla valutazione operata dalla Corte d’appello quanto alla condotta datoriale illegittima ritenuta causalmente rilevante rispetto ai danni non patrimoniali riconosciuti alla lavoratrice; nè la ricorrente ha specificato quali ulteriori voci di danno sarebbero conseguiti ai segmenti di condotta che si assumono non considerati.

10. La censura è poi inammissibile nella parte in cui denuncia il vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria, in base ai principi espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenze n. 8053 del 2014 e n. 22232 del 2016) che hanno limitato il vizio motivazionale alle ipotesi di motivazione apparente, perplessa ed obiettivamente incomprensibile, tale cioè da non rendere percepibili le ragioni della decisione, con conseguente impossibilità di controllo effettivo sull’esattezza e logicità del ragionamento del giudice; nel caso in esame la motivazione esiste e dà adeguatamente conto del percorso delle ragioni poste a base del parziale rigetto delle domande risarcitorie.

11. Anche le censure di violazione di legge risultano inammissibili per difetto di adeguata specificità, considerato che, con riferimento alla violazione e falsa applicazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il vizio va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (cfr. Cass. n. 3010 del 2012; n. 16038 del 2013; n. 25419 del 2014; n. 635 del 2015; n. 287 del 2016).

12. Nel caso di specie, la Corte di merito ha qualificato la condotta datoriale come illegittima e produttiva di danni non patrimoniali ed ha riconosciuto e liquidato tali danni in favore della lavoratrice, in conformità con i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità espressamente richiamata nella sentenza impugnata, e non sono in alcun modo desumibili dal ricorso in esame i profili di violazione o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., dell’art. 32 Cost. o dei principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.; nè la violazione di tali disposizioni può automaticamente desumersi dalla delimitazione della condotta datoriale illegittima, causalmente rilevante, alla sola ritardata reintegra nel posto di lavoro, anzichè anche al ritardato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali ed assistenziali e alla opposizione datoriale sistematica in sede giudiziaria.

13. Col secondo motivo la ricorrente ha censurato la sentenza per errato rigetto dell’invocato danno patrimoniale ed insufficiente motivazione; violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 in relazione agli artt. 2087 e 2043 c.c..

14. Ha sostenuto come la sentenza impugnata avesse ignorato il fatto certo e rilevante per cui, alla data della sentenza dichiarativa del fallimento dell’impresa di cui la A. era titolare, la somma alla medesima spettante a titolo di retribuzioni arretrate (pari ad oltre 300 milioni di Lire, risultanti dalle buste paga) era superiore alla complessiva esposizione debitoria dell’impresa, al netto delle spese della procedura. Ha precisato come erroneamente la Corte di merito avesse negato il risarcimento del danno patrimoniale subito dalla A. per i costi di assistenza giudiziale e medico legale che la stessa aveva dovuto affrontare nei ventuno procedimenti celebrati nel distretto ed espressione della sistematica opposizione giudiziale della controparte, azienda di grandi dimensioni, usata come arma per fiaccare la lavoratrice ridotta in stato di povertà.

15. Il motivo di ricorso è inammissibile quanto alla censura di motivazione insufficiente per le ragioni già esposte a proposito del primo motivo.

16. Parimenti inammissibile è la censura di omesso esame della circostanza relativa all’importo del credito per retribuzioni arretrate risultante superiore all’esposizione debitoria dell’impresa intestata alla A. e poi fallita.

17. In base al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è denunciabile per cassazione solo il vizio di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Secondo l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite sopra citate, e dalle successive pronunce conformi (cfr. Cass., 27325 del 2017; Cass., n. 9749 del 2016), l’omesso esame deve riguardare un fatto, inteso nella sua accezione storico-fenomenica, principale (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia carattere decisivo. Non solo quindi la censura non può investire argomenti o profili giuridici, ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche l’omesso esame di determinati elementi probatori.

18. Nel caso di specie, la sentenza d’appello ha espressamente escluso, anche in ragione delle “scarne allegazioni della ricorrente”, l’esistenza di un “rapporto di causalità tra il mancato pagamento delle retribuzioni, medio tempore maturate, ed il fallimento dell’impresa”, implicitamente negando rilievo al dedotto maggior importo del credito retributivo della lavoratrice rispetto all’esposizione debitoria dell’impresa. Le censure mosse col motivo di ricorso in esame, lungi dall’investire l’omesso esame di un fatto in senso storico fenomenico, si esauriscono in una critica alla valutazione compiuta nella sentenza impugnata, che rimane estranea al perimetro del citato art. 360 c.p.c., n. 5 ed è come tale inammissibile.

