Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25656 del 22/09/2021

Cassazione civile sez. VI, 22/09/2021, (ud. 27/04/2021, dep. 22/09/2021), n.25656

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17869-2019 proposto da:

BPER BANCA SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo

studio dell’avvocato FEDERICA SANDULLE, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

M.S.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 935/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 31/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 27/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. FALABELLA

MASSIMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Il Tribunale di Foggia rigettava le domande proposte da M.S. (titolare di un contratto di conto corrente con apertura di credito) nei confronti di Banca Popolare della Campania s.p.a., cui è subentrata, a seguito di fusione per incorporazione, Banca Popolare dell’Emilia Romagna Società Cooperativa: il predetto M. aveva domandato in giudizio sia l’accertamento della nullità delle disposizioni contrattuali relative agli interessi ultralegali, alla capitalizzazione degli interessi debitori e alla commissione di massimo scoperto, che la condanna della controparte alla restituzione delle somme che, in ragione delle nominate nullità, dovevano ritenersi indebitamente riscosse.

2. – In sede di gravame era accolto l’appello principale di M. e respinto quello incidentale della banca. Questa era quindi condannata alla ripetizione della somma di Euro 43.330,55.

3. – Avverso la pronuncia resa dalla Corte di appello di Bari il 31 maggio 2018, la Banca Popolare dell’Emilia Romagna ha proposto un ricorso per cassazione basato su due motivi, illustrato da memoria. M., intimato, non ha svolto difese.

Il Collegio ha autorizzato la redazione della presente ordinanza in forma semplificata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 116,183 c.p.c. e art. 2697 c.c.. Deduce in sintesi la ricorrente che, al fine di ottenere la declaratoria di nullità delle clausole contrattuali e della illegittimità dei versamenti posti in essere in esecuzione di tali disposizioni negoziali, il correntista sarebbe stato onerato di produrre i contratti di conto corrente e tutti gli estratti conto dal momento iniziale del rapporto.

Con secondo mezzo di censura la banca istante lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.. Assume che l’onere probatorio di controparte non avrebbe potuto ritenersi assolto con la semplice allegazione dell’insussistenza di un contratto concluso in forma scritta.

2. – I due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente per la connessione che presentano, sono infondati.

La Corte di merito ha evidenziato che il contratto di conto corrente risultava essere stato concluso prima dell’entrata in vigore della L. n. 154 del 1993 e del D.Lgs. n. 385 del 1993: ha precisato che, pur non soggiacendo il negozio, all’epoca del suo perfezionamento, all’obbligo della forma scritta, la pattuizione, in esso, degli interessi ultralegali andava documentata, giusta l’art. 1284 c.c.. Quanto all’anatocismo, la Corte distrettuale ha rilevato che lo stesso doveva ritenersi vietato, sicché l’applicazione della capitalizzazione nel periodo di vigenza del contratto (estintosi nel 1995) era illegittima. Ha poi osservato che la commissione di massimo scoperto era da considerarsi non dovuta, dal momento che la clausola relativa risultava priva di causa e carente di determinatezza.

Ora, il problema della prova del contratto di conto corrente non si pone avendo riguardo alla pratica dell’anatocismo: e ciò in quanto, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 2000, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 76 Cost., il D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25, comma 3, il quale aveva fatto salva, fino all’entrata in vigore della delib. CICR di cui al medesimo D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25, comma 2, la validità e l’efficacia delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, siffatte clausole sono disciplinate – secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo – dalla normativa anteriormente in vigore e, quindi, sono da considerare sempre nulle in quanto stipulate in violazione dell’art. 1283, c.c., perché basate su un uso negoziale, anziché su un uso normativo (Cass. Sez. U. 4 novembre 2004, n. 21095; dalla sentenza non risulta, del resto, che nel corso del giudizio di merito si sia fatta questione di una capitalizzazione attuata dopo la delib. CICR 9 febbraio 2000 e, anzi, come si è visto, la Corte di merito ha rilevato che il rapporto tra le parti si esaurì nel 1995). In conclusione, la capitalizzazione degli interessi passivi doveva essere eliminata, quale che fosse il preciso contenuto delle disposizioni pattizie, giacché il contratto non avrebbe potuto validamente contemplarla. In materia di anatocismo può reputarsi allora corretto quanto affermato dalla Corte di appello circa il rilievo che concretamente assume, ai fini della prova del fatto costitutivo del diritto fatto valere, il concreto addebito delle somme (nella specie: interessi capitalizzati) non dovute.

