Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2562 del 04/02/2020

Cassazione civile sez. I, 04/02/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 04/02/2020), n.2562

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – rel. Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. LIBERATI Giovanni – Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 34201/2018 proposto da:

Y.B., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Luca Froldi, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il giorno

08/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/12/2019 dal Cons. Dott. LUCIA TRIA.

Fatto

RILEVATO

che:

1. il Tribunale di Ancona, con decreto pubblicato il giorno 8 ottobre 2018, respinge il ricorso proposto da Y.B., cittadina del Ghana, avverso il provvedimento con il quale la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha, a sua volta, rigettato la domanda di protezione internazionale proposta dall’interessata escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria);

2. il Tribunale, per quel che qui interessa, precisa che:

a) il richiedente non ha allegato di essere affiliato politicamente o di aver preso parte ad attività di associazioni per i diritti civili, nè di appartenere ad una minoranza etnica e/o religiosa oggetto di persecuzione come richiesto per la protezione internazionale nè lo stesso risulta compreso nelle categorie di persone esposte a violenze, torture o altre forme di trattamento inumano;

b) pertanto, i fatti riferiti non sono riconducibili alle previsioni della Convenzione di Ginevra, non emergendo alcuna situazione di persecuzione diretta e personale;

c) neppure sussistono i presupposti per la protezione sussidiaria, visto che le notizie raccolte da aggiornate fonti internazionali affidabili evidenziano che il Paese di origine della richiedente non è interessato da situazioni di violenza indiscriminata o di conflitto armato – pur nell’ampia accezione indicata dalla giurisprudenza – che possano coinvolgere la ricorrente, visto che da molti anni in Ghana vige una democrazia ben funzionante nella quale da qualche tempo vi è attenzione per la tutela dei diritti umani;

d) peraltro il racconto della richiedente è apparso contraddittorio e incoerente e, anche ove credibile, riguardante una vicenda di vita privata e giustizia comune, che esula dalla protezione internazionale;

e) neppure può essere concessa la protezione umanitaria perchè la situazione del Paese di provenienza esclude la sussistenza di una condizione di elevata vulnerabilità all’esito del rimpatrio, le condizioni individuali di vulnerabilità rappresentate dal ricorrente non consentono da sole il rilascio del permesso per motivi umanitari;

f) nè la problematica di salute evidenziata dalla ricorrente giustifica, da sola, il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, visto che comunque l’operazione chirurgica è stata ultimata e il periodo di convalescenza è terminato inoltre l’interessata è stata finora iscritta al SSN, non è in pericolo di vita nè necessita di farmaci ritenuti indisponibili nel Paese di origine inoltre il rigetto del permesso di soggiorno per motivi umanitari non impedisce alla richiedente di chiedere permessi specifici per la tutela della propria salute;

g) infine, in base ad una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare della richiedente in Italia e quella vissuta prima della partenza non può dirsi che, in caso di espatrio, ella possa trovarsi in una condizione di vulnerabilità;

3. il ricorso di Y.B. domanda la cassazione del suddetto decreto per due motivi; il Ministero dell’Interno resta intimato.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. il ricorso è articolato in due motivi;

1.1. con il primo motivo si denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, rilevandosi che il Tribunale ha respinto sia la domanda di protezione sussidiaria sia quella di protezione umanitaria senza effettuare le richieste verifiche circa la veridicità dei fatti narrati attraverso lo svolgimento del ruolo istruttorio attivo che gli compete;

1.2. con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per avere il Tribunale sottovalutato la vicenda della ricorrente che è vittima di un’estorsione realizzata in ambito internazionale, in precedenza anche in danno del marito, pervenendo automaticamente al rigetto della domanda di protezione umanitaria per effetto di quello disposto per la protezione internazionale;

2. l’esame congiunto dei motivi di censura – reso opportuno dalla loro intima connessione – porta alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso, per le ragioni di seguito esposte;

