Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25628 del 22/09/2021

Cassazione civile sez. trib., 22/09/2021, (ud. 11/06/2021, dep. 22/09/2021), n.25628

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – rel. Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7716/2015 R.G. proposto da:

A.P.D. Accademia Internazionale Calcio, in persona del legale

rappresentante p.t., corrente in (OMISSIS), con l’avv. Ettore

Valerio, e con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Raul

Duca, in Roma, Vicolo Orbitelli n. 31;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante p.t.,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio ex lege in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per la

Lombardia, Milano, n. 4606/06/14, pronunciata il 19 giugno 2014 e

depositata il 16 settembre 2014, non notificata.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 11 giugno

2021 dal Co: Marcello M. Fracanzani.

 

Fatto

RILEVATO

1. La contribuente, associazione sportiva dilettantistica – ente non commerciale, era oggetto di una verifica fiscale conclusasi con l’emissione di due p.v.c., emessi rispettivamente in data (OMISSIS) e (OMISSIS) ai fini Ires, Irap e Iva per gli anni d’imposta 2006, 2007 e 2008, e cui facevano seguito due distinti avvisi di accertamento, notificati in data (OMISSIS) e (OMISSIS). In sostanza l’Ufficio ivi contestava, tra le altre, l’irregolare tenuta di una contabilità separata, tale da non consentire la distinzione dell’attività istituzionale da quella commerciale.

2. La contribuente aderiva alla qualificazione operata dagli organi accertatori in ordine alle imposte quantificate ai fini Ires e Irap, definendo in via agevolata le relative sanzioni, mentre adiva il giudice di prossimità in relazione alle sole maggiori imposte quantificate ai fini Iva. La Commissione tributaria provinciale respingeva le difese dell’Ufficio e accoglieva il ricorso.

3. Promosso appello da parte dell’Amministrazione finanziaria, la Commissione tributaria regionale, in parziale riforma della decisione di primo grado, confermava la legittimità degli atti impositivi e della relativa ripresa a tassazione.

4. Insorge avverso la decisione di secondo grado la contribuente, che ne chiede la cassazione per cinque motivi. Non replica l’Avvocatura generale dello Stato, costituitasi solo ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1, mentre la parte contribuente ha depositato altresì memoria in prossimità dell’adunanza.

Diritto

CONSIDERATO

Occorre muovere, nell’esame del ricorso, dallo scrutinio del secondo motivo, di rilievo logico preliminare e potenzialmente assorbente.

1. Con il secondo motivo la contribuente avanza censura ex art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto e omesso esame di un fatto decisivo e di cui alla parte della sentenza relativa all’intervenuta acquiescenza ad opera dell’Agenzia delle Entrate alla sentenza di primo grado.

1.1 Afferma, in buona sostanza, che l’Agenzia delle entrate avrebbe prestato acquiescenza alla sentenza di primo grado, procedendo allo sgravio delle imposte elevate ai fini IVA e contenute nelle cartelle di pagamento emesse a seguito degli avvisi di accertamento impugnati. Occorre tener anche conto che lo sgravio era stato disposto prima della proposizione dell’atto di appello, sicché erronea sarebbe dunque la statuizione del giudice d’appello, che non avrebbe riconosciuto l’inammissibilità dell’appello per intervenuta acquiescenza alla decisione da parte dell’Ufficio.

Il motivo è inammissibile ed infondato.

2. Esso è inammissibile perché la parte ricorrente lamenta, in rubrica, congiuntamente la violazione ex art. 360 c.p.c., n. 4, quale fattispecie circoscritta alla nullità della sentenza o del procedimento, ed il vizio di omessa pronuncia, salvo poi, nell’articolare il motivo, censurare la sentenza per motivazione contraddittoria e confusa.

2.1 Il motivo è pertanto inammissibile tenuto conto che a seguito della novella introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito con modificazioni nella L. n. 134 del 2021, l’art. 360 c.p., comma 1, n. 5), è stato modificato. Oggi esso prevede che l’impugnazione delle sentenze, a parte i vizi di legittimità, possa avvenire unicamente “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. La novella in commento è stata peraltro anche oggetto di scrutinio da parte di questa Corte a Sezioni Unite, stabilendo che il vizio di motivazione può essere portato in cassazione, ma solo per violazione di legge processuale costituzionalmente rilevante, quando cioè il difetto denunciato attiene alla stessa esistenza della motivazione; è però richiesto che il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cfr. Cass., S.U., n. 8053/2014).

