Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25679 del 14/12/2016


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Cassazione civile, sez. trib., 14/12/2016, (ud. 28/10/2016, dep.14/12/2016),  n. 25679

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 18248/2011 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, entrambi

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

M.D. E C.G., rappresentati e difesi dall’Avv.

B.F.M. del Foro di Firenze ed elettivamente

domiciliati in Roma, Via Vigliena, n. 2, presso lo studio dell’Avv.

Mario Di Biagio, giusta procura margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Toscana, n. 49/1/2010, depositata il 21/5/2010.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28

ottobre 2016 dal Relatore Cons. Dott. Emilio Iannello;

udito l’Avv. Rossana Tebaidi per i controricorrenti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico, il quale ha concluso per l’accoglimento.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. M.D., titolare dell’omonima impresa di produzione di borse e pelletteria, e C.G. impugnavano con distinti ricorsi avanti la C.T.P. di Firenze i tre avvisi di accertamento con i quali l’Ufficio aveva rettificato i redditi d’impresa dichiarati per il 1991, il 1992 e il 1993, elevandoli, rispettivamente, da Lire 46.357.000 a Lire 725.620.000, da Lire 57.935,000 a Lire 541.255.000 e da Lire 16.240.000 a Lire 726.742.000. Gli accertamenti erano scaturiti: a) da indagini bancarie condotte sui conti correnti del M., della C. nonchè su quello di una loro dipendente (con delega, peraltro, in favore del M.), da cui erano risultate operazioni attive e passive non contabilizzate, che i contribuenti non erano riusciti a dimostrare non inerenti all’attività d’impresa del M.; b) dal riscontro di costi registrati, in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, prima della vidimazione del libro giornale.

I ricorsi, riuniti, erano accolti dalla adita C.T.P. con sentenza confermata in grado d’appello dalla C.T.R della Toscana.

I giudici di appello, in particolare, ritennero l’illegittimità delle riprese basate sulle risultanze dei conti correnti, considerando che, in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, l’ufficio: 1) non aveva convocato il M. e gli altri intestatari dei conti oggetto di verifica, per dare loro la possibilità di giustificare le movimentazioni avvenute sui conti medesimi; 2) non aveva redatto verbale apposito; 3) non aveva consegnato copia di detto verbale agli interessati.

Ritennero, inoltre, l’illegittimità dei recuperi relativi ai costi contabilizzati in ritardo, in quanto questi erano stati registrati nel libro giornale vidimato, seguivano l’ordine cronologico e il ritardo nell’annotazione non superava i dieci giorni sicchè rientrava nel termine più ampio (60 giorni) consentito dalla legge.

2. Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate che veniva accolto dalla Suprema Corte, con sentenza n. 10964 del 14/5/2007, la quale cassava quindi la decisione impugnata con rinvio al giudice a quo.

2.1. La Corte ha in particolare ritenuto fondati i primi due motivi di ricorso – con i quali l’Agenzia si doleva, per violazione di legge e vizio di motivazione, della ritenuta illegittimità della determinazione di maggiori ricavi sulla base dei movimenti dei conti correnti bancari in disponibilità del contribuente – rilevando, per quanto ancora in questa sede interessa, che: a) “l’utilizzazione da parte dell’Amministrazione finanziaria dei movimenti dei conti correnti bancari in disponibilità del contribuente, a fine di accertamento (tanto delle imposte dirette quanto dell’Iva), è legittima, anche in assenza di preventiva convocazione dell’interessato al fine di consentirgli di giustificare le operazioni bancarie oggetto di verifica, giacchè nessuna norma impone detta convocazione (cfr. Cass. 16597/03, 6335/02, 10278/00, 11094/99)”; b) “il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2, come reso palese dal loro tenore letterale e come confermato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 18851/03, 6232/03, 8422/02, 10662/01, 9946/00), pongono una presunzione legale, ancorchè semplice, in forza della quale, i versamenti su conto corrente bancario – in assenza di prova contraria del contribuente, che attesti la loro inerenza all’imponibile dichiarato ovvero ad operazioni non imponibili – si presumono rappresentativi di corrispettivi imponibili in forza di una vincolante valutazione legislativa”.

2.2. Ha ritenuto altresì fondato, nei sensi come appresso precisati, il terzo motivo con il quale l’Amministrazione finanziaria deduceva “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia”, in relazione al capo della sentenza che aveva ritenuto illegittima la ripresa dei costi reputati registrati in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22.

