Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2563 del 30/01/2019

Cassazione civile sez. trib., 30/01/2019, (ud. 12/12/2018, dep. 30/01/2019), n.2563

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 67-2012 proposto da:

B. & P. SPA in persona del Procuratore e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA

DELLA SCROFA 64, presso lo studio dell’avvocato CELLAMARE VINCENZO,

rappresentato e difeso dagli avvocati ZUNARELLI STEFANO, DEL

FEDERICO LORENZO, giusta delega in calce;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE CENTRO OPERATIVO DI PESCARA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 364/2011 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

PESCARA, depositata il 01/06/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/12/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

MATTEIS STANISLAO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il controricorrente l’Avvocato PALATIELLO che si riporta

agli atti.

Fatto

FATTI DELLA DECISIONE

La società B. & P. s.p.a. proponeva ricorso avverso la sentenza n. 364/10/11 emessa dalla Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, Sez. staccata di Pescara, e depositata il 1.11.2011.

Riferiva che il contenzioso traeva origine dal provvedimento di diniego del nulla osta alla fruizione del credito di ricerca e sviluppo previsto e disciplinato dalla L. n. 296 del 2006, a seguito di domanda introdotta secondo le procedure di cui al D.L. n. 185 del 2008.

In particolare la società, facendo affidamento sulla disciplina agevolativa introdotta dalla L. n. 296 del 2006, art. 1,comma 281-284 – che originariamente riconosceva un credito d’imposta per il sostenimento di spese per attività di ricerca e sviluppo “precompetitivo” finalizzate alla cd. innovazione del prodotto, consentendone l’accesso a qualunque impresa, senza distinzioni e prerequisiti condizionanti la fruizione -, modificata dal D.L. n. 185 del 2008, art. 29 – che fissava invece dei limiti alla sua fruizione, con predeterminazione degli stanziamenti nel bilancio degli anni 2008/2011, nonchè due differenti regimi applicativi a seconda che le attività di ricerca fossero state avviate prima o dopo il 29 novembre 2008, prevedendo solo nel primo caso il contributo nella, sua interezza -, aveva posto in essere investimenti per un credito di Euro 50.885,00 per il 2008 e di Euro 55.973,00 per il 2009, dichiarando nel prescritto formulario che le attività avevano avuto inizio entro il 28 novembre 2008. Secondo la procedura fissata dal citato D.L. n. 185 del 2008, art. 29, in data 6 maggio 2009 aveva poi provveduto ad inviare in via telematica il suddetto formulario al Centro Operativo di Pescara, che però il 15 giugno 2009 comunicava il diniego del nulla osta alla fruizione del credito di ricerca e sviluppo.

Il provvedimento di diniego era impugnato dinanzi alla Commissione Tributaria di Pescara, che, senza disconoscerne il diritto, rigettava tuttavia la domanda tesa ad ottenere l’annullamento del diniego. La società appellava la sentenza dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, che confermava la legittimità del provvedimento di diniego.

La società censurava la sentenza con sei motivi:

con il primo per violazione degli artt. 3,41,97,117 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sollevando questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 185 del 2008, art. 29, commi 1, 2 e 3, convertito in L. n. 2 del 2009, per avere erroneamente ritenuto il giudice regionale che la disciplina si sottrae al sospetto di inconstituzionalità;

con il secondo motivo per contraddittorietà e illogicità della motivazione circa un fatto controverso e risolutivo per la definizione del giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere i giudici regionali prima riconosciuto il diritto soggettivo alla fruizione del credito d’imposta e poi però confermato la legittimità del diniego del nulla-osta;

con il terzo motivo per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver sostenuto in sentenza l’inesistenza di un divieto costituzionale di efficacia retroattiva della norma tributaria;

con il quarto motivo per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 2, e dei principi eurocomunitari in tema di legittimo affidamento, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

con il quinto motivo per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, nonchè della L. n. 241 del 1990, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere errato la decisione del giudice regionale ritenendo sufficientemente motivato il provvedimento di diniego di nulla osta;

con il sesto motivo per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 2, nonchè della L. n. 241 del 1990, art. 21-octies, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere erroneamente ritenuto che l’atto di diniego, trasmesso in via telematica, non necessitasse della indicazione del responsabile del procedimento.

Chiedeva in conclusione la cassazione della sentenza impugnata con decisione nel merito.