3. In ogni caso, il motivo è anche infondato.

E’ stato infatti affermato che “Come precisato da questa Corte, con giurisprudenza costante, l’acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 c.p.c. (e configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame, giacché successivamente allo stesso è possibile solo una rinunzia espressa all’impugnazione da compiersi nella forma prescritta dalla legge), consiste nell’accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita: in quest’ultimo caso, l’acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l’interessato abbia posto in essere atti dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, quando cioè gli atti stessi siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione. Ne consegue che la spontanea esecuzione della pronunzia di primo grado favorevole al contribuente da parte della P.A., anche quando la riserva d’impugnazione non venga dalla medesima a quest’ultimo resa nota, non comporta acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 329 c.p.c., e al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 49, trattandosi di un comportamento che può risultare fondato anche sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione (v. e pluribus Cass., Sez. 1, n. 21491 del 10/10/2014, Rv. 632894; Sez. 6 – 5, n. 11769 del 11/07/2012, Rv. 623346; Sez. 5, n. 21385 del 30/11/2012, Rv. 624486; Sez. 5, n. 27082 del 18/12/2006, Rv. 595889)…(…)… Ipotizzare che, nell’ipotesi considerata, ciò determini necessariamente acquiescenza (per il venir meno dell’atto impugnato) comporta un’evidente e insuperabile aporia nella ricostruzione del sistema. A seguire tale tesi, infatti, l’amministrazione sarebbe posta avanti all’alternativa: a) o di violare detto precetto, portando avanti la riscossione ed esponendosi alle iniziative esecutive di recupero, lite pendente, previste dal secondo periodo della succitata norma (senza dire della mortificazione degli interessi del contribuente vittorioso in primo grado, costretto a subire una esecuzione che, per legge, non dovrebbe poter proseguire in pendenza di giudizio); b) oppure di darvi attuazione: così, però, secondo la qui respinta ricostruzione, esponendosi ad una non voluta interpretazione del proprio atto in termini di acquiescenza e rinuncia all’impugnazione.” (Cfr. Cass., V, n. 6334/2016).

Il motivo è pertanto infondato.

4.Con il primo motivo la parte ricorrente prospetta la violazione o falsa applicazione delle norme di diritto e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio di cui alla parte della sentenza relativa all’applicazione de D.P.R. n. 917 del 1986, art. 144, in parametro all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5.

4.1 In particolare censura il capo della sentenza impugnata nella parte in cui la CTR, in adesione alle tesi dell’Ufficio, ha accolto il motivo di appello svolto in ordine all’obbligo di tenuta di contabilità separata, travisando il contenuto dispositivo dell’art. 144 TUIR, comma 2. Afferma che la CTR avrebbe mal interpretato l’obbligo di tenuta di una contabilità separata, il quale non implica anche la tenuta di separati bilanci.

Il motivo è fondato.

5.Occorre premettere che l’art. 144 TUIR, indica le modalità di computo del reddito complessivo degli enti non commerciali, prevedendo che “i redditi e le perdite che concorrono a formare il reddito complessivo degli enti non commerciali sono determinati distintamente per ciascuna categoria in base al risultato complessivo di tutti i cespiti che vi rientrano”. Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 144, comma 2, dispone, poi, per gli enti non commerciali, che esercitano, però, anche attività commerciale, ma non come oggetto principale ed esclusivo della propria specifica attività, che “per l’attività commerciale esercitata gli enti non commerciali hanno l’obbligo di tenere la contabilità separata”.