Diverse considerazioni si impongono per gli interessi ultralegali, giacché essi non sono vietati in senso assoluto, potendo essere convenuti contrattualmente, ma devono esserlo per iscritto, a pena di nullità, a mente della L. n. 154 del 1992, artt. 3 e 4 e art. 117 t.u.b., oltre che in base alla disposizione di cui all’art. 1284 c.c., comma 3, nel periodo anteriore alla vigenza della disciplina introdotta dalle citate norme della legge sulla trasparenza bancaria e del testo unico bancario (nella fattispecie si fa questione di un contratto che, era in vita nel 1990 – cfr. pag. 6 della sentenza -, allorquando le richiamate disposizioni speciali non erano state ancora emanate). Ciò posto, ove sia pacifica l’esistenza del contratto scritto, compete sicuramente al correntista dimostrare, attraverso la produzione del documento negoziale, che in esso era stata convenuta la misura ultralegale degli interessi: un tale esito è rispondente all’onere, in capo all’attore in ripetizione, di provare l’inesistenza della causa giustificativa dei pagamenti effettuati mediante la produzione del contratto; è infatti proprio attraverso tale documento che si può dimostrare l’assenza della disposizione atta a giustificare l’addebito dell’interesse ultralegale (cfr. Cass. 13 dicembre 2019, n. 33009). E’ possibile, però che, all’opposto, risulti pacifica la conclusione verbis tantum o per fatti concludenti del contratto: in tal caso il giudice dovrà dare senz’altro atto dell’assenza di clausole che, per non essere state redatte per iscritto, rendono priva di giustificazione l’applicazione degli interessi ultralegali.

E’ quanto si è verificato nel presente giudizio. La Corte di merito ha difatti evidenziato che, da un lato, il correntista aveva nella sostanza prospettato l’assenza di una convenzione scritta (da mancanza di sottoscrizione di pattuizioni scritte”: cfr. pag. 7 della sentenza impugnata) e che, dall’altro, detta allegazione non era stata tempestivamente contestata dalla banca. Alla stregua di quanto sopra osservato, dunque, l’odierno intimato non era tenuto a provare alcunché con riguardo alla pattuizione intercorsa in punto di interessi e il giudice del merito ebbe rettamente a rilevare la nullità della pattuizione avente ad oggetto gli interessi ultralegali.

Quanto, poi, alla clausola relativa alla commissione di massimo scoperto, la Corte di merito ne ha dichiarato la nullità per ragioni che non sono direttamente incise dal motivo di censura: sicché, sul punto, nulla deva aggiungersi.

E’ da disattendere, da ultimo, la doglianza sollevata con riguardo agli estratti conto: e ciò in quanto la mancanza della documentazione relativa alle inziali movimentazioni del rapporto non impone affatto di rigettare la domanda di ripetizione del correntista. In particolare, si manifesta corretto il criterio adottato dalla Corte di appello, che ha ricostruito il rapporto muovendo dal “saldo passivo intermedio” (così a pag. 9 la sentenza impugnata) e cioè dal primo saldo documentato, che era a debito del cliente (Cass. 2 maggio 2019, n. 11543).

3. – Il ricorso è respinto.

4. – Nulla deve statuirsi in punto di spese.

P.Q.M.

La Corte

rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6a Sezione Civile, il 27 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2021

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