Si costituiva l’Agenzia delle Entrate, che contestava nel controricorso le avverse argomentazioni, chiedendo il rigetto del ricorso.

L’importante controversia giuridica, comune ad altri procedimenti pervenuti dinanzi a questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 3576 del 2015, che dichiarava non manifestamente infondata, e rilevante, la questione di legittimità costituzionale del citato D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 1, art. 29, comma 2, lett. a) e art. 29, comma 3, conv. in L. n. 2 del 2009, nella parte in cui non fa salvi i diritti di terzi per le spese sostenute, ai sensi della L. n. 296 del 2006, prima della entrata in vigore del suddetto D.L. n. 185 del 2008 – era portata all’attenzione della Corte Costituzionale.

La Corte Costituzionale si pronunciava sulla questione con sentenza n. 149 del 2017, con cui la dichiarava in parte inammissibile ed in parte infondata.

All’udienza pubblica del 12 dicembre 2018, dopo la discussione, la parte presente e il P.G. hanno concluso. La causa è stata riservata per la decisione.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

E’ opportuno preliminarmente ripercorrere le vicende normative relative al suddetto credito di imposta.

La L. n. 296 del 2006 attribuiva un credito di imposta del 10% (poi innalzato al 40% ex L. n. 244 del 2007 per i contratti con università) per il periodo 2007-2009 in relazione al sostenimento di costi di ricerca e sviluppo (la norma è stata poi abrogata nel 2012). I costi non potevano superare per ciascuna impresa e ciascun periodo di imposta 15 milioni di euro (poi 50 milioni ex L. n. 244 del 2007)

Intervenne successivamente il D.L. n. 185 del 2008, conv. in L. n. 2 del 2009. Il suddetto D.L. n. 185 del 2008, art. 29,comma 1, affermava che:

“l. Le disposizioni di cui al D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 5, commi 1 e 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 agosto 2002, n. 178, sul monitoraggio dei crediti di imposta si applicano anche con riferimento a tutti i crediti di imposta vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto tenendo conto degli oneri finanziari previsti in relazione alle disposizioni medesime. In applicazione del principio di cui al presente comma, al credito di imposta per spese per attività di ricerca di cui alla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, commi da 280 a 283, si applicano le disposizioni di cui ai commi seguenti.”.

Si stabiliva pertanto che tutti i crediti di imposta vigenti (inclusi quelli della legge 296 del 2006) fossero soggetti ad un tetto massimo fruibile dalle imprese (Euro 375 milioni per 2008, Euro 533 milioni per 2009) ai sensi della normativa generale già in vigore per i crediti di imposta, rappresentata dal menzionato D.L. n. 138 del 2002.

Per fruire dei crediti di imposta riconosciuti dalla citata L. n. 296 del 2006 occorreva quindi una selezione dei contribuenti da ammettere al beneficio, e ciò anche per quelli maturati prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 185 del 2008, relativi a costi sostenuti prima di tale data (salva l’ipotesi in cui in cui il contribuente non ne avesse già usufruito).

Al fine della selezione il citato D.L. n. 185 del 2008, art. 29, commi 2, 3 e 5 previde quindi l’invio da parte dei contribuenti di un formulario telematico, con una finestra temporale entro la quale introdurre le domande, poi stabilita con successivo atto amministrativo nel periodo decorrente dalle ore 10.00 del 6.05.2009 (giorno denominato poi informalmente “click day”) alle ore 24.00 del 5.06.2009.

I suddetti commi 2), 3) e 5) prevedevano che:

“2. Per il credito di imposta di cui L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, commi da 280 a 283, e successive modificazioni, gli stanziamenti nel bilancio dello Stato sono pari a 375,2 milioni di Euro per l’anno 2008, a 533,6 milioni di Euro per l’anno 2009, a 654 milioni di Euro per l’anno 2010 e a 65,4 milioni di Euro per l’anno 2011. A decorrere dall’anno 2009, al fine di garantire congiuntamente la certezza delle strategie di investimento, i diritti quesiti, nonchè l’effettiva copertura finanziaria, la fruizione del credito di imposta suddetto è regolata come segue:

a) per le attività di ricerca che, sulla base di atti o documenti aventi data certa, risultano già avviate prima della data di entrata in vigore del presente decreto, i soggetti interessati inoltrano per via telematica alla Agenzia delle entrate, entro trenta giorni dalla data di attivazione della procedura di cui al comma 4, a pena di decadenza dal contributo, un apposito formulario approvato dal Direttore della predetta Agenzia; l’inoltro del formulario vale come prenotazione dell’accesso alla fruizione del credito d’imposta;

b) per le attività di ricerca avviate a partire dalla data di entrata in vigore del presente decreto, la compilazione del formulario da parte dei soggetti interessati ed il suo inoltro per via telematica alla Agenzia delle entrate vale come prenotazione dell’accesso alla fruizione del credito di imposta successiva a quello di cui alla lettera a).