5.1 In una fattispecie analoga a quella oggetto del presente scrutinio, promossa da un ente ecclesiastico non avente natura commerciale, questa Corte ha recentemente affermato che “La seconda violazione di legge si innesta sulla necessità di tenere una contabilità separata ai sensi dell’art. 144 Tuir, comma 2. Ebbene, è pacifico, perché lo ammette lo stesso giudice di appello, confermando quanto detto dall’Istituto, che questi ha predisposto due bilanci separati, il primo completo di stato patrimoniale e conto economico, relativo a tutti i redditi, compresi quelli esenti, il secondo relativo solo alla porzione di attività commerciale inerenti la gestione dell’attività scolastica, di cui tra l’altro si ignora l’importo delle rette pagate e delle spese sostenute. Pertanto, è la stessa Agenzia, come pure il giudice di appello, ad ammettere l’esistenza della contabilità separata come pure la possibilità di lettura della stessa da parte dell’Ufficio. Si legge, infatti, in motivazione che “tuttavia, pur in assenza di contabilità separata, l’ufficio è entrato nel merito delle singole riprese fiscali, ai fini di determinarne l’imponibilità o meno, premettendo, innanzitutto, che parte ricorrente aveva riconosciuto l’esistenza di attività commerciale con la perdita fiscale di Euro 22.595,00, per la gestione delle scuole, con la tenuta da parte dell’istituto di una specifica contabilità ai fini delle II.DD. ed Iva e che nel questionario affermava di non avere una contabilità analitica ma di entrate ed uscite”. Insomma, è lo stesso giudice di appello a riconoscere l’esistenza di una contabilità costituita da “entrate e uscite”, e che è riuscito ad “entrare nel merito delle riprese fiscali”. Sulla base di queste premesse, il giudice di appello, proprio per l’assenza della contabilità separata, e per lo svolgimento di una attività commerciale di gestione dell’attività scolastica ha escluso l’applicazione della esenzione da tassazione di cui all’art. 143 Tuir, comma 3, lett. b), in relazione ai contributi pubblici. E’ evidente la violazione di legge, non soltanto per la ritenuta esistenza del conto economico, riportante “entrate” e “uscite” relative alla attività commerciale di gestione di attività scolastiche, ma anche perché questa Corte ha ritenuto che il requisito della contabilità separata non richiede la predisposizione di due distinti e completi bilanci di esercizio. Invero, per questa Corte (Cass., sez. 5, 14 luglio 2017, n. 17454) l’art. 144 Tuir, comma 2, relativo alla contabilità separata, prevede l’obbligo di tenuta della contabilità separata per l’attività commerciale eventualmente esercitata, all’evidente scopo di rendere più trasparente la contabilità commerciale degli enti non commerciali e di evitare ogni commistione con l’attività istituzionale, nonché di facilitare la qualificazione dell’ente. Si è precisato che è stato previsto uno specifico regime contabile per gli enti non commerciali che esercitano anche attività di tipo commerciale (Cass., sez. 5, 3 luglio 2015, n. 13751). Nella contabilità separata vanno rilevati distintamente i “fatti amministrativi” relativi all’attività istituzionale dai fatti amministrativi relativi all’attività commerciale, conformemente all’intento del legislatore di mantenere separati gli ambiti delle due concorrenti attività e di rendere più trasparente la contabilità “commerciale” degli enti non commerciali. L’art. 144 TUIR, comma 6, poi, si limita a derogare a tale obbligo di denuncia nel caso di enti soggetti alle norme sulla contabilità pubblica, i quali restano esonerati da tale obbligo qualora osservino le modalità previste per la contabilità pubblica tenuta norma di legge. Come si vede la giurisprudenza di legittimità non richiede, per il rispetto della contabilità separata, la predisposizione di due bilanci completi di conto economico e stato patrimoniale, ma solo la distinzione tra due diverse tipologie di “fatti amministrativi”, quelli collegati all’attività istituzionale e quelli relativi alla porzione di attività commerciale. Ciò che è accaduto nel caso di specie, come peraltro accertato con giudizio di fatto da parte del giudice di appello. Da questo errore, poi, si sono verificati tutti gli ulteriori errori a catena, con riferimento alla indicazione dei “contributi pubblici” tra i redditi di impresa, trattandosi, invece, di redditi esenti ai sensi dell’art. 143 TUIR, comma 3, lett. b. La stessa Agenzia delle Entrate, con la risoluzione numero 86/E del 13 marzo 2002, ha affermato che la tenuta di un unico impianto contabile e di un unico piano dei conti, strutturato in modo da poter individuare in ogni momento le voci destinate all’attività commerciale, non è di ostacolo all’eventuale attività di controllo esercitata dagli organi competenti. La tenuta di una contabilità separata non prevede, infatti, l’istituzione di un libro giornale e di un piano dei conti separato per ogni attività, essendo sufficiente un piano dei conti non troppo dettagliato nelle singole voci, che permetta di distinguere le diverse movimentazioni relative ad ogni attività. Anche la dottrina è giunta alla conclusione che il requisito della separazione contabile risulta integrato anche in presenza di una contabilità o un piano dei conti unico, che consenta, però, di distinguere i redditi relativi alle varie attività (da separare), tramite la definizione di modalità di imputazione delle voci di costo-ricavo e delle attività-passività, riconducibili alle diverse branche operative. In sostanza, è consentita una “contabilità separabile”. Si è ritenuto