Premesso che la ripresa era fondata, non sulla tardiva registrazione delle operazioni (poichè esse risultavano eseguite nei prescritti sessanta giorni), bensì sull’avvenuta annotazione delle operazioni medesime sul libro giornale in epoca antecedente alla sua vidimazione, in violazione dell’art. 2215 c.c., pure richiamato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, ha osservato al riguardo la Corte che “la sanzione dell’indeducibilità dei costi irregolarmente registrati, pur non contemplata nella previsione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, era sancita dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 6, poi, tuttavia, retroattivamente abrogato dal D.P.R. n. 695 del 1996, art. 5. Tale abrogazione, peraltro, non ha comportato l’automatica deducibilità dei costi registrati in violazione del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22 e art. 2215 c.c. (una volta assolutamente indeducibili in forza della previsione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 6), bensì – non incidendo sull’ordinario criterio della ripartizione dell’onere della prova – l’effetto, più limitato, di ammettere il contribuente alla prova dei costi suddetti (in precedenza radicalmente preclusa), anche con mezzi diversi dalle scritture contabili, purchè costituenti elementi certi e precisi, come prescritto dell’art. 75, comma 4 (Cass. 18000/06, 4218/06, 10090/02)”.

3. Pronunciando in sede di rinvio, la C.T.R. della Toscana, con la sentenza in epigrafe, nuovamente rigettando l’appello dell’ufficio, ha confermato la decisione di primo grado, compensando interamente le spese.

3.1. Secondo i giudici di rinvio, infatti, con riferimento alla rettifica operata ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, il principio affermato dalla S.C. giustificava bensì la cassazione della sentenza di secondo grado che si era espressa in modo difforme, ma non poteva indurre anche alla riforma della sentenza di primo grado poichè questa “al contrario esprime un concetto conforme a quanto affermato dalla Suprema Corte”. Rimarcavano al riguardo che i giudici di primo grado avevano ritenuto che, nel caso de quo: 1) le presunzioni su cui si è basato l’Ufficio non fossero gravi, precise e concordanti, in quanto non trovavano alcun riscontro significativo in risultanze extracontabili; 2) i ricorrenti avevano fornito la giustificazione, a contrario, di gran parte dei movimenti bancari e la ricostruzione operata non è stata contestata dall’Ufficio; 3) quanto al conto della dipendente P., chiuso nell’anno 1991, nè la Guardia di Finanza nè l’Ufficio II.DD. avevano inspiegabilmente verificato il fondamento delle affermazioni della sua titolare secondo cui essa aveva utilizzato il conto per altro operatore estraneo alla ditta M., cosa questa che sminuisce notevolmente il valore indiziario della circostanza. Sul punto i giudici a quibus ritenevano conclusivamente dirimente che la C.T.P. avesse valutato le dette operazioni “estranee alla ditta M.”

3.2. Analogamente, quanto alla ripresa dei costi registrati in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, il giudice di rinvio affermava di “condividere la sentenza di primo grado”, ritenendo che la stessa si esprimesse “in modo ben diverso” da quella, cassata, di secondo grado.

Sulla scorta quindi delle condivise motivazioni della sentenza di primo grado, osservava in particolare la C.T.R. che:

– le registrazioni effettuate rispettano l’ordine cronologico, il libro giornale è stato bollato prima dell’uso e le registrazioni sono antecedenti alla bollatura di soli 10 giorni per cui non vi è ritardo nelle registrazioni, avendosi tempo per le stesse di sessanta giorni;

– in ogni caso, lo spirito e le finalità della legge non sono state eluse e non vi è stata evasione d’imposta;

– l’Ufficio non ha mosso contestazioni sull’effettività dei costi, basando la ripresa esclusivamente sul rilievo che la relativa registrazione era stata effettuata su un libro giornale non vidimato.

Quest’ultima, secondo i giudici a quibus, costituisce però mera “irregolarità formale” che di per sè “non può comportare il recupero a tassazione delle spese sostenute e non contestate”.