3. L’Agenzia delle entrate, sulla base dei dati rilevati dai formulari pervenuti, esaminati rispettandone rigorosamente l’ordine cronologico di arrivo, comunica telematicamente e con procedura automatizzata ai soggetti interessati: a) relativamente alle prenotazioni di cui al comma 2, lett. a), esclusivamente un nulla-osta ai soli fini della copertura finanziaria; la fruizione del credito di imposta è possibile nell’eserciziò in corso ovvero, in caso di esaurimento delle risorse disponibili in funzione delle disponibilità finanziarie, negli esercizi successivi; b) relativamente alle prenotazioni di cui al comma 2, lett. b), la certificazione dell’avvenuta presentazione del formulario, l’accoglimento della relativa prenotazione, nonchè nei successivi novanta giorni l’eventuale diniego, in ragione della capienza. In mancanza del diniego, l’assenso si intende fornito decorsi novanta giorni dalla data di comunicazione della certificazione dell’avvenuta prenotazione.

5. Il formulario per la trasmissione dei dati di cui ai commi da 2 a 4 del presente articolo è approvato con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, adottato entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Entro 30 giorni dalla data di adozione del provvedimento è attivata la procedura per la trasmissione del formulario.”.

Seguendo la disciplina riportata, la società ricorrente introdusse la domanda, ricevendo però il 15.6.2009, in via telematica, comunicazione di diniego alla fruibilità del credito di imposta per “esaurimento risorse”.

Va anche detto che, successivamente a tali fatti, al fine di sopperire all’esaurimento delle disponibilità finanziarie, la L. n. 191 del 2009, art. 2, comma 236, (come modificato dal D.L. n. 40 del 2010, art. 4, comma 1, convertito, con modificazioni, in L. n. 73 del 2010 dispose – per gli anni 2010 e 2011 – uno stanziamento di ulteriori risorse destinate al finanziamento del credito d’imposta in argomento (complessivamente pari a 350 milioni di Euro). Con D.M. sviluppo economico 4 marzo 2011 di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono state individuate le modalità di utilizzo dell’ulteriore stanziamento disposto dalla citata L. n. 191 del 2009, art. 2, comma 236. Con le nuove risorse, il credito di imposta è divenuto utilizzabile nella misura massima del 47,53%.

Come già accennato questa Corte aveva sollevato questione di legittimità costituzionale del D.L n. 185 del 2008, art 29,comma 1, per violazione dell’art 3 Cost., in relazione al trattamento normativo dei crediti già maturati nel 2007 e 2008, anteriormente all’entrata in vigore del suddetto D.L. n. 185 del 2008, per violazione del principio dell’affidamento dei privati nei confronti della Pubblica Amministrazione.

In via subordinata, aveva anche sollevato questione di legittimità costituzionale del D.L n. 185 del 2008, art. 29, comma 2, lett. a) e art. 29, comma 3, per violazione dell’art 3 Cost., per avere fondato la procedura di selezione su mero criterio cronologico.

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 149 del 2017, ha dichiarato in parte infondate ed in parte inammissibili le questioni.

Ritenuto che il primo motivo è infondato.

Occorre osservare che in relazione all’asserito contrasto della suddetta normativa con gli artt. 41,97 e 117 Cost. si è già espressa questa Corte, dichiarando la questione infondata, con motivazioni che questo collegio condivide ed alle quali si richiama espressamente (Cass., Sez. 6-5, ord. 3576 del 2015).

In relazione al contrasto con l’art. 3 Cost. invece, è stata la Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 149 del 2017, a dichiarare la questione infondata in merito all’art. 29 co. 1 e inammissibile in merito al D.L. n. 185 del 2008, art. 29,comma 2.