in dottrina che per l’attività istituzionale degli enti ecclesiastici non è previsto, ai fini civilistici, alcun obbligo contabile in termini di rendicontazione. L’art. 20 c.c., stabilisce solo l’approvazione del bilancio tra le attività richieste. Non vi è neppure un obbligo in tenuta delle scritture contabili, richieste soltanto per le imprese ai sensi dell’art. 2214 c.c.. Pertanto, pur non essendo richiesti specifici obblighi in tal senso, risulta comunque necessaria, ai fini pratici, la tenuta di una contabilità anche “elementare”, non necessariamente con il metodo della partita doppia, oltre alla predisposizione di un rendiconto annuale, strumento di trasparenza e di controllo dell’intera gestione economica e finanziaria dell’ente. E’ chiaro che gli enti ecclesiastici di maggiori dimensioni possono ricorrere anche a mezzo della partita doppia, normalmente utilizzata nella contabilità ordinaria degli enti commerciali. In tal caso, al termine dell’esercizio, deve essere redatto il relativo bilancio, formato dal conto economico dallo stato patrimoniale. Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 20, peraltro, ha previsto che in relazione alle attività commerciali eventualmente esercitate dagli enti non commerciali, sono obbligatorie le scritture contabili di cui al medesimo D.P.R., artt. 14-16-18, e che gli adempimenti contabili sono determinati dalle dimensioni del fatturato dell’attività commerciale. Si prevede che la “separazione contabile”, in mancanza di espressa previsione, potrebbe avvenire mediante l’adozione di due sistemi contabili distinti, come per esempio un registro di prima nota per l’attività commerciale ed uno per l’attività istituzionale, oppure, nell’ambito delle complessive risultanze contabili, individuando appositi conti o sotto conti, che evidenzino la natura della posta contabile sottesa, di natura commerciale, istituzionale o promiscua. Pertanto, l’attività istituzionale diretta al fine di religione di culto dell’ente ecclesiastico non ha alcuna rilevanza tributaria e le operazioni non riferibili all’attività commerciale non vanno obbligatoriamente contabilizzate fini fiscali. Si è prospettata la ripartizione delle attività con riferimento alla redazione del bilancio, così che, da un lato, vi sarà un bilancio istituzionale, che riguarda unicamente la vita interna dell’ente e l’esercizio delle attività sue proprie di religione di culto, e dall’altro un bilancio fiscale-commerciale, relativo alle attività di tale natura eventualmente svolte. Il bilancio, comunque, può essere redatto con qualsiasi metodo secondo qualsiasi schema, purché conformi ai principi della tecnica contabile, non essendovi alcun obbligo di adeguarsi nella redazione del bilancio alle disposizioni concernenti gli schemi la forma previsti per il bilancio delle società di capitali. Una conferma della correttezza della interpretazione di questa Corte, in relazione all’obbligo della contabilità separata, si ricava dalla nuova normativa in ordine codice del “Terzo Settore”, entrato in vigore nel 2017, in cui, per la prima volta, si precisa quale è il contenuto della contabilità separata che prevede l’utilizzo proprio del conto economico e dello stato patrimoniale. Alle tre categorie fiscali individuate dall’art. 73 Tuir, comma 1, e quindi le società, gli enti commerciali diversi dalle società e gli enti non commerciali, se ne sono aggiunte due nuove, ossia gli enti del terzo settore non commerciali, ex art. 79 CTS (codice terzo settore) e gli enti del terzo settore commerciali. Nella disciplina del terzo settore la qualifica di commercialità o meno dell’ente è diversa da quella tradizionalmente desumibile dal combinato disposto degli artt. 73 e 149 Tuir. Nel terzo settore, invece, I’ETS è (o non commerciale) in base al solo criterio della prevalenza (o meno) delle entrate di natura commerciale, non rilevando il criterio formale fondato sulla disamina delle disposizioni statutarie, ex art. 79 CTS, comma 5. Il D.Lgs. n. 117 del 2017, art. 13 (scritture contabili e bilancio) prevede che “gli enti del terzo settore devono redigere il bilancio di esercizio formato dallo stato patrimoniale, dal rendiconto gestionale, con l’indicazione dei proventi e degli oneri dell’ente, e dalla relazione di missione che illustra le poste di bilancio, l’andamento economico e gestionale dell’ente e le modalità di perseguimento delle finalità statutarie”. Il medesimo D.Lgs., art. 4, comma 4, (enti del terzo settore) dispone, poi, che “agli enti religiosi civilmente riconosciuti le norme del presente decreto si applicano limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all’art. 5, a condizione che per tali attività adottino un regolamento…”, con la precisazione che “per lo svolgimento di tali attività deve essere costituito un patrimonio destinato e devono essere tenute separatamente le scritture contabili di cui all’art. 13”. Peraltro, il D.P.R. n. 600 del 1973 (scritture contabili degli enti non commerciali) prevede che “le disposizioni degli artt. 14, 15,16, 17, 18, si applicano relativamente alle attività commerciali eventualmente esercitate, anche agli enti soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali”. Pertanto, vari sono i regimi contabili applicabili agli enti non commerciali per l’attività di impresa eventualmente esercitata, ciò in base all’entità dei volumi annui di ricavi realizzati. Pertanto, potrà essere utilizzato un regime di contabilità semplificata o di contabilità ordinaria o ancora di contabilità super semplificata” (cfr. Cass., V, n. 526/2021).

