Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25689 del 14/12/2016


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Cassazione civile, sez. trib., 14/12/2016, (ud. 21/11/2016, dep.14/12/2016),  n. 25689

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21702/2012 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

ATL GROUP SPA, incorporante della Soc. TRE ELLE SPA in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA

VIA ASIAGO 8, presso lo studio dell’avvocato MICHELE AURELI,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANNA RITA DANZA, giusta delega

a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 54/2011 della COMM. TRIB. REG. di BOLOGNA,

depositata il 27/06/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/11/2016 dal Consigliere Dott. MARCO MARULLI;

udito per il ricorrente l’Avvocato GAROFOLI che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato DANZA che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

AUGUSTINIS Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del 1^ motivo

di ricorso e il rigetto dei restanti.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1.1. A seguito di una verifica fiscale a carattere generale l’ufficio di Forlì dell’Agenzia delle Entrate provvedeva a rettificare i redditi imponibili della Tre Erre s.p.a., poi incorporata dalla ATL Group s.p.a., società esercente l’attività di poltronificio per conto del gruppo Roche Bobois, recuperando a tassazione per l’anno 2004, tra l’altro, spese erroneamente ritenute di pubblicità e non di rappresentanza, spese di consulenza in favore della ISD Software, nonchè l’IVA indebitamente detratta in relazione a prestazioni di progettazione da parte della società La Squadra.

La CTR – attinta, con appello principale, dalla contribuente, tra l’altro, con riguardo alle sanzioni irrogate in relazione al recupero delle spese ritenute di pubblicità e non di rappresentanza e, con appello incidentale, dell’Agenzia soccombente riguardo alle riprese in punto di spese di consulenza e di IVA – con la sentenza in esame ha accolto il gravame di parte osservando, quanto alle sanzioni, che esse debbono essere disapplicate “dovendosi ammettere che le soluzioni interpretative adottate al tempo della rilevazione fiscale-contabile non erano certamente univoche” ed ha respinto quello del fisco sul rilievo che le spese di consulenza “risultano da idonea documentazione allegata dalla parte già in primo grado e supportate da un contratto sottoscritto dalla società cedente e dalla Tre Erre”, mentre il recupero dell’IVA deve ritenersi “non adeguatamente supportata da elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti” in ragione dei rapporti societari intercorrenti tra le parti e della circostanza che il rapporto era proseguito tra le stesse sulla base di accordi verbali.

1.2. Avverso detta decisione ricorre ora l’Agenzia delle Entrate con un ricorso affidato a tre motivi.

Ad essi resiste la contribuente con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

2.1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia lamenta l’errore di diritto in cui è incorso il giudice d’appello nell’applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8 e D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, in quanto, contrariamente a ciò che è stato affermato nella specie, “la disapplicazione delle sanzioni può conseguire solo a seguito di una valutazione di obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione di una norma fiscale” che “deve collegarsi ad una caratteristica intrinseca ed obiettiva del dato normativo derivanti da elementi positivi di confusione”, che nella specie, peraltro, la ricorrente non era stata in grado di dimostrare con la conseguenza che non potevano perciò ritenersi sussistenti le condizioni per la disapplicazione delle sanzioni.

2.2 Il motivo è fondato.

2.3. Com’è noto il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8 e D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2 – il primo ribadendo un precetto già accolto nella precedente disciplina del contenzioso tributario (D.P.R. n. 739 del 1981, art. 26), il secondo dando attuazione alla delega di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 133, inteso ad estendere al campo delle sanzioni tributarie non penali il principio della scusabilità dell’errore inevitabile enunciato dalla Corte Cost. 364/88 con riferimento all’art. 5 c.p. -, ai quali si potrebbe aggiungere, ancorchè il motivo non vi faccia cenno, l’analogo precetto consacrato da ultimo in ordine di tempo dalla L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3 – che lo ha elevato a principio generale dell’ordinamento tributario – hanno attribuito valenza esimente, escludendo l’applicabilità delle sanzioni o riconoscendo in esso una speciale causa di non punibilità, all’errore sulla norma tributaria che ricorre quando la violazione di essa sia giustificata “da obiettive condizione di incertezza sulla portata e sull’ambito applicativo delle disposizioni alle quali si riferisce”.