In riferimento alla prima questione, relativa al contrasto del D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 1, con l’art. 3 Cost. – che in sintesi si traduce nella asserita violazione del principio dell’affidamento perchè lo Stato italiano dapprima (nel 2006) ha riconosciuto un credito di imposta per la spese per ricerca, senza prevedere un tetto massimo per l’utilizzo di tale credito, e successivamente (nel 2008) ha introdotto tale tetto, operante anche per i crediti relativi alle spese sostenute prima che la nuova normativa entrasse in vigore (e quindi le spese sostenute tra il 2006 ed il 2008) -, la Corte Costituzionale ha escluso il contrasto della norma con i parametri costituzionali invocati, affermando che un intervento retroattivo del legislatore che incida su diritti soggettivi perfetti non è di per sè in contrasto con la Costituzione se non è irrazionale, se è giustificato a salvaguardia di altri valori costituzionali e se è proporzionato; nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la mancanza di tetto massimo per la fruibilità dei crediti di imposta giustificasse un intervento anche retroattivo per salvaguardare le finanze statali (art 2,3 e 81 Cost.); ha inoltre evidenziato che gli ulteriori interventi normativi, di cui alla legge n. 191 del 2009 per tutelare le posizioni dei titolari di crediti “perdenti”, hanno salvaguardato il rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità dell’intera disciplina.

In merito alla seconda questione, relativa al contrasto del citato D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 2, lett. a), e art. 29, comma 3, con l’art. 3 Cost. – che in sintesi si traduce nel dubbio sulla legittimità di un sistema di fruibilità dei crediti basato su un meccanismo, quale quello della priorità temporale della domanda telematica fino ad esaurimento risorse, che conduce a risultati del tutto scollegati non solo dal merito delle ragioni di credito ma anche dalla solerzia nel loro esercizio, perchè fondato su elementi in fin dei conti casuali, quale la velocità del meccanismo di trasmissione informatica all’interno di una marea vastissima di concorrenti-, occorre sempre riferirsi a quanto affermato dalla Consulta, che ha dichiarato inammissibile la questione perchè un eventuale accoglimento della stessa determinerebbe un nuovo assetto normativo “caratterizzato da iniquità e irragionevolezza”, in quanto nel frattempo il legislatore è intervenuto con la L. n. 191 del 2009 per salvaguardare, almeno in parte, la posizione dei “perdenti”, cosicchè la dichiarazione di illegittimità della normativa del 2008 farebbe perdere ai “vincitori” il beneficio ottenuto, senza che gli stessi possano essere recuperati ai sensi della citata L. n. 191 del 2009, dato che i finanziamenti da essa previsti sono riservati ai soli “perdenti” della prima procedura.

Il secondo motivo è infondato.

La denunciata contraddizione della motivazione consisterebbe nel fatto che da un lato il giudice regionale ha riconosciuto il diritto soggettivo a fruire del credito, ma dall’altro ha affermato che il D.L. n. 185 del 2008, ha inciso solo sulle modalità di fruizione, affermazione inesatta laddove con il diniego il diritto è stato in realtà soppresso e non semplicemente disciplinato nelle modalità di fruizione.

Va rilevato che, essendo stata depositata la sentenza in data 1.06.2011, al motivo di gravame si applica l’art. 360 c.p.c., n. 5, nella versione ante 2012, sebbene successiva al 2006.

Il motivo è al limite della inammissibilità perchè “per “fatto decisivo e controverso” deve intendersi un vero e proprio fatto, non una “questione” o un “punto”; non a caso, infatti, il citato art. 360 c.p.c. (nella parte in cui prevedeva l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia) è stato modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006 nel senso che l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve riguardare un fatto controverso e decisivo, e la modifica non può essere ritenuta puramente formale e priva di effetti: il “fatto” di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, è perciò un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un “fatto principale”, ex art. 2697 c.c. (cioè un “fatto” costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, un “fatto secondario” (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo.” (Cass., Sez. 5, sent. n. 2805 del 2011).

Il “fatto” della cui omissione o errata considerazione si duole il ricorrente nel caso di specie è però una valutazione giuridica, non un fatto storico.

L’avere la Commissione regionale riconosciuto un diritto soggettivo all’impresa ricorrente, salvo poi affermare che la nuova normativa non lo ha soppresso ma ha solo inciso sulle modalità di fruizione, non è infatti un fatto “storico” e “fattuale”, quanto una valutazione giuridica.