5.3 Nel caso in esame risulta evidente, dalla piana lettura della motivazione della sentenza, che la CTR non abbia fatto buon governo dei summenzionati principi, confondendo l’obbligo della tenuta della contabilità separata con l’obbligo di tenuta di distinti e completi bilanci di esercizio. La violazione appare peraltro ancora più evidente laddove è la stessa CTR a riconoscere che l’Ufficio ha “provveduto allo scorporo dei due redditi”, così rendendo manifesta l’intellegibilità della contabilità, peraltro tenuto a partita doppia, già ritenuto ammissibile da questa Corte.

Il motivo è pertanto fondato e va accolto.

3. Con il terzo motivo la contribuente lamenta la violazione o falsa applicazione delle norme di diritto e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, di cui alla parte della sentenza relativa alla definizione agevolata delle sanzioni.

3.1 In buona sostanza la parte ricorrente censura il capo della sentenza con cui la CTR si pronuncia sulle sanzioni, affermando di aver esposto, sin dal primo grado di giudizio, la “propria posizione nei confronti degli avvisi di accertamento”, che la definizione delle sanzioni sarebbe stata effettuata ante giudizio di primo grado, sicché la sentenza sarebbe illogica e contraddittoria.

Il motivo può ritenersi assorbito dall’accoglimento di quello che precede, ritornando alla cognizione del giudice di merito l’intera questione sanzionatoria.

5. Con il quarto motivo la contribuente protesta la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 3, per omessa pronuncia su una parte della domanda. Denunzia, infatti, il vizio di nullità della sentenza per aver la CTR omesso di pronunciarsi sulla domanda svolta in via subordinata di imputare l’IVA indetraibile accertata ad incremento del costo del bene o servizio cui afferisce e, per l’effetto, di rideterminare i valori riferiti all’imposta sul reddito e all’Irap.

Il motivo è inammissibile.

5.1 In disparte l’erronea indicazione del “numero” dell’art. 360 c.p.c. (il n. 3, in luogo del n. 4), il motivo è inammissibile per aver la ricorrente ha trascritto le sole “conclusioni” rassegnate avanti la CTR, omettendo però di trascrivere l’intero motivo di ricorso che assume ignorato e di fatto impedendo a questa Corte di operare il necessario raffronto tra il chiesto e il pronunciato, anche onde verificare che quanto dedotto non rappresenti un quid novi. Sul punto è noto che il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass. civ. Sez. 2, Sent., 20-08-2015, n. 17049; Cass. civ., Sez. 2, n. 7825 del 04/04/2006; Cass. civ., Sez. 6-3, Ord. n. 1926 del 03/02/2015). Tale principio si applica anche nel caso in cui il ricorrente denunzi che il giudice di appello abbia omesso di pronunziare su apposita censura mossa con l’atto di gravame.

