Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25585 del 27/10/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 27/10/2017, (ud. 21/09/2017, dep.27/10/2017),  n. 25585

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24760-2013 proposto da:

FINANCIERE HONEYWELL SA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA P.ZA D’ARACOELI 1, presso

lo studio dell’avvocato MARCO CERRATO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GUGLIELMO MAISTO; con procura notarile del

Not. Dr. P.F.G. in (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 976/2013 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di

PESCARA, depositata il 18/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/09/2017 dal Consigliere Dott. GIACOMO MARIA STALLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Innacolata, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato MAISTO che ha chiesto

l’accoglimento e in subordine rimessione atti alla Corte di

Giustizia, l’Avvocato MAISTO alle ore 12,50 deposita brevi

conclusioni;

udito per il controricorrente che ha chiesto il rigetto.

Fatto

FATTI RILEVANTI E RAGIONI DELLA DECISIONE

p. 1.1 La società di diritto francese Financiere Honeywell SA propone quattro motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 976 del 18 settembre 2012 con la quale la commissione tributaria regionale dell’Abruzzo (Sez. St. di Pescara), ha ritenuto legittimo, in riforma della prima decisione, il diniego opposto dall’agenzia delle entrate (Centro Operativo di (OMISSIS)) alla sua istanza 28 aprile 2003 di rimborso del credito d’imposta (pari ad Euro 14.568.750,00) previsto dall’art. 10, comma 4, lett. b) della Convenzione contro le doppie imposizioni intercorsa tra Italia e Francia il 5 ottobre 1989, ratificata in Italia con L. n. 20 del 1992. Ciò in relazione al dividendo ad essa ricorrente corrisposto il 31 ottobre 2002 – senza ritenuta alla fonte D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 27, comma 3 – nella sua qualità di socio unico della italiana Honeywell Aftermarket srl.

La commissione tributaria regionale, in particolare, ha ritenuto che: – i dividendi in questione fossero stati esentati da imposizione tanto in Italia (mancata ritenuta alla fonte in sede di distribuzione) quanto in Francia (non essendo contestato che la società non avesse, su di essi, pagato imposte nel Paese di residenza), e ciò perchè fruitori del regime di esenzione di cui alla citata Direttiva madre-figlia; – tale circostanza evitasse, in radice, il verificarsi della doppia imposizione giuridica ed economica, con conseguente insussistenza del diritto della società di invocare altresì il trattamento previsto dalla citata Convenzione bilaterale Italia-Francia (credito d’imposta), la quale si poneva, con la suddetta Direttiva, in rapporto di alternatività e non di cumulo; – altrimenti ragionando, la società ricorrente avrebbe ottenuto un indebito vantaggio, contrario tanto alla ratio della Convenzione, quanto ai principi UE; – la ritenuta insussistenza della doppia imposizione esplicava effetto assorbente sull’ulteriore eccezione mossa dall’agenzia delle entrate, secondo cui la società non aveva comunque diritto al credito d’imposta stabilito dalla Convenzione, perchè non destinataria finale nè beneficiaria effettiva dei dividendi, bensì mera società-veicolo (conduit company) della capogruppo statunitense.

Resiste con controricorso l’agenzia delle entrate la quale ripropone, nella denegata ipotesi di ritenuta fondatezza dei motivi di ricorso avversari, l’eccezione di non spettanza del credito d’imposta stante la mancanza, nella società ricorrente, della qualità di beneficiaria effettiva dei dividendi.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c., nonchè – in chiusura di udienza – “brevi osservazioni ex art. 379 c.p.c., u.c., a seguito delle conclusioni del pubblico ministero”.

p. 1.2 Va preliminarmente rilevata l’inammissibilità del deposito di tali brevi osservazioni; delle quali, pertanto, non potrà essere tenuto conto.

Il ricorso in esame (chiamato ad un’udienza fissata successivamente alla data di entrata in vigore del D.L. n. 168 del 2016, conv. in L. n. 197 del 2016) è infatti assoggettato alla nuova disciplina processuale così introdotta; la quale ha soppresso la previgente facoltà, per gli avvocati delle parti, di presentare in udienza osservazioni scritte finalizzate a replicare alle conclusioni del pubblico ministero (nuova formulazione dell’art. 379 c.p.c.). E tale soppressione ben si giustifica in considerazione del fatto che, nel nuovo regime dell’udienza di discussione avanti alla corte di cassazione, il pubblico ministero conclude prima – e non dopo, come originariamente previsto dall’art. 379 cit. – gli avvocati delle parti; sicchè questi ultimi hanno modo di esercitare appieno il proprio diritto di difesa replicando oralmente, nel corso della discussione stessa, alle conclusioni così formulate dalla parte pubblica.

p. 2. Con il primo motivo di ricorso la società deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 4″, lett. b) della citata Convenzione contro le doppie imposizioni intercorsa tra Italia e Francia il 5 ottobre 1989, ratificata in Italia con L. n. 20 del 1992. Per avere la commissione tributaria regionale erroneamente escluso il credito d’imposta di matrice convenzionale; posto che la disposizione violata faceva inequivoco riferimento letterale alla legislazione francese applicabile alle società madri, con ciò dimostrando che il regime del credito d’imposta poteva spettare indipendentemente dall’esenzione dei dividendi tanto nello Stato di residenza del socio percipiente (appunto risultante dalla legislazione francese applicabile alle società madri), quanto in quello del socio erogante.