In ogni caso, il motivo è infondato.

E’ vero che su tale aspetto sia questa Corte nell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale, sia quest’ultima, hanno ritenuto che la normativa del 2008 non ha semplicemente inciso sulle modalità di fruizione del diritto, ma sul diritto stesso. Tuttavia, questo non significa che il percorso argomentativo del giudice d’appello sia stato “contraddittorio” o “illogico” ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5

La Commissione ha infatti seguito un proprio percorso argomentativo che, intrinsecamente, non è nè illogico, nè contraddittorio, non ravvisandosi tale vizio nell’affermare che la prima normativa ha riconosciuto un diritto soggettivo e quella successiva ha inciso sulle modalità di fruizione dello stesso, valorizzando tra gli altri dati, la circostanza che il diritto di credito non sia stato soppresso, ma, ai fini della sua fruizione, solo differito agli esercizi successivi al 2011. E’ a tal fine significativo che proprio in questo contesto la sentenza ha menzionato, a conferma della sua ricostruzione, la legge finanziaria del 2010 (citata L. n. 191 del 2009), che ha stanziato altre risorse per soddisfare i crediti d’imposta non soddisfatti. Non vi è pertanto alcuna contraddizione e se invece si voleva censurare la ricostruzione giuridica dell’assetto normativo, la ricorrente avrebbe dovuto eventualmente denunciare la violazione di legge, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

E’ altrettanto infondato il terzo motivo.

Lamenta la ricorrente che la CTR non abbia censurato l’applicazione retroattiva del D.L. n. 185 del 2008, che ha introdotto un tetto massimo per la fruibilità del credito di imposta, con effetto anche per i crediti maturati anteriormente.

Sul punto, è sufficiente riportarsi a quanto affermato dalla Consulta nella sentenza n. 149 cit., laddove il giudice delle leggi considera che (paragrafi 9 – 12) un intervento normativo anche retroattivo, incidente su diritti perfetti, non è necessariamente incostituzionale, purchè risponda a criteri di razionalità, di salvaguardia di altri valori costituzionali, di proporzionalità; e nella specie rileva che l’intervento normativo del 2008 era necessario per tutelare altri sopravvenuti interessi pubblici di rango costituzionale, quale la tutela dell’equilibrio del bilancio dello Stato.

E’ poi infondato il quarto motivo.

La Corte Costituzionale, nel paragrafo 9 del “considerato” della sentenza 149 del 2017, ha affermato che “il valore del legittimo affidamento non esclude che il legislatore possa assumere disposizioni che modifichino in senso sfavorevole agli interessati la disciplina di rapporti giuridici anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, ma esige che ciò avvenga alla condizione che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica (sentenze n. 56 del 2015, n. 302 del 2010, n. 236 e n. 206 del 2009). Solo in presenza di posizioni giuridiche non adeguatamente consolidate, dunque, ovvero in seguito alla sopravvenienza di interessi pubblici che esigano interventi normativi diretti a incidere peggiorativamente su di esse, ma sempre nei limiti della proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti, è consentito alla legge di intervenire in senso sfavorevole su assetti regolatori precedentemente definiti (ex plurimis, sentenza n. 56 del 2015)” (sentenza n. 216 del 2015; si vedano anche, tra le tante, le sentenze n. 160 e n. 103 del 2013, n. 416 del 1999).

L’intervento retroattivo del legislatore, dunque, può incidere sull’affidamento dei cittadini a condizione che: 1) trovi giustificazione in “principi, diritti e beni di rilievo costituzionale” (ex multis, sentenza n. 308 del 2013), e dunque abbia una “causa normativa adeguata” (sentenze n. 203 del 2016, n. 34 del 2015 e n. 92 del 2013), quale un interesse pubblico sopravvenuto (sentenze n. 16 del 2017, n. 216 e n. 56 del 2015) o una “inderogabile esigenza” (sentenza n. 349 del 1985); 2) sia comunque rispettoso del principio di ragionevolezza (fra le tante, sentenza n. 16 del 2017) inteso, anche, come proporzionalità (sentenze n. 203 e n. 108 del 2016; n. 216 e n. 56 del 2015)”.

