Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25627 del 22/09/2021

Cassazione civile sez. trib., 22/09/2021, (ud. 11/06/2021, dep. 22/09/2021), n.25627

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – rel. Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7711/2015 R.G. proposto da:

B.M. e R.R., entrambi in proprio e in qualità di

soci della estinta società “Farmacia Eredi B. Dott. G.

di R.R. e C. s.n.c.”, con i prof.i avv.i Andrea Carinci e

Giuseppe Maria Cipolla, e con domicilio eletto presso lo studio del

secondo in Roma, Viale Giuseppe Mazzini n. 134;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante p.t.,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio ex lege in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per il

Veneto, Sez. distac. di Verona, n. 1358/15/14, pronunciata il 12

maggio 2014 e depositata il 16 settembre 2014, non notificata; Udita

la relazione svolta nella Camera di consiglio del 11 giugno 2021 dal

Co: Marcello M. Fracanzani.

 

Fatto

RILEVATO

1.La società “Farmacia Eredi B. Dott. G. di R.R. e C. s.n.c.” era oggetto, nel marzo del 2010, di una verifica fiscale, presso la propria sede, ai fini delle imposte dirette, Iva e Irap per l’anno d’imposta 2007. Benché la società fosse stata cancellata dal registro delle imprese in data (OMISSIS), l’Ufficio elevava in data (OMISSIS) un p.v.c. nei confronti della suddetta società con cui contestava maggiori ricavi per Euro 303.150,43.

2. L’Ufficio confermava i propri rilievi nonostante il contraddittorio instaurato, emettendo un avviso di accertamento con cui veniva accertato in capo alla società contribuente un maggior reddito d’impresa da imputare ai soci ex art. 5 TUIR, maggiori IVA e IRAP, oltre alle relative sanzioni. A detto avviso facevano seguito due distinti atti impositivi diretti agli ex soci R.R. e B.M., ai quali veniva contestato il maggior reddito di partecipazione ex art. 5 TUIR, in ragione delle rispettive quote.

3. I contribuenti R.R. e B.M. impugnavano, in qualità di ex soci e in proprio, i tre atti impositivi ove venivano svolti plurimi motivi di ricorso. La Commissione tributaria provinciale respingeva le difese dell’Ufficio, medio tempore costituitosi e, in accoglimento dei tre ricorsi riuniti, annullava gli atti impositivi.

4. Il giudizio di appello promosso dall’Ufficio esitava, invece, in favore dell’Amministrazione finanziaria.

5. Invocano ora la cassazione della sentenza i contribuenti R.R. e B.M., in proprio ed in qualità di ex soci della società “Farmacia Eredi B. Dott. G. di R.R. e C. s.n.c.”, affidandosi a sei motivi di ricorso, cui replica l’Avvocatura dello Stato con tempestivo controricorso.

In prossimità dell’adunanza, la parte privata ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

1. Con il primo motivo i ricorrenti prospettano la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, in combinato disposto con l’art. 2495 c.c., e falsa applicazione degli artt. 156 e 160 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. In particolare denunziano l’illegittimità della sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto che l’avviso di accertamento emesso nei confronti della estinta “Farmacia Eredi B.” fosse affetto da mera nullità, come tale sanabile ai sensi degli art. 156 e 160 c.p.c., anziché da una causa di inesistenza. L’avviso di accertamento era stato invero emesso nei confronti di un soggetto non più esistente ma notificato ad un suo ex socio, per di più in qualità di legale rappresentante di un altro e diverso soggetto giuridico.

Il motivo è infondato.

