Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25604 del 21/09/2021

Cassazione civile sez. I, 21/09/2021, (ud. 15/09/2021, dep. 21/09/2021), n.25604

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8559/2019 proposto da:

O.S., domiciliato in Roma, Via Faà di Bruno, 15, presso lo

studio dell’Avvocato Marta Di Tullio, che lo rappresenta e difende

per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., domiciliato

presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato in Roma, Via

dei Portoghesi, 12, che lo rappresenta e difende per legge;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 375/2019 del Tribunale di Catanzaro, Sezione

specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale

e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea, depositato

il 01/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/09/2021 dal Cons. Dott. Laura Scalia.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Catanzaro, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea, con il decreto in epigrafe indicato ha respinto l’opposizione proposta D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, da O.S., cittadino nigeriano, dell’Edo State, avverso il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale ne aveva, a sua volta, rigettato la domanda di protezione internazionale e di permesso per ragioni umanitarie.

Il Tribunale, nel confermare la decisione amministrativa, ha ritenuto l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e del permesso per ragioni umanitarie, apprezzato, poi, l’assorbimento di ogni altra tutela prevista ex art. 10 Cost., comma 3, nelle forme tipizzate pure reclamate.

2. Il richiedente, nel racconto reso in fase amministrativa e nel corso dell’esame condotto in sede giurisdizionale, ha dichiarato di essere fuggito dal proprio Paese, la Nigeria (Edo State), per il timore di essere ucciso dallo zio che, sospettato della morte del padre dell’istante ne minacciava la madre e lo stesso richiedente, nell’affermato intento di convertire alla religione musulmana l’intera famiglia e di appropriarsi dei terreni relitti dal defunto, sostenuto in ciò dall’azione dei pastori fulani di cui era entrato a far parte.

3. Avverso l’indicato decreto O.S. ricorre in cassazione con tre motivi cui resiste con controricorso il Ministero dell’Interno.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente fa valere la violazione ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, dell’art. 16 della Direttiva procedure 2013/32 UE, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

I giudici di merito avevano valutato il racconto reso dal richiedente relativo ad una vicenda di natura privata e ritenuto non necessario adempiere al dovere di cooperazione istruttoria, non ponendo il dichiarante nella condizione di risolvere le contraddizioni pure ritenute nel racconto reso in fase amministrativa, mancando, nel corso dello svolto esame, di porre domande a chiarimento.

Il tribunale avrebbe dovuto acquisire d’ufficio informazioni sui pastori fulani per verificare se quanto riferito dal richiedente protezione fosse da ascriversi ad un fatto privato o se il timore di persecuzione o di danno grave fossero fondati.

Il richiedente aveva documentato la condizione di violenza indiscriminata nel proprio Paese ed aveva prospettato una situazione di danno grave, allegando l’assenza di controllo e di intervento dei poteri statali.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 5, 7 e art. 14, lett. b).

Il tribunale avrebbe dovuto indagare il fenomeno dei culti nigeriani ed accertare se le minacce di morte ricevute dal richiedente integrano il “danno grave” di cui all’art. 14, lett. b) cit., verificando se le autorità offrano protezione.

I motivi, da trattarsi congiuntamente perché relativi a questioni connesse, sono inammissibili perché generici e non calibrati sulla ratio del provvedimento impugnato.

Il tribunale infatti prende le mosse dallo scrutinio della credibilità interna ed esterna del racconto, che esclude per incompletezza e non coerenza, ritenendo quindi, e solo all’esito, di non doversi attivarsi ufficiosamente per indagare la portata del fenomeno dei pastori fulani.

I motivi non contestano la decisione impugnata quanto all’espresso giudizio di non credibilità del racconto – che pure per le vicende individuali narrate, costituisce il presupposto di ogni esercizio ufficioso dei poteri istruttori dei giudici di merito in materia di protezione internazionale nelle forme del rifugio e della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), (vd., Cass. 29/05/2020, n. 10286 ed arg. ex Cass. 28/07/2020, n. 16122)-, in tal modo rendendo inefficace la critica all’impugnato provvedimento.

E’ poi consolidato l’indirizzo di questa Corte di legittimità secondo il quale il giudizio sul racconto è giudizio sul fatto che può essere ricorso in cassazione, oltre che per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, per motivazione mancante, apparente o perplessa incapace di indicare la ratio dell’assunta decisione (ex multis: Cass. 02/07/2020, n. 13578; Cass. 19/06/2020, n. 11925; Cass. 05/02/2019, n. 3340) ipotesi, queste, neppure prospettate in ricorso.

In ordine ai chiarimenti che il tribunale avrebbe dovuto richiedere prima di confermare il giudizio di non credibilità del racconto formulato in sede amministrativa, vero è che siffatta censura, con cui si fa valere l’esistenza di un onere di collaborazione istruttoria del giudice di merito là dove questi ravvisi lacunosità del narrato reso dinanzi alla commissione territoriale, in alcun modo si confronta con la decisione in cui chiaro e’, invece, il richiamo ai contenuti dell’esame condotto in sede giurisdizionale sulle circostanze, nuove, dedotte in sede di ricorso (pp. 3-5 decreto).

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per avere il tribunale omesso di esaminare la domanda di protezione umanitaria non verificando il collegamento tra la situazione soggettiva e la condizione generale del paese in rapporto alle minacce di natura non privatistica ricevute e tali da integrare una situazione di vulnerabilità non dovendo il ricorrente dedurre ragioni diverse o alternative rispetto a quelle fatte valere per le diverse e maggiori protezioni internazionali.

Il motivo è inammissibile là dove non si confronta con la ratio dell’impugnata decisione che argomenta dalla inattendibilità del racconto per escludere delle vicende narrate il rilievo, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria (p. 18 decreto), nella rimarcata necessità dell’allegazione di diverse situazioni di vulnerabilità personale per il riconoscimento della protezione per ragioni umanitarie, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità che vuole per il riconoscimento di quella protezione una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, nel rilievo che, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo (Cass. 03/04/2019, n. 9304).

Il ricorso è conclusivamente inammissibile.

La natura delle censure proposte dal ricorrente, che giustifica la declaratoria di inammissibilità del ricorso, in applicazione del criterio della “ragione più liquida”, esclude la necessità di soffermarsi, in questa sede, sulla questione relativa all’invalidità della procura ad litem per mancanza di certificazione della data di rilascio, risolta in senso affermativo da una recente pronuncia di questa Corte (cfr. Cass., Sez. Un., 1/06/2021, n. 15177) e su quella, successiva, di rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35-bis, comma 13, introdotto dal D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 6, comma 1, lett. g), convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46 (cfr. Cass., Sez. III, 23/06/2021, n. 17970).

Il ricorrente va condannato al pagamento delle spese di lite in favore dell’amministrazione resistente, secondo soccombenza, come in dispositivo indicato.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere all’amministrazione resistente le spese di lite che liquida in Euro 2.100,00 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 15 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2021

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