4. Avverso tale decisione l’Agenzia delle entrate propone ricorso sulla base di sette motivi, cui resistono i contribuenti, depositando controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate denuncia violazione dell’art. 394 c.p.c.; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 53 e 63, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la C.T.R.: a) effettuato un sindacato di compatibilità della decisione di primo grado rispetto ai principi di diritto enunciati nella sentenza di cassazione, anzichè pronunciarsi sulla fondatezza dei motivi d’appello alla luce dei principi medesimi; b) ritenuto che fosse onere dell’amministrazione riproporre, nell’atto di riassunzione, tutte le censure già formulate nell’atto d’appello.

5. Con il secondo e terzo motivo la ricorrente denuncia – alternativamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 o 4 – violazione dell’art. 384 c.p.c.; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 63; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, art. 33 e art. 39, comma 1, lett. d, per avere la C.T.R. negato valore di presunzioni gravi, precise e concordanti, a base della determinazione induttiva dei maggiori ricavi, alle risultanze dei conti bancari, e ciò in ragione del mancato riconoscimento al contribuente della possibilità di fornire la prova contraria nel corso della fase c.d. amministrativa e della mancanza di riscontri nella documentazione extracontabile, così violando il principio di diritto – diametralmente opposto – affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza che ha disposto il rinvio.

6. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 2697, 2727 e 2728 c.c.; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, art. 33 e art. 39, comma 1 lett. d, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. applicato, con riferimento al medesimo tema di lite suindicato, una regula iuris contrastante: a) con il chiaro tenore delle suddette disposizioni; b) con il pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia; c) con il contenuto inequivoco del principio di diritto enunciato dalla S.C. nella sentenza che ha cassata con rinvio la decisione dei giudici d’appello.

7. Con il quinto motivo l’Agenzia delle entrate denuncia, sui medesimi punti, anche vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere ritenuto che, con riferimento al conto intestato alla dipendente P., la Guardia di Finanza avesse omesso di verificare il fondamento delle affermazioni della stessa circa l’utilizzo del conto nell’interesse di altro operatore estraneo alla ditta M.. Richiama al riguardo quanto in senso contrario specificamente evidenziato nel p.v.c. posto a base dell’accertamento, nonchè nell’atto d’appello e nell’atto di riassunzione.

8. Con il sesto e settimo motivo la ricorrente deduce – alternativamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 o 4 – violazione dell’art. 384 c.p.c.; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 63; D.P.R 29 settembre 1973, n. 600, art. 22, comma 1; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, per avere la C.T.R., con riferimento alla ripresa dei costi registrati in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22: a) attribuito alla contestazione formulata al riguardo dall’ufficio un contenuto diverso da quello accertato dal giudice di legittimità; b) disatteso l’oggetto dell’accertamento ad essa demandato dalla Cassazione, che era quello di verificare se fosse stata offerta o meno dai contribuenti prova dei costi suddetti, con mezzi diversi dalle scritture contabili ma costituenti comunque elementi certi e precisi, come prescritto dell’art. 75, comma 4 T.U.I.R. (testo ante riforma).

9. E’ infondata l’eccezione preliminarmente opposta dai controricorrenti di inammissibilità del ricorso perchè proposto per ministero dell’Avvocatura dello Stato in difetto di jus postulandi per mancanza di preventiva procura scritta.

Va al riguardo rammentato che, dopo la costituzione, avvenuta in data 1 gennaio 2001 (D.M. 28 dicembre 2000, art. 1), delle agenzie fiscali, alle quali sono trasferiti i rapporti giuridici relativi alla gestione delle funzioni esercitate dai dipartimenti delle entrate (D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57), dette agenzie, per la rappresentanza in giudizio, possono avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi dell’art. 43 T.U. approvato con R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 e successive modificazioni (cit. D.Lgs. n. n. 300 del 1999, art. 72). In base alla disposizione richiamata (T.U. n. 1611 del 1933, art. 43), l’Avvocatura dello Stato può assumere la rappresentanza e la difesa nei giudizi attivi e passivi avanti le Autorità giudiziarie, di amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati, sottoposti a tutela od anche a sola vigilanza dello Stato, sempre che sia autorizzata (per quel che qui interessa) da disposizione di legge: in tali casi, la rappresentanza e la difesa sono assunte dall’Avvocatura dello Stato in via organica ed esclusiva, eccettuati i casi di conflitto d’interessi con lo Stato o con le regioni, fatta salva la facoltà di tali amministrazioni, in casi speciali, di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato, adottando a tal fine apposita motivata delibera da sottoporre agli organi di vigilanza. Nella fattispecie, dunque, non si richiedeva una speciale autorizzazione, nè si allega che sarebbe intervenuta un’apposita motivata delibera per escludere la rappresentanza dell’Avvocatura dello Stato (cfr. Cass., Sez. 5, n. 12152 del 09/06/2005, Rv. 581261; Sez. 5, n. 7329 del 13/05/2003, Rv. 562972).