2.In materia di notifica inesistente e nulla questa Corte, a Sezioni Unite ed ancorché in rapporto alla notificazione del ricorso per cassazione, ha affermato che “L’unica norma del codice di procedura civile che si occupa dell’invalidità della notificazione è l’art. 160, il quale, sotto la rubrica “Nullità della notificazione”, dispone che “La notificazione è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia, o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data, salva l’applicazione degli artt. 156 e 157”. Ai fini che qui interessano assume centrale rilievo l’art. 156 (“Rilevanza della nullità”), il quale prevede che: “Non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge” (comma 1); “Può tuttavia essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo” (comma 2); “La nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato” (comma 3). Una prima osservazione può essere già formulata: in tema di notificazione, come in generale di atti processuali, il codice non contempla la categoria della “inesistenza”, nemmeno con riguardo alla sentenza priva della sottoscrizione del giudice, qualificata come affetta da nullità per la quale è tuttavia esclusa, ai sensi dell’art. 161 c.p.c., comma 2, l’applicazione del principio dell’assorbimento nei mezzi di gravame -sul tema cfr. ora Cass., sez. un., n. 11021 del 2014 -; nullità, quindi, assolutamente insanabile (in relazione alla quale viene evocata, da una gran parte della dottrina e della giurisprudenza, la figura della inesistenza). Tale constatazione, tuttavia, per un verso non è appagante: il legislatore non ha motivo di disciplinare gli effetti di ciò che non esiste, non solo, com’e’ ovvio, dal punto di vista storico-naturalistico, ma anche sotto il profilo giuridico; per altro verso, induce a ritenere che la nozione di inesistenza della notificazione debba essere definita in termini assolutamente rigorosi, cioè confinata ad ipotesi talmente radicali che il legislatore ha, appunto, ritenuto di non prendere nemmeno in considerazione (già da tempo la giurisprudenza ha sottolineato l’esigenza di assegnare carattere residuale alla categoria dell’inesistenza della notificazione: Cass., sez. un., n. 22641 del 2007 e n. 10817 del 2008; Cass. n. 6183 del 2009 e n. 12478 del 2013). In definitiva, deve affermarsi che l’inesistenza della notificazione è configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile quell’atto. L’inesistenza non e’, dunque, in senso stretto, un vizio dell’atto più grave della nullità, poiché la dicotomia nullità/inesistenza va, alla fine, ricondotta alla bipartizione tra l’atto e il non atto. Rilievo fondamentale va attribuito in materia al citato art. 156 c.p.c. (richiamato dall’art. 160), nel quale trova diretta espressione – unitamente agli artt. 121 (“Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo”) e 131, comma 1 (secondo il quale, quando la legge non prescrive che il giudice pronunci sentenza, ordinanza o decreto, “i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al raggiungimento del loro scopo”) – il principio di strumentalità delle forme degli atti processuali, che permea l’intero codice di procedura civile ed al quale, quindi, l’interprete deve costantemente ispirarsi. Le forme degli atti, cioè, sono prescritte al fine esclusivo di conseguire un determinato scopo, coincidente con la funzione che il singolo atto è destinato ad assolvere nell’ambito del processo, e così, in definitiva, con lo scopo ultimo del processo, consistente nella pronuncia sul merito della situazione giuridica controversa: che il principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., ed all’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, comprenda, tra i valori che intende tutelare (oltre alla durata ragionevole del processo, all’imparzialità del giudice, alla tutela del contraddittorio, ecc.), il diritto di ogni persona ad un “giudice” che emetta una decisione sul merito della domanda ed imponga, pertanto, all’interprete di preferire scelte ermeneutiche tendenti a garantire tale finalità, costituisce affermazione acquisita nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., sez. un., nn. 15144 del 2011, 17931 del 2013, 5700 del 2014, nonché Cass. nn. 3362 del 2009, 14627 del 2010, 17698 del 2014, 1483 del 2015), anche alla luce di quella della Corte EDU, la quale ammette limitazioni all’accesso ad un giudice solo in quanto