19. Considerazioni analoghe possono ripetersi quanto alla censura di erroneo rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale derivato dalle spese sostenute per affrontare i numerosi procedimenti avverso la società datoriale, atteso che le critiche, anche in tal caso, non investono l’omesso esame di un fatto storico bensì, in modo peraltro assai generico, la valutazione operata dalla Corte d’appello quanto al difetto di allegazioni e prove.

20. Col terzo motivo la A. ha denunciato omessa pronuncia di condanna per il danno pluridimensionale patito a causa della condotta datoriale integrante mobbing; erronea e contraddittoria individuazione del momento iniziale dell’azione lesiva; violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 per travisamento dei motivi dell’appello incidentale in relazione all’art. 112 c.p.c.; violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione all’art. 2059 c.c., per omesso riconoscimento del danno morale ed esistenziale; erronea limitazione della condanna inferta in punto di danno biologico; violazione dell’art. 116 c.p.c..

21. Ha censurato la pronuncia di secondo grado per non avere correttamente applicato gli artt. 2087 e 1218 c.c. che, a fronte della prova fornita dal lavoratore della condotta datoriale inadempiente e del nesso causale tra questa e l’evento dannoso, pongono a carico della società l’onere di dimostrare l’assenza di colpa. Ha denunciato l’errore commesso dalla Corte di merito per avere, senza adeguata motivazione, riconosciuto alla A. il risarcimento del danno conseguente alla sola ritardata reintegra nel posto di lavoro, peraltro dimezzando la liquidazione di cui alla sentenza primo grado e così sottostimando l’ammontare dei pregiudizi subiti. Ha rilevato come la sentenza avesse errato nel non riconoscere il risarcimento del danno morale e del danno esistenziale, quest’ultimo ritenuto erroneamente privo delle necessarie allegazioni invece presenti nel ricorso introduttivo di primo grado (trascritte a pag. 18 del ricorso per cassazione), oltre che indubitabilmente provato; nè la personalizzazione operata dalla Corte di merito secondo il criterio proporzionalistico tabellare può considerarsi adeguata tenuto conto della omessa liquidazione del danno morale, della intensa sofferenza interiore patita dalla lavoratrice, della sua enorme durata nel tempo ed entità, come confermato dalla consulenza medico legale. La ricorrente ha censurato la liquidazione del danno biologico effettuata dalla Corte territoriale in base alla valutazione espressa dal c.t.u. nominato in primo grado; ha rilevato l’erroneità del riferimento contenuto nella sentenza d’appello ai “limiti dell’appello incidentale” in quanto il fatto che a pag. 9 della comparsa di costituzione con appello incidentale fosse riportato l’ammontare economico del danno biologico calcolato in base all’esito della c.t.u. svolta in primo grado non poteva considerarsi indicativo, tenuto conto del complessivo tenore dell’appello incidentale, della rinuncia e/o del limite della domanda risarcitoria per danno biologico, anzi formulata nel ricorso introduttivo per la somma di Euro 619.748,28 e nella memoria conclusiva del giudizio di appello per la somma di Euro 146.303,00. Ha affermato come la c.t.u. svolta in secondo grado, in quanto volta anche ad accertare il nesso causale tra il mancato svolgimento dell’attività lavorativa ed il danno biologico, avesse carattere percipiente e costituisse, come tale, fonte diretta di prova.

22. Tutte queste censure oggetto del terzo motivo di ricorso sono inammissibili o infondate e non possono trovare accoglimento.

23. Pur prescindendo dal difetto di specificità della denuncia di violazione di legge, deve rilevarsi come la Corte d’appello abbia giudicato illegittima e causativa di danni la condotta datoriale di ritardata reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro, ribadendo il diritto di ciascun dipendente all’esecuzione della prestazione lavorativa ed il correlato obbligo datoriale, ed ha applicato correttamente le disposizioni di cui agli artt. 2087 e 1218 c.c..

24. Nella liquidazione del danno non patrimoniale derivato dalla suddetta condotta (“danni che sarebbero stati facilmente evitabili proprio attraverso un pronto adempimento del provvedimento di reintegrazione nel posto di lavoro”, pag. 21 della sentenza impugnata), la Corte territoriale si è conformata all’orientamento consolidato di legittimità, richiamando espressamente la pronuncia delle Sezioni Unite n. 26972 del 2008 e considerando incluse nella categoria del danno non patrimoniale le voci di danno biologico, morale ed esistenziale. Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha ritenuto dimostrato, oltre al danno alla salute psicofisica, comprensivo della “situazione di stress e perdita di fiducia…attestata dalla documentazione medica e dalle relazioni di consulenza”, una componente di danno definibile come “morale” per la “situazione di ulteriore mortificazione e compromissione della dignità della persona della lavoratrice così privata, nonostante l’ordine giudiziale, della possibilità di reinserirsi prontamente nel mondo lavorativo…con l’evidente rischio anche di un logoramento della professionalità acquisita”. Ha escluso, per difetto di allegazioni e prove, la voce di danno esistenziale. Ha proceduto alla liquidazione del danno biologico utilizzando le tabelle del tribunale di Milano, a cui questa Corte ha riconosciuto la valenza di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno non patrimoniale alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c. (cfr. Cass. n. 20895 del 2015; n. 9950 del 2017; n. 11754 del 2018), ed ha applicato, ai fini del computo del danno morale, un aumento equitativo della quantificazione del danno biologico, in termini di cd. personalizzazione, attraverso i meccanismi tabellari (cfr. Cass. n. 11754 del 2018), evidentemente non rilevando specificità tali da consigliare o imporre lo scostamento dai tali valori standard di “personalizzazione” del danno forfettariamente individuato (Cass. n. 3505 del 2016; n. 21939 del 2017; n. 2788 del 2019).