Ha quindi ritenuto che nella specie si siano verificati i requisiti che hanno giustificato l’intervento normativo, per la salvaguardia di principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, e cioè la necessità di mantenere il bilancio dello Stato nel rispetto dei parametri approvati anche in sede europea, con la possibilità al contempo di creare disponibilità finanziarie per rilanciare l’economia e tutelare i lavoratori e le famiglie, a fronte di una situazione di eccezionale crisi internazionale generalizzata (infatti il D.L. n. 185 del 2008 era denominato nel linguaggio atecnico “decreto anticirisi”).

Per quanto la Commissione regionale abbia fornito una interpretazione del principio di legittimo affidamento più restrittiva di quella ammessa dalla stessa Corte Costituzionale e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea -interpretazione secondo la quale il principio non opera in relazione agli atti del legislatore, ma solo riguardo all’amministrazione, mentre al contrario il giudice delle leggi nazionale e la Corte di Giustizia ritengono che il principio coinvolga anche l’esercizio della funzione legislativa-tuttavia l’imprecisione diventa irrilevante nell’economia complessiva del giudizio, in quanto non solo la Corte Costituzionale, ma anche la stessa Corte di Giustizia in qualche occasione ha ammesso che l’applicazione del principio dell’affidamento possa flettersi di fronte ad interventi legislativi in presenza situazioni particolari e a determinate condizioni.

Quest’ultima in particolare – nella misura in cui norme euro-unitarie regolino la materia – si è già occupata della definizione del concetto di legittimo affidamento, affermando che, per quanto il principio sia fondamentale nell’ordinamento dell’Unione, “non si traduce nella aspettativa di intangibilità di una normativa, in particolare in settori in cui è necessario, e di conseguenza ragionevolmente prevedibile, che le norme in vigore vengano continuamente adeguate alle variazioni della congiuntura economica.” (Corte Giust., sent. del 23.11.1999 nella causa C-149/96). E ancora, “Di conseguenza gli operatori economici non possono fare legittimamente affidamento sulla conservazione di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle istituzioni comunitarie (cfr. sent. 15 luglio 1982, causa 245/81, Edeka, Race. 1982, pag. 2745, punto 27 della motivazione; sent. 28 ottobre 1982, causa 52/81, Faust, Race. 1987, 3745, punto 27 della motivazione; sent. 17 giugno 1987, cause riunite 424 e 425/85, Frico, Race. 1979, pag. 2755, punto 33 della motivazione).” (Corte Giust., caso C-350/88).

Va sempre ricordato al riguardo che la normativa del D.L. n. 185 del 2008 (che, per inciso, non ha creato un istituto “ex novo”, ma ha esteso una disciplina generale sui crediti di imposta già in vigore in quel momento – cioè la previsione di un tetto massimo allo specifico credito di imposta) è stata dettata, come emerge dallo stesso preambolo del testo legislativo e come notorio, dalla eccezionale situazione di crisi economica venutasi a creare a livello internazionale in quel momento e dalla necessità per lo Stato italiano di rispettare gli impegni sui parametri economici connaturati alla appartenenza alla Unione Europea. Inoltre lo Stato ha regolato, con il successivo intervento di cui alla I. 191 del 2009, le situazioni che si erano venute a verificare a detrimento dei c.d. “perdenti” nella procedura di cui al D.L. n. 185 del 2008.

Infondato è anche il quinto motivo, relativo alla mancanza di motivazione del provvedimento di diniego.

Secondo la L. n. 212 del 2000, art 7, comma 1, “Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama.”.

A sua volta, la L. n. 241 del 1990, art 3, stabilisce che “1. Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria.

2. La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale.”.

La Commissione regionale sul punto ha stabilito che il provvedimento ha illustrato in maniera succinta ma evidente le ragioni per cui il credito di imposta non veniva concesso, e cioè l'”esaurimento delle risorse”, così come era chiaro che il diniego si riferiva a tutte le somme stanziate fino al 2011.

Il motivo è dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, ma l’interpretazione che ha dato la CTR dell’onere di motivazione non appare errata.

In tema di motivazione di atti si è affermato che è sufficiente l’indicazione degli elementi che permettano di controllare la legittimità della procedura cui esso si riferisce (con riferimento al ruolo e alla cartella cfr. Cass., Sez. 5, sent. n. 1111 del 2018; n. 11466 del 2011).

L’interpretazione che il giudice regionale ha dato del concetto di “motivazione” dell’atto è pertanto in linea con la giurisprudenza sul tema, avendo la stessa ritenuto che l’atto permettesse di comprendere appieno le ragioni del diniego.