espressamente previste dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (v., tra altre, Omar c. Francia, 29 luglio 1998; Bellet c. Francia, 4 dicembre 1995), ponendo in rilievo la esigenza che tali limitazioni siano stabilite in modo chiaro e prevedibile (v., ad es., Faltejsek c. Rep. Ceca, 15 agosto 2008). In particolare, riveste importanza decisiva il citato art. 156, comma 3, il quale, dopo che nel comma precedente è previsto che la nullità può essere pronunciata – anche al di là dell’espressa comminatoria di legge – “quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”, stabilisce, con formula perentoria e di chiusura, che la nullità “non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”. Da tale norma discendono, per quanto concerne la notificazione, le seguenti conseguenze: a) occorre che un “atto”, riconoscibile come “notificazione”, esista, nei ristretti termini sopra indicati, e che verranno di seguito precisati; b) se così e’, qualunque vizio dell’atto ricade nell’ambito della nullità, senza che possa distinguersi, al fine di individuare ulteriori ipotesi di inesistenza attraverso la negazione del raggiungimento dello scopo, tra valutazione ex ante e constatazione ex post, poiché il legislatore ha chiaramente inteso dare prevalenza a quest’ultima – in piena attuazione del principio della strumentalità delle forme -, cioè ai dati dell’esperienza concreta, sia pure dovuta ad accadimenti del tutto accidentali, rispetto agli elementi di astratta potenzialità e prevedibilità. Scopo della notificazione è quello di provocare la presa di conoscenza di un atto da parte del destinatario, attraverso la certezza legale che esso sia entrato nella sua sfera di conoscibilità, con gli effetti che ne conseguono (in termini – per quanto qui interessa – di instaurazione del contraddittorio). In presenza di una notificazione nulla, così come opera la sanatoria per raggiungimento dello scopo, attraverso la costituzione in giudizio della parte intimata, correlativamente, in mancanza di tale costituzione, il giudice, ai sensi dell’art. 291 c.p.c., deve dispone la rinnovazione della notificazione (fissando a tal fine un termine perentorio), a meno che la parte stessa non abbia a ciò già spontaneamente provveduto. Entrambi i rimedi, che sono previsti a fronte del verificarsi del medesimo presupposto della nullità della notificazione – con l’unica peculiarità che l’attivazione spontanea della parte (con la costituzione o la rinnovazione) rende superfluo l’intervento del giudice -, operano con efficacia ex tunc, cioè sanano con effetto retroattivo il vizio della notificazione (quella originaria, nel caso di rinnovazione): ciò è previsto espressamente nel citato art. 291 (“la rinnovazione impedisce ogni decadenza”), si configura come una normale qualità del concetto di sanatoria e costituisce un’ulteriore espressione del principio di strumentalità delle forme. Va ribadito, per completezza, che il detto effetto sanante prodotto dalla costituzione del convenuto – la quale non è mai tardiva, poiché la nullità della notificazione impedisce la decorrenza del termine (per tutte, Cass., sez. un., n. 14539 del 2001) – opera anche nel caso in cui la costituzione sia effettuata al solo fine di eccepire la nullità (tra altre, Cass., sez. un., n. 5785 del 1994; Cass. nn. 10119 del 2006, 13667 del 2007, 6470 del 2011). La notificazione è solitamente definita come una sequenza di atti, un procedimento, articolato in fasi e finalizzato allo scopo indicato nel paragrafo precedente. Gli elementi costitutivi imprescindibili di tale procedimento vanno individuati, quanto al ricorso per cassazione: a) nell’attività di trasmissione, che deve essere svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere l’attività stessa, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento, in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita: restano, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, sì da dover reputare la notifica meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa. La presenza di detti requisiti, che possono definirsi strutturali, va ritenuta idonea ai fini della riconoscibilità dell’atto come notificazione: essi, cioè, sono sufficienti a integrare la fattispecie legale minima della notificazione, rendendo qualificabile l’attività svolta come atto appartenente al tipo previsto dalla legge” (Cfr. Cass., Sez. Un., n. 14916 del 2016).

