Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25649 del 27/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 27/10/2017, (ud. 10/05/2017, dep.27/10/2017),  n. 25649

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16997/2015 proposto da:

CIODUE ITALIA S.P.A, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. PAOLUCCI DE

CALBOLI 1, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA CIASCHI, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TEVERE,

15, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO IMBRIANO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOIA SACCONI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1268/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 14/04/2015 R.G.N. 778/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/05/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato STEFANIA CIASCHI;

udito l’Avvocato MAURIZIO IMBRIANO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza pubblicata il 14.4.15 la Corte d’appello di Roma rigettava il gravame di Ciodue Italia S.p.A. contro la sentenza n. 508/13 con cui il Tribunale di Rieti, annullato il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo il 27.4.09 dalla società a C.G., la aveva condannata a reintegrare il dipendente nel suo posto di lavoro, con le conseguenze economiche di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, nonchè a pagargli l’ulteriore risarcimento del danno non patrimoniale patito per effetto del licenziamento illegittimo, danno da liquidarsi in separata sede.

2. Per la cassazione della sentenza ricorre Ciodue Italia S.p.A. affidandosi a quattro motivi.

3. C.G. resiste con controricorso.

4. Le parti depositano memoria ex art. 378 c.p.c..

5. Con atto del 3.5.17 si è costituito ulteriore difensore – l’avv. Maurizio Imbriano – in aggiunta all’avv. Gioia Sacconi per il controricorrente.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1 Il primo motivo denuncia violazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5 e dell’art. 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto che l’appello della società non avesse coinvolto anche la statuizione di prime cure secondo la quale Ciodue Italia S.p.A. avrebbe dovuto dimostrare l’impossibilità di adibire C.G. a mansioni inferiori a quelle sue proprie (vale a dire a mansioni inferiori a quelle di 2^ livello, c.c.n.l. settore commercio): obietta, invece, la ricorrente che l’atto d’appello conteneva specifica e argomentata censura a riguardo; inoltre, prosegue il ricorso, non risponde al vero che in epoca prossima al licenziamento de quo fosse stato assunto altro lavoratore adibito alle stesse mansioni del C. o che fossero stati assunti altri lavoratori addetti a mansioni impiegatizie, trattandosi – in realtà – di lavoratori assunti in pianta non stabile, in ruoli diversi e comunque molto tempo dopo il licenziamento per cui è causa; prosegue, ancora, il ricorso con il negare che la prova dell’impossibilità del repechage debba riguardare tutte le sedi o gli uffici della società, dovendosi invece limitare alle sole deduzioni del lavoratore; inoltre, erroneamente i giudici di merito avevano sopravvalutato il tenore del colloquio avvenuto il 4.3.09 tra l’allora amministratore delegato della società ( Ci.) e il C., in cui il primo aveva confidato al secondo che il licenziamento avveniva per ragioni diverse da quelle esplicitate e che la società aveva già assunto un altro lavoratore per adibirlo alle stesse mansioni (cioè quelle di tecnico informatico) espletate dal C..

1.2. Il secondo motivo prospetta violazione della L. n. 604 del 1966, art. 2 e dell’art. 41 Cost., nella parte in cui la sentenza impugnata ha erroneamente ricostruito travisando il senso delle deposizioni assunte – la ragione tecnico-organizzativa posta a base del licenziamento, vale a dire l’esternalizzazione del servizio informatico cui era adibito il C.; prosegue il ricorso con il segnalare l’irrilevanza del tenore del colloquio fra il Ci. e il C., perchè le antipatie aziendali verso l’odierno controricorrente (“non ti sopporta più nessuno”) potevano – al più – costituire solo un motivo ulteriore (come tale irrilevante e comunque non ritorsivo o discriminatorio) rispetto al giustificato motivo oggettivo dedotto dalla società.