5.2 Ed invero, non essendo tale censura esposta nella sentenza di secondo grado, era onere del ricorrente trascriverla nel ricorso, onde consentire alla Corte, da un lato, di verificare che la questione prospettata non fosse “nuova” e – come tale – inammissibile (Cass. n. 2140/2006), dall’altro di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (Cass. n. 17049/2015).

In ogni caso, il motivo si rivela infondato.

6. Dalla lettura del ricorso (pag. 7) si evince infatti che la domanda, svolta dalla contribuente in via subordinata e alternativa, aveva ad oggetto in principalità l’accertamento e la declaratoria della corretta tenuta della contabilità e, “per l’effetto” la riforma degli avvisi di accertamento previa rideterminazione dell’IVA. Sennonché la CTR ha ritenuto non corretta la tenuta della contabilità da parte della contribuente sicché non poteva aderire alla richiesta di rideterminazione dell’IVA, come tale oggetto di assorbimento per rigetto implicito.

6.1 Come è noto, infatti “l’assorbimento di una domanda in senso proprio ricorre quando la decisione sulla domanda assorbita diviene superflua, per sopravvenuto difetto di interesse della parte che, con la pronuncia sulla domanda assorbente, ha conseguito la tutela richiesta nel modo più pieno, mentre quello in senso improprio è ravvisabile quando la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande (Cass. n. 2193/2020, cit.; Cass. 12/11/2018, n. 28995; Cass. 28663; Cass. 27/12/2013, n. 28995)” (Cfr. Cass., II, n. 29013/2020).

Il motivo va pertanto disatteso.

7. Con il quinto ed ultimo motivo la contribuente censura la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 3, per contrasto tra motivazione e dispositivo. Lamenta, in particolare, un insanabile contrasto tra la motivazione della sentenza ed il suo dispositivo. Infatti, avendo la CTR accolto l’appello e confermato le imposte accertate, la sentenza d’appello avrebbe riformare in modo integrale e non meramente parziale la decisione di primo.

Il motivo è infondato.

8.In materia, invero, costituisce affermazione ripetuta nella giurisprudenza di questa Corte quella secondo cui “il contrasto tra motivazione e dispositivo che determina la nullità della sentenza ricorre solo se ed in quanto esso incida sulla idoneità del provvedimento, nel suo complesso, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, ricorrendo nelle altre ipotesi un mero errore materiale” (Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 26074 del 17/10/2018, Rv. 651108-01) e, ancora, “non sussiste contrasto insanabile tra motivazione e dispositivo qualora entrambi siano tesi a disattendere il gravame ove la divergenza sia dovuta a mero errore materiale, sicché, in tale evenienza, va esclusa la nullità della sentenza” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 24841 del 21/11/2014, Rv. 633436-01). (cfr. Cass., V, n. 5773/2021, n. 8888/2021).

8.1 Nella fattispecie in esame, la CTR ha impropriamente disposto la riforma parziale della sentenza sull’assunto dell’assorbimento dei profili di rito e di merito non trattati. In chiusura della parte motivazionale della sentenza, la CTR ha infatti dichiarato “Le considerazioni che precedono risultano quindi assorbenti e rendono irrilevante ogni altra eccezione sia di diritto che di merito, pertanto alla luce di quanto sopra esposto ed allo stato dei fatti, null’altro emergendo e nessun altro atto risultando, il Collegio ritiene di dover aderire alle ragioni addotte dall’Ufficio, quindi, in parziale riforma della sentenza impugnata accoglie l’appello dell’Agenzia, confermando le imposte accertate”. La riforma parziale, ancorché redatta con una formula impropria, è stata quindi assunta dalla CTR sul presupposto di ritenere assorbite alcune censure. In ogni caso, dalla sua lettura è agevole comprendere, in base alle esposte argomentazioni (volte alla riforma della decisione di prime cure), che la C.T.R. abbia inequivocabilmente inteso accogliere l’appello dell’Agenzia, confermando le imposte accertate, come peraltro riconosciuto dalla stessa parte ricorrente.

Il motivo va pertanto disatteso.

In conclusione il ricorso va accolto nei limiti di cui in motivazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il terzo e respiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 11 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2021

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