La giurisprudenza di questa Corte ha già da tempo chiarito, riguardo alla esimente in parola, che “per incertezza normativa oggettiva deve intendersi la situazione giuridica oggettiva caratterizzata dalla impossibilità, esistente in sè ed accertata dal giudice, di individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione del caso di specie” (26030/15; 17250/14; 8825/12), traendone il corollario che, in quanto ontologicamente correlata alla normazione ed in quanto dunque esistente in sè, l’incertezza normativa rilevante deve tradursi nell’impossibilità di stipulare una convenzione interpretativa delle norme, con la conseguente necessità dell’intervento autoritativo del giudice, prescinde perciò da ogni condizione individuale in quanto essa non è rapportabile ad un singolo soggetto e neppure ad una classe di soggetti, ma all’ordinamento giuridico cui appartiene la normazione da interpretare ed è di regola evincibile attraverso una serie di fatti indice, che spetta al giudice accertare e valutare nel loro valore indicativo (19638/09; 7765/08; 24670/07). Nel solco di questo indirizzo e, segnatamente, con riguardo all’ultimo giudizio espresso, si è fatta strada la convinzione che sia onere di chi deduca lo stato di oggettiva incertezza normativa intendendo avvalersi della speciale esimente accordata dall’ordinamento tributario sul piano sanzionatorio indicare, nel vasto catalogo dei fatti sintomatici che spaziano dalla difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge all’oscurità della formula dichiarativa della norma giuridica, dalla mancanza di informazioni amministrative o dalla loro contraddittorietà alla formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti e così via discorrendo (17250/14; 4394/14; 24670/07), in quali termini lo stato di incertezza venga a manifestarsi, precisando in particolare in che misura i detti fatti indice, ove le norme siano fatte oggetto di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, evidenzino risultati tra loro contrastanti e non compatibili (7765/08). Se in difetto di ciò l’allegazione in punto di incertezza normativa è fonte solo di una doglianza generica e perciò non statuibile, specularmente un onere analogo la Corte ha ritenuto di dover accollare anche in capo a chi ricorra avverso la pronuncia che la doglianza invece accolga e sciolga il contribuente dal peso delle sanzioni, affermando così che “la deduzione, in sede di legittimità, della violazione delle norme che attribuiscono rilievo all’incertezza normativa, quale causa di esclusione della sanzione (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8, comma 1; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, comma 2; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3), postula, ai fini dell’ammissibilità del motivo d’impugnazione, l’indicazione da parte del ricorrente dei procedimenti d’interpretazione normativa adottati e delle norme contrastanti che ne hanno costituito i risultati” (19638/09); e “tuttavia”, ha osservato ancora la Corte nell’occasione “quando il giudice di merito abbia omesso qualsiasi motivazione per giustificare la sua decisione di accertamento dell’incertezza normativa oggettiva, la denuncia della violazione delle norme regolative del fenomeno è sufficientemente e fondatamente esposta con l’indicazione della norma di diritto lesa”.

2.4. Su queste premesse è dunque agevole riconoscere l’errore di diritto in cui è incorso il giudice di seconde cure allorchè, pur condividendo la qualificazione in termini di spese di rappresentanza operata dall’ufficio e confermando dunque la legittimità della relativa ripresa, ha creduto tuttavia di poter disporre la disapplicazione delle sanzioni irrogate – nella specie sulla base di un giudizio che, in ragione della sua laconicità, risulta puramente assertivo – giacchè il fatto all’uopo ritenuto decisivo in quanto “le soluzioni interpretative adottate al tempo della rilevazione fiscale-contabile non erano certamente univoche” concreta un’affermazione generica e non adeguatamente motivata in rapporto agli indici fattuali in grado di palesare un obiettivo stato di incertezza normativa. Sarebbe stato per vero preciso dovere del collegio giudicante d’appello, investito della questione, procedere al loro scrutinio secondo la rappresentazione fattane dal deducente e, all’esito di questa operazione, dare debita contezza del modo in cui il rilevato contrasto interpretativo – che per essere ragione di obiettiva incertezza in ordine alla portata e all’ambito applicativo della norma tributaria non può risolversi nella mera allegazione di una difficoltà di ricognizione della fattispecie – sia fonte di un’incertezza normativa utilmente invocabile in chiave scriminante.

Non averlo fatto rende la pronuncia irrita e ne giustifica perciò la cassazione.

3.1. Il secondo motivo del ricorso erariale fa leva sul vizio di insufficiente motivazione che inficia il pronunciamento d’appello in punto di spese di consulenza, vero che, malgrado le contrarie affermazioni operate al riguardo dal giudice territoriale, “il contratto” da questi menzionato “è nient’altro che una mera offerta non controfirmata per accettazione”, che l’espletamento della prestazione non è dimostrato neppure dalle relazioni a firma D. atteso che sulle stesse “non compare una data di trasmissione, nè risultano allegati report di invio a mezzo telefax elementi che soli permetterebbero di attribuire loro una data certa” e che dalle dichiarazioni rese dal medesimo D. alla polizia tributaria “si evince che le prestazioni in questione sono state meramente progettate e/o previste”, ma non anche realmente effettuate.