In margine, giova ricordare che per le società di persone, quale qui si tratta, sussiste la responsabilità illimitata ex art. 2291 c.c., donde è sufficiente che il socio sia nominativamente indicato e come tale qualificato nell’atto impositivo (Cfr. Cass. S.U. n. 6070/2013).

Il motivo è pertanto infondato e va respinto.

3. Con il secondo motivo la parte ricorrente avanza censura ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), nonché del D.P.R. n. 633 del 1972, art., comma 2, e dell’art. 2729 c.c.. In particolare, critica il capo della sentenza che ha accolto il computo dei rincari proposto dall’Ufficio sulla base del metodo di calcolo della media semplice anziché di quella ponderata.

3.1 Con il terzo motivo i contribuenti protestano la nullità della sentenza per mancanza del requisito della motivazione ex art. 111 Cost., comma 6; D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Affermano, a tal fine, che la sentenza sarebbe illegittima nella parte in cui, a fronte delle censure mosse dei ricorrenti, nulla avrebbe statuito in ordine all’utilizzo del sistema della media semplice in luogo di quella ponderata, tenuto conto che l’accertamento D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, sarebbe legittimo solo se operato con il sistema della media ponderata.

4. I due motivi, strettamente connessi tra loro, possono essere esaminati congiuntamente e meritano di essere entrambi respinti.

Questa Corte ha invero affermato che “l’infondatezza del motivo discende dal noto insegnamento di questa Corte, che il Collegio condivide, secondo cui “nell’accertamento tributario, fondato sulle percentuali di ricarico della merce venduta, la scelta tra il criterio della media aritmetica semplice e di quella ponderata dipende, rispettivamente, dalla natura omogenea o disomogenea degli articoli e dei ricarichi, assumendo il criterio della media aritmetica semplice valenza indiziaria, al fine di ricostruire i margini di guadagno realizzato sulle vendite effettuate “a nero”, quando il contribuente non provi, ovvero non risulti in punto di fatto, che l’attività sottoposta ad accertamento ha ad oggetto prodotti con notevole differenza di valore, e che quelli maggiormente venduti presentano una percentuale di ricarico molto inferiore a quella risultante dal ricarico medio. In mancanza di tali presupposti, è legittima la presunzione che la percentuale di ricarico applicata sulla merce venduta in evasione di imposta è uguale a quella applicata sulla merce commercializzata ufficialmente, a meno che il contribuente non provi di aver venduto a prezzi inferiori le merci non documentate, e ciò anche con riferimento alla media del medesimo settore merceologico, come nella specie” (cfr. Cass. n. 951, n. 14328, e n. 26312 del 2009, nonché n. 27568 del 2013). Si è peraltro precisato che “l’atto di rettifica, qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato, sia specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste di bilancio, sia dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, perché proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo, come nel caso in esame” (cfr. Cass. n. 27568 del 2013, e n. 951 del 2009, citate, nonché Cass. n. 24532 del 2007). Orbene, nella specie, a fronte dell’accertamento in fatto compiuto dalla Commissione di appello, che, andando di contrario avviso alla Commissione di primo grado che aveva ritenuto inattendibile l’accertamento dell’ufficio “perché basato su una media semplice e non ponderata, non misuratamente riepilogativa delle caratteristiche di prezzo della moltitudine dei prodotti esitati dalla farmacia” (pag. 2 della sentenza impugnata), ha invece sostenuto “che il campione di prodotti esaminato dall’Ufficio (ben 46), sia sufficientemente significativo” (pag. 2) e che, avendo rilasciato percentuali sostanzialmente omogenee, la media aritmetica semplice applicata dall’ufficio del 39,09, può ritenersi attendibile (pag. 3), non risulta né è stato dedotto che la ricorrente abbia fornito una qualche prova contraria.” (Cfr. Cass., V, n. 22432/2016).

4.1 Nel caso in commento risulta dalla piana lettura della sentenza impugnata, da un lato, che il calcolo dei rincari operato dall’Ufficio sia stato eseguito dopo la suddivisione delle merci in tre macrosettori merceologici, senza commistione tra loro e, dall’altro, che il contribuente non ha offerto alcuna prova contraria effettiva circa la differenza di valore della merce venduta.

Il secondo motivo è pertanto infondato.

4.3 Conseguentemente va disatteso anche il terzo motivo, avendo riguardo al principio consolidato nella “…giurisprudenza di questa Corte secondo la quale (Cass. VI- 5, n. 9105/2017) ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento. In tali casi la sentenza resta sprovvista in concreto del c.d. “minimo costituzionale” di cui alla nota pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U, n. 8053/2014, seguita da Cass. VI – 5, n. 5209/2018).” Ne consegue che “…non ricorre vizio di omessa pronuncia quando la soluzione negativa data a una domanda della parte sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, incompatibile con l’accoglimento di detta domanda (Cass., 18 maggio 1973, n. 1433; Cass., 28 giugno 1969, n. 2355), ossia, in altri termini, quando la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se manchi una specifica argomentazione sul punto (Cass., 21 ottobre 1972, n. 3190; Cass., 17 marzo 1971, n. 748; Cass., 23 giugno 1967, n. 1537)” (Cfr. Cass., V. n. 7662/2020).