25. La censura avanzata nel ricorso, di omessa liquidazione del danno morale, risulta pertanto infondata e risultano inammissibili in questa sede di legittimità le critiche mosse sia alla statuizione della sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto priva di adeguate allegazioni e prove la domanda di risarcimento del danno esistenziale e sia la quantificazione del danno operata dalla sentenza di secondo grado, con conseguente inconfigurabilità della dedotta violazione dell’art. 2059 c.c..

26. Quanto al risarcimento del danno biologico, deve rilevarsi come nella comparsa di costituzione contenente appello incidentale, la lavoratrice avesse chiesto la condanna della società al “risarcimento dei danni non patrimoniali, complessivamente pari a Euro 800.461,83, di cui Euro 39.022,72 per danno biologico…”, calcolato in base alle tabelle del tribunale di Milano, tenuto conto di una lesione della integrità psicofisica nella misura del 16 % accertata dal c.t.u. nominato in primo grado.

27. L’appello incidentale conteneva quindi specifiche indicazioni quantitative sull’entità del danno biologico oggetto della domanda risarcitoria, senza alcuna richiesta di liquidazione di somme anche maggiori o minori risultanti da un eventuale diverso accertamento.

28. Questa Corte ha già precisato (Cass. n. 2078 del 2002; n. 3593 del 2010; n. 16450 del 2012) come nel giudizio di risarcimento del danno derivante da fatto illecito, costituisce violazione della regola della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c., il prescindere, travalicandole, dalle specifiche indicazioni quantitative della parte in ordine a ciascuna delle voci di danno elencate in domanda, salvo che tali indicazioni non siano da ritenere – in base ad apprezzamento di fatto concernente l’interpretazione della domanda e censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizio di motivazione – meramente indicative (come sarebbe lecito concludere allorchè la parte, pur dopo l’indicazione, chieda comunque che il danno sia liquidato secondo giustizia ed equità).

29. Non vi è spazio quindi per ritenere che l’interpretazione data dalla Corte di merito al motivo di appello abbia determinato la violazione dell’art. 112 c.p.c., sub specie di omessa pronuncia. Neppure ricorre la violazione dell’art. 116 c.p.c. non solo perchè la c.t.u. anche percipiente non è qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, in quanto unicamente volta ad aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze (cfr. Cass. n. 6155 del 2009; n. 20695 del 2013), ma in ragione della invalicabilità dei limiti dell’appello incidentale, come correttamente ritenuto nella sentenza impugnata.

30. Col quarto motivo la ricorrente ha dedotto erronea pronuncia in punto di liquidazione delle spese giudiziali; violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.; insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione.

31. Ha sostenuto come il giudizio di primo grado avesse avuto esito vittorioso per la lavoratrice e la riduzione in appello delle somme riconosciute alla predetta non potesse costituire presupposto della soccombenza, in assenza peraltro di indicazione di giusti motivi per disporre la compensazione.

32. Anche questo motivo è infondato. La Corte ha compensato parzialmente le spese di entrambi i gradi “in base all’esito complessivo della lite”, quindi valutando la misura della vittoria della ricorrente, ed ha correttamente posto le spese residue a carico della società. Ciò in conformità ai principi enunciati da questa Corte secondo cui in caso di accoglimento parziale del gravame, il giudice di appello può compensare, in tutto o in parte, le spese, ma non anche porle, per il residuo, a carico della parte risultata comunque vittoriosa, sebbene in misura inferiore a quella stabilita in primo grado, posto che il principio della soccombenza va applicato tenendo conto dell’esito complessivo della lite (Cass. Ord. n. 20894 del 2014; Ord. n. 19122 del 2015).

33. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.

34. La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, dovendosi tener conto, ai fini della liquidazione, dell’attività difensiva nell’interesse della società svolta solo nella discussione alla pubblica udienza.

35. Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228 art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 1.000,00 per compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2019

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