3.2 Il motivo è fondato.

Ricordato in breve che il vizio di insufficiente motivazione ricorre allorchè dal compendio giustificativo che accompagna la decisione sia evincibile un’obiettiva carenza nell’iter logico-argomentativo che ha condotto il giudice a regolare la vicenda al suo esame in base alla regola concretamene applicata, nella specie è palese l’error in indicando in cui è caduto il giudice d’appello, constando invero dalla riproduzione del “contratto” valorizzato in chiave decisoria dal giudicante – a cui ha proceduto la ricorrente ai fini dell’autosufficienza del motivo di ricorso – che esso, lungi dal recare una sottoscrizione vincolante, contiene una semplice profferta di collaborazione, sicchè, una volta che questa circostanza, rettamente apprezzata, fosse stata correlata alle citate dichiarazioni del D. – che nei termini ancora riprodotti dalla ricorrente evocano l’idea di una collaborazione solo in fieri – l’iter decisionale avrebbe dovuto descrivere con più ponderazione il processo cognitivo attraverso il quale la CTR è passato dalla situazione di iniziale ignoranza dei fatti alla situazione, sanzionata con la decisione, costituente il necessario contenuto “dinamico” della dichiarazione motivazionale.

4.1. Con il terzo motivo di ricorso l’Agenzia ribadisce il vizio di insufficiente motivazione con cui il giudice d’appello ha inteso respingere il gravame riguardo l’IVA, atteso che, contrariamente a quanto ancora affermato dal decidente, risultava in modo chiaro dagli atti del giudizio che il contratto “non era più in essere dal giugno 2003”, che “non vi erano pendenze economiche tra le stesse, in relazione al suddetto contratto risolto” e che “la fattura emessa nel 2004 aveva ad oggetto proprio una prestazioni ricollegata al medesimo contratto risolto”.

4.2. Il motivo è infondato.

Come ha già precisato la giurisprudenza in ordine al vizio di insufficiente motivazione, che si è sopra ricordata, il vizio in parola non ricorre e ne va perciò esclusa la sindacabilità da parte di questa Corte quando, in luogo di rappresentare un’anomalia nello sviluppo logico-argomentativo del ragionamento motivazionale, esso si risolva nel denunciare una difformità della decisione rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice agli elementi delibati, in quanto in tal modo il motivo di ricorso si risolve in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione.

A tanto invero mira la deducente con il motivo in ricorso, atteso che esso non racchiude alcuna pertinente ragione di critica sotto il profilo motivazionale alla decisione impugnata, nè tantomeno evidenzia una lacunosità nel complessivo ragionamento decisorio svolto dal giudice di appello tale che ne possa risultarne compromessa la linearità e la consequenzialità logico-giuridica, dal momento che il convincimento da questi espresso riposa sui medesimi elementi di giudizio già rappresentati dall’Agenzia all’atto della ripresa prima e nel corso del giudizio poi (la pretesa contraddittorietà tra risoluzione del contratto e l’asserita continuità del rapporto), che il giudice d’appello, rispetto all’auspicio della deducente ha solo apprezzato in modo discorde e ciò non già in forza di un arbitrario potere postulazione, ma nell’esercizio del potere che compete al giudice di merito – e a lui solo – di interpretare le risultanze probatorie sottoposte al suo giudizio secondo il suo prudente apprezzamento. Non c’è dunque alcuno spazio per un intervento correttivo della Corte ove il ragionamento decisorio sviluppato dal giudice di merito a supporto della decisione sia, come qui, congruamente motivato ed immune da vizi logici.

5. Vanno dunque accolti i primi due motivi di ricorso, mentre va rigettato il terzo.

La sentenza andrà conseguentemente cassata e la causa andrà rinviata a mente dell’art. 383 c.p.c., comma 1, per il necessario proseguimento ai sensi degli artt. 392 c.p.c. e segg., avanti al giudice territoriale competente.

PQM

La Corte Suprema di Cassazione:

accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso, rigetta il terzo motivo di ricorso, cassa l’impugnata sentenza nei limiti dei motivi accolti e rinvia la causa avanti alla CTR Emilia Romagna che, in altra composizione, provvederà pure alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 21 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2016

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