Al predetto orientamento questo Collegio ritiene di dare continuità, per cui il terzo motivo dev’essere rigettato.

5. Con il quarto motivo la parte ricorrente si duole della nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. In particolare avanza censura per aver la CTR omesso di pronunciarsi sullo specifico motivo di gravame relativo alla errata determinazione del costo del venduto dei farmaci di fascia A, impiegato per ricostruire indirettamente il costo del venduto dei farmaci diversi e su cui poi sono stati applicati i coefficienti di rincaro.

Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

5.1 E’ infondato per le stesse argomentazioni svolte al motivo precedente, ove si è affermato che “… non ricorre vizio di omessa pronuncia quando la soluzione negativa data a una domanda della parte sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, incompatibile con l’accoglimento di detta domanda (Cass., 18 maggio 1973, n. 1433; Cass., 28 giugno 1969, n. 2355), ossia, in altri termini, quando la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se manchi una specifica argomentazione sul punto (Cass., 21 ottobre 1972, n. 3190; Cass., 17 marzo 1971, n. 748; Cass., 23 giugno 1967, n. 1537)” (Cfr. Cass., V. n. 7662/2020). La pronuncia ricorda, inoltre, la più recente Cass. 9 marzo 2011, n. 5583, secondo cui non sarebbe richiesto al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica e adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse. (Cfr. Cass., V. n. 7662/2020).

5.2 Nella fattispecie in esame la CTR ha reso la pronuncia richiesta, peraltro nella parte richiamata dagli stessi ricorrenti: la circostanza che essa non dia conto di tutti i profili espressi nei precedenti gradi di merito non comporta il denunziato vizio di omessa pronuncia ma unicamente il fatto che la CTR abbia implicitamente rigettato gli ulteriori profili ivi dedotti.

5.3 La censura è invece inammissibile laddove i ricorrenti tentano surrettiziamente di ottenere da questa Corte un esame sul merito delle modalità di calcolo dei ricavi per le vendite SSN ai fini dello scorporo del costo del venduto.

Il motivo deve pertanto essere respinto.

6. Con la quinta doglianza i contribuenti prospettano la nullità, sotto altro profilo, della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. In sintesi, affermano che la CTR avrebbe omesso di pronunciarsi sulla censura svolta nei precedenti gradi di merito e relativa alla necessità di scomputare l’IVA da taluna delle voci usate per la ricostruzione dei ricavi.

Il motivo è infondato.

6.1 La violazione del principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, fissato dall’art. 112 c.p.c., sussiste quando il giudice attribuisce, o nega, ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno virtualmente, nella domanda, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda; tale violazione, invece, non ricorre quando il giudice non interferisca nel potere dispositivo delle parti e non alteri nessuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (Cass. 17 gennaio 2018, n. 906; Cass. 22 marzo 2007, n. 6945).

6.2 Nel caso in commento la CTR ha respinto la censura della ricorrente con una decisione che non risulta basata su fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, essendo sempre circoscritta all’applicabilità dell’accertamento analitico-induttivo eseguito dall’Ufficio.

6.3 In ogni caso, la censura svolta è infondata anche un sotto e più pregnante motivo. Infatti, in ipotesi di scorporo dell’IVA dalle voci esaminate nel corso di un accertamento analitico induttivo questa Corte ha invero affermato che “Si ha riguardo ad un volume d’affari ricostruito in maniera analitico-induttiva, ossia prendendo le mosse dall’inattendibilità della documentazione contabile, ivi comprese le fatture. (…). La caratteristica di neutralità dell’Iva esclude la fondatezza della censura: il regime dell’Iva è difatti volto a sollevare interamente l’imprenditore dall’onere dell’imposta dovuta o versata nell’ambito di tutte le sue attività economiche, al fine di garantire la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano, in linea di principio, di per sé soggette all’IVA. Qualora l’Iva non sia stata applicata, o non vi è prova che lo sia stata, dunque, essa non può essere scorporata” (Cfr. Cass., V, n. 6951/2017).

Il quinto motivo va pertanto disatteso.