Nemmeno era richiesto il conferimento di apposita procura, essendo applicabile a tale ipotesi la disposizione del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 1, comma 2, secondo il quale gli avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni e non hanno bisogno di mandato (v. Cass., Sez. U, n. 23020 del 15/11/2005, Rv. 586486; conf. Sez. 5, n. 3427 del 12/02/2010, Rv. 611687; Sez. 5, n. 11227 del 16/05/2007, Rv. 598575).

10. Sono fondati il secondo e il terzo motivo di ricorso, di rilievo preliminare e congiuntamente esaminabili in quanto, in realtà, veicolanti una medesima e unica censura, non potendo costituire motivo di differenziazione l’alternativa sussunzione della stessa alle previsioni di cui al n. 3 o al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., qualificazione comunque non vincolante per la Corte (v. Cass., Sez. U, n. 17931 del 24/07/2013, Rv. 627268).

Come evidenziato nella sentenza impugnata, la C.T.P. di Firenze aveva accolto il ricorso introduttivo, ritenendo che:

1) le presunzioni su cui si è basato l’Ufficio per la determinazione presuntiva di maggiori ricavi non fossero gravi, precise e concordanti, in quanto non trovavano alcun riscontro significativo in risultanze extracontabili;

2) i ricorrenti avevano fornito la giustificazione, a contrario, di gran parte dei movimenti bancari e la ricostruzione operata non è stata contestata dall’Ufficio;

3) la Guardia di Finanza e l’Ufficio avevano omesso di verificare il fondamento delle affermazioni della dipendente P. secondo cui la stessa aveva utilizzato il conto a lei intestato per altro operatore estraneo alla ditta M.;

4) dette operazioni erano comunque estranee alla ditta M..

Queste essendo le rationes decidendi, in parte qua, della decisione di primo grado, l’affermazione contenuta nella sentenza qui impugnata del giudice di rinvio – che l’ha confermata pienamente adagiandosi alle ivi espresse motivazioni – secondo cui esse applicherebbero una regula iuris conforme ai principi affermati dalla Suprema Corte, si appalesa erronea e frutto di una lettura monca e distorta di quest’ultima.

10.1. In particolare, l’affermazione sopra riassunta al punto 1), postulando l’insufficienza delle presunzioni ricavabili dai movimenti bancari e la necessità che le stesse trovassero “riscontro significativo in risultanze extracontabili”, esprime all’evidenza una regola di giudizio esattamente opposta al principio espresso dalla Corte secondo cui “il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2, come reso palese dal loro tenore letterale e come confermato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 18851/03, 6232/03, 8422/02, 10662/01, 9946/00), pongono una presunzione lega/e, ancorchè semplice, in forza della quale, i versamenti su conto corrente bancario – in assenza di prova contraria del contribuente, che attesti la loro inerenza all’imponibile dichiarato ovvero ad operazioni non imponibili – si presumono rappresentativi di corrispettivi imponibili in forza di una vincolante valutazione legislativa”, con la conseguenza – è appena il caso di chiosare – che le movimentazioni dei conti correnti possono anche da sole giustificare la presunzione di maggiori ricavi, senza necessità di ulteriori riscontri contabili, salvo prova contraria del contribuente che ne dimostri una diversa causale.

10.2. Analogamente è a dirsi quanto all’affermazione di cui al pt. 2), secondo cui sarebbe da ritenere sufficiente, nel caso in esame, l’avere – i contribuenti – “fornito la giustificazione… di gran parte dei movimenti bancari.

