Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25648 del 22/09/2021

Cassazione civile sez. VI, 22/09/2021, (ud. 27/04/2021, dep. 22/09/2021), n.25648

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9976-2020 proposto da:

S.S., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la

CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato GIUSEPPE VIGGIANI;

– ricorrente –

contro

D.P.D.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 224/2020 della COR D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 13/02/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 27/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. LAURA

SCALIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La signora S.S. ricorre con unico motivo, illustrato da memoria, per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata con cui la Corte di appello dell’Aquila in accoglimento dell’impugnazione proposta da D.P.D. ha rigettato la richiesta di assegno divorzile alla prima riconosciuto, nella misura di Euro 410,00 mensili, dalla sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale di Teramo al n. 144 del 2016 nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dai coniugi.

2. La ricorrente deduce la nullità dell’impugnato titolo per error in procedendo con violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 132 c.p.c., n. 4, e fa valere la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, e successive modifiche.

2.1. La Corte di appello aveva fatto errata applicazione dei principi sanciti dalla Corte di cassazione con la sentenza a Sezioni Unite n. 18287 del 2018, motivando nel senso del non riconoscimento dell’assegno divorzile dalla mera circostanza che la ricorrente esercitava una propria attività lavorativa già dal 1991, e quindi da epoca precedente al matrimonio, e che successivamente alla chiusura di detta attività aveva continuato a svolgere tale lavoro con contratti a tempo determinato i cui corrispettivi si erano ridotti ad Euro 400,00 mensili, evidenza che ha fatto ritenere ai giudici di appello il mantenimento, anche in costanza di matrimonio, della capacità lavorativo-professionale della richiedente nonostante l’età di costei.

2.2. La Corte non aveva motivato pertanto su come la ricorrente potesse sostentarsi con un reddito di circa 400,00 Euro mensili e con un canone di locazione di pari somma, e tanto nella oggettiva sua impossibilità di vivere autonomamente e dignitosamente, come previsto dalla L. divorzio, art. 5, comma 6.

2.3. La Corte di merito aveva altresì erroneamente censurato l’evidenza che la richiedente non aveva provato l’intervenuta formazione del patrimonio familiare ed aveva omesso di motivare sulla capacità della ricorrente di vivere autonomamente e dignitosamente con i proventi del suo lavoro.

2.4. La Corte di appello aveva ancora errato nel non valutare il periodo di effettiva convivenza instaurato tra gli ex coniugi, che anche prima di sposare avevano vissuto insieme, così da portare il complessivo periodo di convivenza a dodici anni, ed aveva travisato le dichiarazioni rese in primo grado in sede di interrogatorio libero dall’ex coniuge là dove questi aveva affermato che con grande difficoltà riusciva a versare l’assegno di 400 Euro mensili, affermazione che era stata intesa non come assunzione di una obbligazione.

2.5. La Corte non aveva tenuto conto che in sede di separazione consensuale i coniugi avevano fissato l’assegno di mantenimento e che la richiedente si era nel trovata a prendere in affitto un appartamento in sostituzione della ex casa coniugale per cui già versava un corrispettivo mensile, senza che pertanto quel pagamento potesse rappresentare una incrementata sua capacità economica.

3. Il motivo presenta profili in parte di inammissibilità ed in parte di infondatezza.

3.1. Il motivo è infondato nella parte in cui solleva questione di nullità della sentenza impugnata che non presenta, invece, vizi di gravità tale, quanto alla resa motivazione, da comportarne la nullità ex art. 132 c.p.c., risultando piuttosto, la stessa, correttamente e logicamente motivata.

3.2. In tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – come nella specie ha fatto la ricorrente – bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito dalla L. n. 134 del 2012 (Cass., 12/10/2017, n. 23940).

3.3. Ancora, poi, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass., 27/12/2016, n. 27000; Cass., 17/01/2019, n. 1229).

4. Nulla di tutto questo si rinviene nella sentenza della Corte d’appello che ha, piuttosto, correttamente applicato i principi di cui a S.U. 18287/2018, avendo accertato: che la ricorrente ha sempre lavorato come parrucchiera, anche durante il matrimonio; che il matrimonio questo è durato solo quattro anni; che la ricorrente ha preso in affitto un’abitazione ad Euro 400,00 e che la medesimo non “ha, nel corso del giudizio, né allegato, e di conseguenza neppure provato, di avere contribuito alla formazione del patrimonio familiare”.

In siffatto contesto valutativo, il mezzo proposto tenta di spingere in modo inammissibile il sindacato di questa Corte sul fatto, per una rivalutazione nel merito della vicenda in esame alternativa alla lettura ritenuta dai giudici di appello.

5. Il ricorso, in via conclusiva infondato, va quindi rigettato.

Nulla sulle spese essendo controparte rimasta intimata.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1- bis.

Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.

PQM

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2021

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