1.3. Con il terzo motivo ci si duole di violazione e falsa applicazione degli artt. 2,4 e 32 Cost. e dell’art. 2087 c.c., nella parte in cui i giudici di merito hanno ritenuto il licenziamento de quo come ingiurioso (o persecutorio o vessatorio) e, quindi, tale da arrecare il danno non patrimoniale per cui è stata emessa sentenza di condanna in via generica: obietta la ricorrente che il licenziamento era stato qualificato, in altra parte della sentenza, come pretestuoso, il che non giustificava la condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali, ammissibile solo a fronte di licenziamento ingiurioso; tale non era – prosegue il ricorso – il recesso intimato dalla società, essendo il carattere ingiurioso riferibile alle modalità di intimazione del recesso e non alla ritenuta insussistenza della relativa ragione dedotta a suo fondamento; sempre nell’ambito dello stesso motivo di censura si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e art. 112 c.p.c., per avere la Corte territoriale trascurato che l’onere della prova del carattere ingiurioso del licenziamento incombeva sul lavoratore e che l’atto introduttivo di lite non aveva mai neppure allegato il carattere ingiurioso del licenziamento de quo, ma soltanto la sua pretestuosità.

1.4. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1375 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., per avere i giudici di merito rigettato la domanda riconvenzionale della società negando che all’esito dell’istruttoria fosse emersa la prova d’un blocco operativo del sistema informatico aziendale per avere C.G. omesso di comunicare le password di accesso ai programmi, nonostante che la prova dell’illegittimo rifiuto opposto dal lavoratore emergesse dai documenti in atti e dalle stesse ammissioni dell’odierno controricorrente.

2.1. I primi due motivi – da esaminarsi congiuntamente perchè connessi – sono da rigettarsi.

La sentenza impugnata ha accertato in punto di fatto che il sistema informatico la cui esternalizzazione avrebbe integrato il giustificato motivo oggettivo dedotto dalla società, sistema che era gestito dall’odierno controricorrente, continuò ad essere utilizzato in azienda sino alla fine del 2010-inizi del 2011, vale a dire fino a quasi due anni dopo il licenziamento per cui è causa.

Ciò vuol dire che, secondo i giudici di merito, è risultata smentita quella improcrastinabile riorganizzazione del servizio addotta come motivo di licenziamento.

E, come è noto, il giustificato motivo oggettivo di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3, deve essere valutato sulla base degli elementi di fatto realmente esistenti al momento della comunicazione del recesso e non su circostanze future ed eventuali (giurisprudenza costante: cfr., ex aliis, Cass. n. 12261/03; Cass. n. 6363/2000; Cass. 5301/2000; Cass. n. 10616/97; Cass. n. 7263/96; Cass. n. 603/96; Cass. n. 1970/92).

Sempre in punto di fatto è stato altresì accertato che appena poco prima del licenziamento la società aveva assunto un altro dipendente da adibire allo stesso lavoro cui era addetto C.G. e che l’amministratore delegato della società, nel summenzionato colloquio del 4.3.09, aveva espressamente detto al controricorrente che lo avrebbe licenziato perchè nessuno lo sopportava più in azienda (“Te lo dico io, nessuno ti sopporta più… Tu non vai d’accordo con le persone responsabili di questa azienda”), così come gli si era rivolto dicendogli “… io di motivazioni (del licenziamento: n.d.r.) te ne trovo quante ne vuoi… ” o, ancora, sfidandolo con il dire che “L’importanza… è questa e che noi andiamo davanti a un Giudice, portiamo venti testimoni, tutti testimoni dell’Azienda, tutti testimoniano che ha combinato qualcosa e tutti testimoniano che hai fatto qualche cosa, cioè che non vanno d’accordo con te”.

Le obiezioni mosse in ricorso, ad onta dei richiami normativi in esso contenuti, sostanzialmente sollecitano una rivisitazione nel merito della vicenda e delle risultanze processuali affinchè se ne fornisca un diverso apprezzamento.

Si tratta di operazione non consentita in sede di legittimità.