2.1. in linea generale va rilevato che le censure proposte, nella sostanza, si risolvono nella denuncia, di per sè inammissibile, di errata valutazione da parte del Giudice del merito del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti sulla cui base sono state respinte le domande di protezione internazionale e di protezione umanitaria, esse pertanto finiscono con l’esprimere un mero – e, di per sè, inammissibile – dissenso rispetto alle motivate valutazioni delle risultanze processuali effettuate dal Tribunale a proposito della condizione personale del ricorrente sulla base sia dei dati tratti da fonti accreditate sia delle dichiarazioni dell’interessato;

2.2. va in particolare sottolineato che la deduzione nel ricorso per cassazione del vizio di violazione di legge, consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (cd. vizio di sussunzione), postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito (vedi, per tutte: Cass. 13 marzo 2018, n. 6035);

2.3. nella specie, le censure – pur formalmente formulate come vizi di violazione di norme legge – nella sostanza si traducono in una inammissibile denuncia di errata valutazione da parte del Giudice del merito del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti, effettuata nell’esercizio di un sindacato non censurabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di motivazione, peraltro nei ristretti limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5;

2.4. ciò è quanto si verifica nella specie, visto che con i profili di censura in oggetto non si denunciano vizi propri della sentenza impugnata per violazioni di norme di diritto, ma principalmente si prospettano carenze ed errori della sentenza stessa e sostanzialmente ci si limita a contestare, in modo peraltro generico – e con improprio richiamo all’intero fascicolo di parte del giudizio di merito, come tale in contrasto con il principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione (vedi, per tutte: Cass. 24 marzo 2006, n. 6679) – la valutazione delle risultanze processuali fatta dai giudici del merito;

3. a ciò va aggiunto che nel ricorso non viene utilmente contestata la statuizione del Tribunale secondo cui il racconto della richiedente anche ove credibile, riguarda una vicenda di vita privata e giustizia comune, che esula dalla protezione internazionale, statuizione che è conforme alla consolidata e condivisa giurisprudenza di questa Corte secondo cui le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello “status” di rifugiato, (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria, (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave soltanto ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi, comunque con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b), (tra le altre: Cass. 15 febbraio 2018, n. 3758);

3.1. ne deriva che la suindicata statuizione – basata su un accertamento di fatto non ritualmente contraddetto dalla ricorrente – è idonea di per sè a giustificare la contestata decisione di rigetto di ogni forma di protezione internazionale;

3.2. pertanto, la relativa omessa impugnazione rende inammissibile, per difetto di interesse, le censure sul punto, essendo la statuizione non censurata divenuta definitiva e quindi non potendosi più produrre in nessun caso il relativo annullamento (vedi, al riguardo: Cass. 7 novembre 2005, n. 21490; Cass. 26 marzo 2010, n. 7375; Cass. 7 settembre 2017, n. 20910; Cass. 3 maggio 2019, n. 11706);

4. tale situazione rende irrilevante l’invocazione dell’esercizio dei poteri istruttori officiosi del giudice;

5. d’altra parte, diversamente da quanto si sostiene nel ricorso, il rigetto della domanda di protezione umanitaria risulta essere il frutto di una specifica valutazione dei relativi presupposti, avendo il Tribunale escluso che le condizioni individuali di vulnerabilità rappresentate dalla ricorrente possano da sole consentire il rilascio del permesso per motivi umanitari, attraverso la valutazione delle condizioni di salute dell’interessata (non menzionate nel ricorso) nonchè in base ad una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare della richiedente in Italia e quella vissuta prima della partenza (che ha portato il Tribunale ad escludere che, in caso di espatrio, ella possa trovarsi in una condizione di vulnerabilità);

5.1. tali statuizioni non risultano impugnate in modo specifico nè si dimostra che l’interessata, nel giudizio di merito, abbia allegato e provato la sussistenza di elementi idonei a dimostrare una propria condizione di vulnerabilità e il proprio inserimento nel Paese ospitante, in conformità con quanto normativamente richiesto;

6. in sintesi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

7. le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza;

8. si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, ove il versamento ivi previsto risulti dovuto.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate Euro 2100,00 (duemilacento/00) per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 4 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2020

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