E’ infondato infine anche il sesto motivo.

La ricorrente ha lamentato che la Commissione abbia male interpretato la norma sul responsabile del procedimento ritenendo sufficiente l’indicazione del direttore del Centro di Pescara.

E’ innanzitutto utile rammentare che lo Statuto del contribuente l’art. 7, comma 2 – secondo il quale gli atti dell’amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare, tra l’altro, l’ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito all’atto notificato o comunicato e il responsabile del procedimento- non prevede sanzione. Per le cartelle esattoriali poi la normativa specifica che prevede espressamente la nullità è stata introdotta a partire dal 2008.

Il D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, ha previsto tale sanzione solo con riguardo alle cartelle di pagamento relative a ruoli consegnati a decorrere dalla data menzionata (in tale senso cfr. Sez. U, sent. n. 11722 del 2010), nè per le cartelle anteriori prive di tale requisito ricorre l’annullabilità delle stesse. Si è infatti in particolare affermato che “essendo la disposizione di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7, priva di sanzione, e non incidendo direttamente la violazione in questione sui diritti costituzionali del destinatario, trova applicazione la L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21-octies, il quale, allo scopo di sanare con efficacia retroattiva tutti gli eventuali vizi procedimentali non influenti sul diritto di difesa, prevede la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora, per la natura vincolata del provvedimento, come nel caso di cartella esattoriale, il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (Cass., ord. n. 332 del 2016; sent. n. 25773 del 2014, n. 3754 del 2013 e n. 4516 del 2012).

Peraltro il D.L. n. 248 del 2007, art 36, comma 4-ter, si riferisce espressamente solo alle cartelle esattoriali di cui D.P.R. n. 600 del 1973, art. 25, mentre nella specie, sebbene si tratti di un atto del giugno 2009, ci si trova dinanzi ad un diniego di agevolazione, atto di natura diversa.

La citata L. n. 241 del 1990, art. 21-septies, commina la nullità al provvedimento che manca degli elementi essenziali, ma tale legge non prevede il nome del responsabile del procedimento come uno degli elementi essenziali dell’atto.

E’ vero che il successivo art. 21-opties, comma 1, prevede l’annullabilità del provvedimento adottato in violazione di legge, ma nel caso di specie ci si trova in presenza di un procedimento particolare, completamente telematico, consistente nella introduzione in via elettronica di una domanda alla quale segue, a distanza di tempo, un provvedimento emesso sulla base di una elaborazione -anche in questo caso-meramente informatica della domanda. L’elaborazione consiste nella mera assegnazione automatica di fondi in base ad un puro criterio cronologico, fino ad esaurimento risorse, ed il provvedimento, che dà semplicemente atto dell’assegnazione o meno del credito di imposta, è comunicato sempre in via informatica.

In tale contesto il provvedimento telematico, generato automaticamente dal sistema, ha un contenuto vincolato, nel senso che, nei casi di rigetto della domanda, è predeterminato nella forma e nel contenuto. Può quindi fondatamente ritenersi uno di quegli atti a contenuto vincolato per il quale la L. n 241 del 1990, art. 21-octies, comma 2, esclude non solo la nullità, ma anche l’annullabilità in caso di adozione in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma.

Può osservarsi peraltro che il giudice tributario regionale ha dato atto del fatto che l’indicazione di un nominativo al quale riferire il provvedimento, e quindi il procedimento, era presente sull’atto, nella persona del direttore del Centro operativo di Pescara.

Va infine evidenziato che questa Corte ha avuto modo di affermare, sempre in riferimento alle cartelle ma con un principio che appare applicabile in generale, che, al fine di non incorrere in nullità, è sufficiente l’indicazione sull’atto di una persona responsabile del procedimento, a prescindere quindi dalla funzione (apicale o meno) della stessa effettivamente esercitata; siffatta indicazione appare infatti sufficiente ad assicurare gli interessi sottostanti alla detta indicazione, che sono la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa (Cass., Sez. 6-5, ord. n. 3533 del 2016).

Anche sul punto quindi la motivazione della Commissione tributaria non è errata. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Considerata la novità della questione rispetto all’epoca in cui il ricorso fu introdotto, sussistono giusti motivi per la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.

PQM

Rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2019

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