Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25681 del 01/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 01/12/2011, (ud. 20/10/2011, dep. 01/12/2011), n.25681

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30580-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato SIGILLO’ MASSARA GIUSEPPE, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.M., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

TARQUINIA 5/D presso lo studio degli avvocati RIOMMI MAURIZIO e

MICHELI CARLO (Studio Avv.to FALLA TRELLA MARIA LUISA), che la

rappresentano e difendono, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 431/2007 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 14/06/2007 R.G.N. 1022/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/10/2011 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega SIGILLO’ MASSARA GIUSEPPE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario che ha concluso per inammissibilità del secondo e terzo

motivo, rigetto del primo motivo del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Perugia dichiarava la nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro stipulato tra M. M. e la società Poste Italiane in data 12 ottobre 1998 ex art. 8 del c.c.n.l. 1994 e successivi accordi sindacali; l’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato da tale data, condannando la società Poste al pagamento delle retribuzioni dalla costituzione in mora. La Corte d’appello di Perugia, con sentenza depositata il 14 giugno 2007, respingeva i gravame proposto dalla società Poste. Quest’ultima propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, poi illustrati con memoria.

Resiste la M. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata della sentenza.

1 – Con il primo motivo la società Poste denuncia violazione dell’art. 1372 c.c., nonchè insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, relativamente alla eccepita risoluzione del rapporto per mutuo consenso, valutato l’apprezzabile lasso di tempo tra la risoluzione del rapporto e la manifestazione di una volontà impugnatoria da parte del lavoratore.

Il motivo risulta infondato.

Ed invero secondo il consolidato orientamento di questa Corte (cfr.

da ultimo Cass. 11 marzo 2011 n. 5887), ai fini della configurabilità della risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso (costituente una eccezione in senso stretto, Cass. 7 maggio 2009 n. 10526, il cui onere della prova grava evidentemente sull’eccepiente, Cass. l’febbraio 2010 n. 2279), non è di per sè sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo l’impugnazione del licenziamento, o il semplice ritardo nell’esercizio dei suoi diritti, essendo piuttosto necessario che sia fornita la prova di altre significative circostanze denotanti una chiara e certa volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo (Cass. 15 novembre 2010 n. 23057), prova nella specie neppure indicata.

2. – Con il secondo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23; dell’art. 1362 e segg. c.c. nonchè omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, lamentando che la corte di merito, in contrasto con le norme richiamate, non considerò adeguatamente che con la delega contenuta nel citato art. 23, le parti sociali erano libere di individuare nuove e diverse ipotesi di assunzione a tempo determinato, senza altri limiti se non quello dell’osservanza di un limite percentuale dei lavoratori da assumere, sicchè le pattuizioni collettive erano sottratte dal sindacato giurisdizionale, e segnatamente in ordine all’esistenza di un nesso causale tra le ragioni di assunzione e la singola stipula del contratto a tempo determinato.

Lamentava inoltre che i giudici di merito non avevano adeguatamente considerato che nessun limite temporale, sino all’entrata in vigore del D.Lgs n. 368 del 2001, poteva essere imposto alle pattuizioni sindacali delegate.

3 – Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata, infatti, non ha ritenuto le pattuizioni collettive, in tema di individuazione di nuove ipotesi di contratto a tempo determinato L. n. 56 del 1987, ex art. 23 soggette ai requisiti di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1 ma solo che esse avessero inteso prevedere un limite temporale alle specifiche esigenze organizzative legittimanti le assunzioni a termine di cui al c.c.n.l.

26 novembre 1994 e successivi accordi integrativi. L’assunto risulta assolutamente rispettoso dell’autonomia negoziale collettiva, che, pur delegata alla individuazione di nuove ipotesi di assunzione a tempo determinato, non si sottrae ai principi generali dell’ordinamento in materia di sindacato giurisdizionale. Come efficacemente chiarito da Cass. 9 aprile 2008 n. 9259 e quindi da Cass. 28 ottobre 2010 n. 22015, la L. n. 56 del 1987, art. 23 nel consentire alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi rispetto a quelle previste dalla L. n. 230 del 1962, non impone di fissare contrattualmente dei limiti temporali alla facoltà di assumere lavoratori a tempo determinato, ma, ove un limite sia stato invece previsto, la sua inosservanza determina la illegittimità del termine apposto.

Quanto alla efficacia temporale degli accordi intervenuti all’interno della società Poste, la decisione impugnata risulta assolutamente in linea col consolidato orientamento di questa Corte (ex plurimis, Cass. 9 giugno 2006 n. 13458, Cass. 20 gennaio 2006 n. 1074, Cass. 3 febbraio 2006 n. 2345, Cass. 2 marzo 2006 n. 4603), secondo cui dall’esame dei vari accordi in materia si evince che le parti sociali autorizzarono la stipula di contratti a tempo determinato per le causali di cui all’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, sino al 30 aprile 1998. Le considerazioni che precedono sono idonee a sorreggere il rigetto delle altre censure.

3. – Con il terzo motivo la ricorrente denuncia omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nonchè violazione della regola iuris riconducibile all’art. 2697 c.c. in materia di risarcimento del danno, la cui prova graverebbe sul lavoratore, e da cui andrebbe comunque detratto l’aliunde perceptum.

Ad illustrazione del motivo formulava il seguente quesito di diritto:

“Dica la Corte se in caso di domanda di risarcimento danni proposta dal lavoratore a seguito dell’intervenuto scioglimento del rapporto di lavoro determinatosi per effetto dell’iniziativa del datore fondata su clausola risolutiva contrattuale nulla, rimane a carico dello stesso lavoratore, in qualità di attore, l’onere di allegare e di provare il danno da “scioglimento del rapporto di lavoro fondato su clausola risolutiva contrattuale nulla” e tale danno può equivalere alle retribuzioni perdute detratto l’aliunde perceptum a causa della mancata esecuzione delle prestazioni lavorative, ma presuppone che queste siano state offerte dal lavoratore e che il datore le abbia illegittimamente rifiutate. Dica la Corte se il risarcimento è da escludersi ove si accerti che il danno del lavoratore (derivante dalla perdita della retribuzione) si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti (cd. aliunde perceptum) per prestazioni lavorative svolte nel periodo considerato presso altri datori di lavoro”.

Il quesito di diritto, che delimita necessariamente il perimetro della decisione della Corte (Cass. sez. un. 9 marzo 2009 n. 5624), risulta inammissibile, essendo del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dal giudice di merito, limitandosi a richiamare i principi vigenti in materia, in contrasto col consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui la funzione propria del quesito di diritto è di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito (e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare), Cass. 7 aprile 2009 n. 8463.

5. Considerato che la censura inerente le conseguenze patrimoniali dell’accertata illegittimità del contratto è risultata inammissibile, parimenti inammissibile risulta la richiesta, contenuta nella memoria ex art. 378 c.p.c., di applicazione dello ius superveniens costituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7.

Ed invero va evidenziato che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici e rituali motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070). Tale condizione non sussiste nella fattispecie.

6. – Il ricorso deve pertanto rigettarsi.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 40,00, Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2011

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