7. Con l’ultimo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la nullità sotto altro profilo della sentenza per mancanza del requisito della motivazione ex art. 111 Cost., comma 6, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; segnatamente, criticano l’illegittimità della sentenza nella parte in cui ha calcolato la percentuale di ricarico dei prodotti, erronea in tesi dei ricorrenti perché basata, ancora una volta, sulla media aritmetica semplice anziché su quella ponderata. Affermano pertanto che la CTR avrebbe omesso anche una pur concisa esposizione dei motivi di rigetto della media di calcolo proposta dai contribuenti, in particolare laddove ha escluso la percentuale più bassa operata dai ricorrenti, includendo invece quella più alta che, per simmetria, avrebbe dovuto essere parimenti esclusa.

Il motivo non merita accoglimento.

7.1 La sentenza del giudice di appello è stata depositata il 16.09.2014, sicché trova applicazione il nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze pubblicate a decorrere dall’11.09.2012, sicché il vizio di motivazione è relegato solo all’omesso esame di un fatto decisivo e controverso tra le parti. In particolare è stato ribadito anche da recenti arresti che “Per questa Corte, a sezioni unite, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053). Inoltre, per questa Corte, in tema di contenuto della sentenza, la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa non costituisce un elemento meramente formale, bensì un requisito da apprezzarsi esclusivamente in funzione dell’intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione (Cass., sez. 5, 20 gennaio 2015, n. 920); sicché la concisione della motivazione non può prescindere dall’esistenza di una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione (Cass., sez. 3, 15 novembre 2019, n. 29721). La mancata esposizione dei fatti rilevanti della causa e l’estrema concisione della motivazione in diritto danno luogo a nullità della sentenza quando rendono impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni che stanno a fondamento del dispositivo (Cass., sez. 5, 24 marzo 2006, n. 6660)” (cfr. Cass., V, n. 13554/2020).

7.3 Nella fattispecie in esame non sussiste il dedotto vizio motivazione per due ragioni.

Invero, la CTR ha espressamente richiamato la censura dai contribuenti sia nella parte in fatto (v. pag. 5 al punto 4), sia nella parte in diritto (v. pag. 7), ivi dando atto che la percentuale di ricarico applicata era “inferiore alla media del settore”. Ivi ha inoltre riassunto la censura svolta dai contribuenti che chiedevano l’esclusione dei due dati (il più alto e il più basso), respingendola sull’assunto che quello più basso era proprio la percentuale di ricarico operata dalla società. In tale contesto, appare congrua e correttamente motivata la decisione della CTR: era infatti la percentuale operata dalla società, inferiore alla media di settore, a poter alterare il calcolo del ricarico, mentre alcuna contestazione specifica è stata mossa dai contribuenti rispetto a quella più alta, se non l’invocata simmetria di posizioni.

7.4 In ogni caso, risulta evidente che, in ordine al prospettato vizio di motivazione, il ricorrente non si sia limito a prospettare a questa Corte un controllo sulla sufficienza e coerenza del percorso argomentativo utilizzato dal giudice di merito, ambendo piuttosto ad una rinnovazione del giudizio comparativo già adeguatamente espletato dai giudici di appello, al fine di ottenere un inammissibile diverso giudizio di questa Corte che si sostituisca a quello già espresso dalla Commissione regionale (cfr. Cass., V, n. 14588/2020). Anche l’ultimo motivo deve pertanto essere rigettato.

8. Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la parte contribuente ha rappresentato il sopravvenuto regime giuridico più favorevole in tema di sanzioni e ne ha chiesto il ricalcolo, dimostrando come l’applicazione dell’invocato ius superveniens sarebbe di effettivo suo vantaggio. Il thema può essere introdotto in sede di giudizio di legittimità e, ove sia dimostrato l’effettivo vantaggio, il profilo dev’essere rimesso al giudice di merito.

PQM

La Corte, pronunciando sul ricorso, rigetta i motivi di ricorso; cassa la sentenza impugnata, limitatamente al profilo delle sanzioni e rinvia per la loro rideterminazione alla CTR per il Veneto, Sezione staccata di Verona in diversa composizione, cui demanda altresì la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 11 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2021

 

 

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