Tali censure non possono nemmeno intendersi come deduzione di omesso esame di fatti decisivi, trattandosi di doglianza a monte non consentita dall’art. 348-ter c.p.c., commi 4 e 5, essendosi in presenza di doppia pronuncia conforme di merito basata sulle medesime ragioni di fatto in punto di illegittimità del licenziamento.

Inoltre, tecnicamente il colloquio fra le parti descritto in sentenza integra confessione extragiudiziale resa alla controparte e, in quanto tale, costituisce prova legale ai sensi del combinato disposto dell’art. 2735 c.c., comma 1, primo periodo e art. 2733 c.c..

Nè si dica che il carattere illecito del licenziamento emerso (anche) dal colloquio del 4.3.09 fra il Ci. e il C. costituirebbe un mero motivo determinante, ma non esclusivo del licenziamento (nell’ottica del previgente testo della L. n. 300 del 1970, art. 18: la nuova versione, come risultante dalla L. n. 92 del 2012, ammette l’illiceità del licenziamento anche quando illecito sia un motivo determinante, ma non anche unico): i giudici di merito hanno accertato l’esatto contrario, ossia che la ragione riorganizzativa dedotta nella lettera di licenziamento era meramente pretestuosa perchè smentita dalle risultanze in atti.

A questo punto, una volta accertata in punto di fatto l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo, risulta vano ogni altro discorso circa l’idoneità, nell’atto d’appello, della confutazione delle argomentazioni del Tribunale in ordine alla possibilità o meno d’un repèchage del lavoratore licenziato, così come è vano interrogarsi sui relativi oneri di allegazione e prova, poichè in tanto si può discutere di possibilità o meno d’un repèchage (e dei relativi oneri di allegazione) in quanto la ragione tecnico-organizzativa si sia rivelata reale (il che, invece, nel caso in oggetto è stato positivamente escluso dai giudici di merito).

2.2. Il terzo motivo di ricorso va disatteso perchè fuori centro.

La sentenza impugnata ha ritenuto non tanto ingiurioso, quanto persecutorio e vessatorio il licenziamento intimato e ne ha altresì positivamente accertato l’idoneità lesiva sul piano non patrimoniale, demandando ad altro separato giudizio la verifica in concreto di an e di quantum debeatur in termini risarcitori, il che è conforme alla giurisprudenza di questa S.C., che ammette la condanna in via generica basata sulla mera potenzialità lesiva della condotta accertata, restando salva nel giudizio di liquidazione del quantum la possibilità di escludere l’esistenza di un danno eziologicamente conseguente al fatto illecito (cfr. Cass. n. 23429/14; Cass. n. 15595/14; Cass. n. 11953/95; Cass. n. 2059/83).

In tal modo i giudici di merito si sono altresì attenuti alla costante giurisprudenza di questa S.C. secondo la quale nel regime di tutela reale della L. 20 maggio 1970, n. 300, ex art. 18 (nel testo ratione temporis applicabile, anteriore alla modifica apportata con L. 28 giugno 2012, n. 92), il danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, cagionato dalla perdita del lavoro e della retribuzione, è una conseguenza soltanto mediata ed indiretta (e, quindi, non fisiologica e non prevedibile) del recesso datoriale e, pertanto, non è risarcibile a meno che non ricorra l’ipotesi del licenziamento ingiurioso oppure persecutorio o vessatorio (quest’ultimo è il caso ravvisato dalla sentenza impugnata), trovando la sua causa immediata e diretta non nella perdita del posto di lavoro, bensì nel comportamento intrinsecamente illegittimo del datore di lavoro (cfr. Cass. n. 5730/14; Cass. n. 6845/10; Cass. n. 5927/08).

2.3. Il quarto motivo di ricorso va rigettato perchè anch’esso scivola sul piano dell’accertamento di merito, in sostanza sollecitando un nuovo apprezzamento del materiale istruttorio in atti, il che esula dai compiti di questa Corte Suprema.

3.1. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare in favore del controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2017

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