Va anzitutto rilevato al riguardo che la frase (propriamente, frase complessa o periodo) “i contribuenti hanno fornito la giustificazione, a contrario, di gran parte dei movimenti bancari e la ricostruzione operata non è stata contestata dall’ufficio” (contenuta nella sentenza di primo grado e testualmente ripresa e fatta propria, senza alcuna sottrazione o aggiunta, in quella del giudice di rinvio), diversamente da quanto sostenuto dai controricorrenti (secondo cui essa attesterebbe che i contribuenti hanno fornito “la prova” della riferibilità dei movimenti a causali diverse da quelle presunte dall’ufficio), non è altrimenti interpretabile se non come riferita ad una attività (dei contribuenti) meramente assertiva, ovvero di mera allegazione della esistenza di una giustificazione dei movimenti bancari contraria alla presunzione operata dall’ufficio, non invece probatoria. Ciò sia perchè è questo il significato proprio delle parole usate (e, del resto, nè il giudice di primo grado, nè quello di rinvio, fanno al riguardo menzione, neppure generica, di prove offerte dai contribuenti), sia perchè non altro senso può darsi alla seconda proposizione (“la ricostruzione operata non è stata contestata dall’ufficio”) che, coordinata con la prima per il tramite della congiunzione “e”, concorre a comporre il periodo con determinante contributo di significato, se non quello – nella prospettiva dei giudici di merito – di consentire di acquisire a fondamento della decisione detta allegazione (ossia l’avere i contribuenti “fornito la giustificazione”) senza necessità di una conferma probatoria, proprio perchè, a sollevare i contribuenti dal relativo onere, varrebbe, secondo la C.T.R., la mancata contestazione da parte dell’ufficio.

Tale ragionamento, però, non può ritenersi giuridicamente corretto.

Occorre infatti rammentare che il principio di non contestazione (in astratto non estraneo nemmeno al processo tributario) opera sul piano della prova, cosicchè nel processo tributario esso non elide l’operatività dell’altro principio – operante sul piano dell’allegazione e collegato alla specialità del contenzioso tributario – secondo cui la mancata presa di posizione dell’Ufficio sui motivi di opposizione alla pretesa impositiva svolti dal contribuente non equivale ad ammissione delle affermazioni che tali motivi sostanziano, nè determina il restringimento del thema decidendum ai soli motivi contestati, posto che la richiesta di rigetto dell’intera domanda del contribuente consente all’Ufficio impositore, qualora le questioni da quello dedotte in via principale siano state rigettate, di scegliere, nel prosieguo del giudizio, le diverse argomentazioni difensive da opporre alle domande subordinate avversarie (v. Sez. 5, n. 13834 del 18/06/2014, Rv. 631297; Id., n. 7789 del 03/04/2006, Rv. 590424).

Anche in tale passaggio argomentativo è dunque ravvisabile una patente violazione del principio di diritto affermato nella sentenza di cassazione con rinvio, la quale al contrario ha stabilito che, a fronte delle presunzioni validamente ricavabili dai movimenti bancari, il contribuente è gravato da uno specifico onere di prova contraria (e non dunque di mera allegazione).

Principio, questo, che, oltre e prima ancora che essere conforme a consolidata interpretazione giurisprudenziale del dato normativo, costituiva comunque regola del caso concreto vincolante per il giudice di rinvio.

La violazione della stessa nei termini detti da parte della C.T.R. costituisce dunque error in procedendo (per palese inosservanza dell’art. 384 c.p.c., comma 2: v. Sez. L, n. 6461 del 25/03/2005, Rv. 580271) e deve condurre all’accoglimento della detta censura.

Rimangono conseguentemente assorbiti assorbiti il primo e il quarto motivo.

11. Non incorrono invece in tale vizio le concorrenti affermazioni sopra riassunte ai punti 3) e 4), le quali esprimono la valutazione, di merito, secondo cui quanto dichiarato dalla dipendente P. consentirebbe di ritenere dimostrata la riferibilità del conto a lei intestato a soggetto estraneo alla ditta M..

Tale ratio decidendi – solo concorrente con le altre sopra viste, in quanto riguardante solo uno dei conti esaminati – non postula una inversione dell’onere della prova e, dunque, non può dirsi in contrasto con il principio di diritto affermato nella sentenza che ha disposto il rinvio, ma si espone alla censura di vizio motivazionale dedotta con il quinto motivo di ricorso, il quale si appalesa fondato e merita anch’esso accoglimento.

Le riferite affermazioni si risolvono, invero, in una immotivata valutazione di inidoneità degli elementi posti a base dell’accertamento a dimostrare la riferibilità ai contribuenti del conto intestato alla dipendente P., senza però alcun concreto riferimento agli elementi considerati che consenta di apprezzare la congruenza di tale valutazione e il percorso logico seguito per giungere ad essa.

