Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25650 del 13/11/2020

Cassazione civile sez. VI, 13/11/2020, (ud. 22/09/2020, dep. 13/11/2020), n.25650

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosaria – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23716-2018 proposto da:

K.A.K., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR

presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato PAOLA CHIANDOTTO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 322/2018 della CORTE D’APPELLO di TRII:STE,

depositata il 29/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 22/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. LAURA

TRICOMI.

 

Fatto

RITENUTO

che:

La Corte di appello di Trieste, con la sentenza pubblicata il 29/6/2018 in epigrafe indicata, ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione internazionale presentata da K.A.K., proveniente dal Ghana. Questi ha proposto ricorso per cassazione il 27/7/2018 con tre mezzi; il Ministero dell’Interno ha replicato con controricorso corroborato da memoria, a seguito di rinnovazione della notifica del ricorso.

Sono stati ritenuti sussistenti i presupposti per la trattazione camerale ex art. 380 bis c.p.c.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Il Collegio, in diverso avviso rispetto alla proposta formulata, ritiene che il ricorso debba essere rigettato.

2. Con il primo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,7,8,11 e 12, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e/o l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione alla domanda di riconoscimento dello status di rifugiato politico, criticando la ravvisata non verosimiglianza delle dichiarazioni rese dal richiedente e lamentando che l’esame delle domande del richiedente non era avvenuto previa acquisizione e considerazione di informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale esistente nel Ghana, nell’assolvimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria posto in capo alle autorità decidenti.

Il motivo concerne il mancato riconoscimento nei fatti narrati di indici di persecuzione, idonei a giustificare il riconoscimento della protezione richiesta ed è infondato.

Come già affermato da questa Corte, “Requisito essenziale per il riconoscimento dello “status” di rifugiato è il fondato timore di persecuzione “personale e diretta” nel Paese d’origine del richiedente a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza a un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate; il relativo onere probatorio che riceve un’attenuazione in funzione dell’intensità della persecuzione – incombe sull’istante, per il quale è tuttavia sufficiente dimostrare, anche in via indiziaria, la “credibilità” dei fatti allegati, i quali, peraltro, devono avere carattere di precisione, gravità e concordanza.” (Cass. n. 30969 del 27/11/2019; Cass. n. 14157 del 11/07/2016).

Nel caso in esame, la Corte di appello ha rimarcato che la vicenda narrata (timori per la propria incolumità, sorti a seguito dell’uccisione del padre – che svolgeva le funzioni di capo villaggio – in concomitanza con la necessità di scegliere il suo successore nonostante l’ostilità di altre famiglie del villaggio stesso), anche ove veritiera, non assumeva le connotazioni per il riconoscimento della protezione internazionale, andandosi a iscrivere in una controversia di natura privata ed avendo ottenuto il ricorrente protezione e tutela dalle forze dell’ordine.

La censura non risulta calibrata sulla decisione e, senza nemmeno puntualmente contestare quanto accertato in fatto dal giudice del merito, appare intesa a promuovere una rivisitazione dell’apprezzamento compiuto dal decidente di merito, nell’auspicio che una nuova interpretazione dei dati salienti della vicenda possa condurre ad un esito conclusivo del giudizio più favorevole.

3. Con il secondo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 14 e 17, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e/o per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione alla domanda di protezione sussidiaria; segnatamente si duole che la Corte territoriale abbia considerato la situazione generale del Paese e non quella del suo villaggio di origine; critica inoltre la valutazione delle informazioni socio/politiche sul Ghana fornite dal Ministero dell’Interno, a suo parere non corretta.

Il motivo, concernente il diniego della protezione sussidiaria, è infondato.

Va confermato il principio secondo il quale “Ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia.” (Cass. n. 18306 del 08/07/2019).

Orbene, la statuizione impugnata, laddove afferma che il Ghana è una democrazia funzionante e che la situazione politica risulta stabile, mediante il riferimento alle “informazioni assunte” (fol. 7) risponde agli enunciati principi e la doglianza non smentisce l’avvenuta acquisizione delle fonti internazionali accreditate, ma ne contesta l’interpretazione al fine di rafforzare la tesi in merito alla rilevanza delle vicende vissute dal richiedente nel villaggio di origine, sollecitando così una impropria revisione del merito.

4. Con il terzo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e/o l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Questa doglianza è rivolta al mancato riconoscimento della protezione umanitaria: a dire del ricorrente non sarebbe stato valutato che egli nel Paese di origine non aveva più beni e che la sua permanenza in Italia da alcuni anni era implicitamente sintomatica di integrazione sociale.

Il motivo è inammissibile.

Va osservato che anche la eventuale valutazione di credibilità del racconto del richiedente non è sufficiente per il riconoscimento della protezione per ragioni umanitarie in assenza della prova dell’integrazione sociale in Italia: è del tutto evidente che in assenza di questa prova – come da accertamento di merito, che il ricorrente non smentisce – non esiste alcuna possibilità di comparazione tra la situazione in cui aveva vissuto prima dell’allontanamento e quella presente (Cass. n. 4455 del 23/2/2018, in motivazione), dovendosi apprezzare la situazione particolare del singolo soggetto e non quella del suo Paese d’origine in termini generali ed astratti.

Risulta peraltro errata la prospettazione difensiva secondo la quale la prolungata permanenza in Italia, sarebbe di per sè implicitamente sintomatica dell’integrazione sociale: la valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria – sia sotto il profilo delle condizioni di vulnerabilità, che dell’integrazione sociale – deve infatti riguardare specifici elementi legati alla vicenda personale del richiedente da apprezzare nella sua individualità e concretezza (Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

5. In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo a carico del ricorrente.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass. S.U. n. 23535 del 20/9/2019).

PQM

– Rigetta il ricorso;

– Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.500,00=, oltre spese prenotate a debito;

– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2020

 

 

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