E’ costante giurisprudenza di questa Corte che ricorre il vizio di insufficiente motivazione ove il giudice non indichi gli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento ovvero il criterio logico che lo ha guidato. Il giudice deve delineare il percorso logico seguito, descrivendo il legame tra gli elementi interni determinanti che conducono necessariamente ed esclusivamente alla decisione adottata; mentre deve escludere, attraverso adeguata critica, la rilevanza di ogni elemento esterno al percorso logico seguito, di natura materiale, logica o processuale, ed astrattamente idoneo a delineare conseguenze divergenti dall’adottata decisione (v. ex multis, Cass. Sez. L, n. 11198 del 12/11/1997, Rv. 509810).

Tale onere non risulta nella specie in alcuna misura assolto, avendo la C.T.R. omesso di indicare gli elementi posti a base delle esposte conclusioni: omissione tanto più rilevante e apprezzabile nella specie a fronte degli specifici elementi di valutazione indicati dall’ufficio, in astratto certamente rilevanti ai fini della valutazione da compiere e riferiti in ricorso (pagg. 34-35) con l’indicazione altresì delle fonti di prova e della rispettiva collocazione negli atti processuali (in assolvimento dunque dell’onere di autosufficienza).

12. Sono fondati anche il sesto e settimo motivo di ricorso, anch’essi espressivi di un’unica medesima censura e, quindi, congiuntamente esaminabili.

La ripresa dei costi registrati in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, è stata ritenuta illegittima dal giudice di rinvio essenzialmente sulla base della considerazione secondo cui il rilievo dell’ufficio riguardava una mera irregolarità formale (registrazione dei costi effettuata su un libro giornale non vidimato), di per sè non comportante il recupero a tassazione, e non anche l’effettività dei costi medesimi.

Non può dubitarsi che una tale ratio decidendi decampa totalmente dai limiti segnati dalla sentenza che ha disposto il rinvio, che aveva demandato al giudice di merito di rivalutare la fattispecie, quanto al profilo in esame, alla luce del principio di diritto secondo cui “in tema di accertamento delle imposte sui redditi ed in merito alla deducibilità di costi di impresa non regolarmente registrati ai sensi dell’art. 2215 c.c., l’abrogazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 6, ad opera del D.P.R. n. 695 del 1996, art. 5, non comporta l’automatica deducibilità dei costi suddetti, ma, non incidendo sull’ordinario criterio di distribuzione dell’onere della prova, soltanto la possibilità, prima assolutamente preclusa al contribuente, di provarli anche con mezzi diversi dalle scritture contabili, purchè rispondenti ai requisiti di cui al quarto comma del citato art. 75”.

Tale principio infatti postulava, quale implicita ma univoca premessa in fatto, da ritenersi acquisita e non più rivedibile in sede di rinvio, che anche l’effettività dei costi fosse contestata dall’ufficio e del resto tale contestazione è ovviamente implicita nella ripresa a tassazione dei medesimi.

Anche in questo caso, dunque, la C.T.R. postulando una mancata contestazione dell’ufficio circa l’effettività dei costi de quibus e, in ragione di essa, la non necessità per i contribuenti di darne la prova, incorre, per le medesime ragioni già esposte in precedenza (v. supra par. 10.2), nella denunciata violazione del principio di diritto affermato nella sentenza di cassazione con rinvio che al contrario demandava al giudice di rinvio di valutare se tale prova fosse stata oppure no offerta dai contribuenti “anche con mezzi diversi dalle scritture contabili, purchè rispondenti ai requisiti di cui al quarto comma del citato art. 75 (T.U.I.R., testo ante riforma, n.d.r.)”.

13. In accoglimento del ricorso la sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio alla C.T.R. della Toscana, in diversa composizione, perchè proceda a nuova valutazione della fattispecie facendo applicazione dei principi affermati nella precedente sentenza di questa Corte che, totalmente disattesi per le ragioni dette dal giudice a quo, non possono ovviamente che essere pienamente ribaditi in questa sede.

PQM

La Corte accoglie il secondo, terzo, quinto, sesto e settimo motivo di ricorso; dichiara assorbiti il primo e il quarto; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità, alla C.T.R. della Toscana, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 28 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2016

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