Con il secondo motivo di ricorso la società lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 7, par. 2, Dir. madre-figlia citata. Per avere la commissione tributaria regionale erroneamente ritenuto che tale disposizione fondasse un principio di alternatività e di non-cumulabilità dei regimi di esenzione in caso di doppia imposizione economica; avendo, in particolare, la commissione tributaria regionale confuso l’esenzione da ritenuta nello Stato della fonte (art. 5.1 Dir.) con quello dell’imposizione dei dividendi nello Stato di residenza della società madre (art. 4.1).

Con il terzo motivo di ricorso la società lamenta violazione e falsa applicazione del principio generale di reciprocità internazionale di cui all’art. 16 preleggi. Per non avere la commissione tributaria regionale considerato che l’amministrazione fiscale francese (Bulletin Officiel des Impots n.61 del 26 marzo 1994, all.) riconosceva de plano il credito d’imposta sui dividendi alle società italiane che applicavano in Italia il regime della Direttiva madre-figlia.

Con il quarto motivo di ricorso la società lamenta violazione o falsa applicazione delle regole di buona fede nell’applicazione dei trattati, così come previsto dall’art. 26 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969, ratificata in Italia con L. n. 112 del 1974. Per non avere la commissione tributaria regionale considerato che il disconoscimento, da parte italiana, del credito d’imposta previsto dalla Convenzione implicava violazione dell’obbligo di integrale e fedele attuazione degli accordi internazionali e delle loro finalità (pacta sunt servanda).

p. 3.1 I quattro motivi di ricorso, suscettibili di trattazione unitaria per la loro stretta connessione, sono infondati.

Stabilisce la Convenzione Italia-Francia in esame (art. 10, p. 4, lett. b)) che la società madre residente in (OMISSIS) “che riceve da una società residente dell’Italia dividendi che darebbero diritto a un credito d’imposta se fossero ricevuti da un residente dell’Italia, ha diritto al pagamento da parte del Tesoro Italiano di un ammontare pari alla metà di detto credito d’imposta diminuito della ritenuta alla fonte prevista al paragrafo 2.” Il credito d’imposta – previsto, in caso di attribuzione domestica di dividendi, dagli artt. 14 e 92 TUIR vigenti nell’anno di imposizione qui dedotto – spetta alla duplice condizione che la società madre sia la “beneficiaria effettiva” dei dividendi; e, inoltre, che essa sia residente in Francia, nel senso di avere in tale Stato la propria sede di “direzione effettiva”, come richiesto in via generale dall’art.4 della medesima Convenzione.

La disciplina convenzionale va riguardata alla luce della Direttiva c.d. madre-figlia n. 90/435/CEE Consiglio (artt. 4, 5 e 7), e della normativa interna (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27 bis, innovato col D.Lgs. 6 marzo 1993, n. 136), che ha dato ad essa attuazione.

Come è noto, la Direttiva in esame – qui applicabile, stante il controllo totalitario esercitato dalla società percipiente i dividendi su quella distributrice – “mira ad eliminare, instaurando un regime fiscale comune, qualsiasi penalizzazione della cooperazione tra società di Stati membri diversi rispetto alla cooperazione tra società di uno stesso Stato membro, ed a facilitare così il raggruppamento di società su scala comunitaria” (Cass. 19180/04, con richiamo a CGUE 25 settembre 2003, in causa C58/01).

Ancorchè adottata successivamente alla ratifica della menzionata Convenzione italo-francese, essa non comporta – contrariamente a quanto richiederebbe l’ordinaria regola dell’effetto abrogativo prodotto dalla legge posteriore su quella previgente (lex posterior derogat priori) – il superamento della Convenzione bilaterale; operando invece nel senso di determinare, con quest’ultima, una disciplina complementare e multilivello di contrasto della doppia imposizione, secondo un regime opzionale di alternatività.

Pur perseguendo (in parte) lo stesso obiettivo, la Convenzione e la Direttiva non sono sovrapponibili, atteso che esse muovono da presupposti soggettivi e soglie rilevanti di partecipazione diversi; e prevedono diverse modalità e strumenti di eliminazione, o quantomeno attenuazione, della doppia imposizione in senso sia giuridico sia economico.

Nel primo caso (doppia imposizione giuridica, o internazionale) si vuol evitare che uno stesso soggetto subisca – in diversi Stati – più prelievi fiscali in relazione al medesimo presupposto impositivo, e con riguardo (v. art. 2 della Convenzione) sia alle imposte sul reddito sia a quelle sul patrimonio; mentre nel secondo caso (doppia imposizione economica: v. art. 2, lett. c) Dir., relativo alla sola imposizione del reddito delle persone giuridiche), si vuol evitare che uno stesso reddito venga assoggettato a doppia imposizione in Stati UE diversi, anche quando il trasferimento di ricchezza passi da un soggetto all’altro in maniera soltanto formale, cioè in assenza di un reale incremento imponibile (come appunto si verifica nell’imposizione dei dividendi infragruppo).

Le due fonti normative si trovano dunque a convivere nell’ordinamento UE ed in quello nazionale. Anche la Convenzione mantiene, pur dopo l’adozione della Direttiva, la propria piena efficacia di consolidamento del contrasto del fenomeno (v. Cass. 19152/04); cooperando anch’essa – nell’ambito di un rapporto bilaterale improntato a reciprocità – nell’attuare il divieto di doppia imposizione sancito, nella legislazione nazionale, dal D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 67 e art. 163 Tuir, in forza del quale “La stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi”.

La permanente efficacia degli accordi bilaterali, d’altra parte, è resa esplicita dalla stessa Direttiva che, nell’art. 7, comma 2, lascia “impregiudicata l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti d’imposta ai beneficiari dei dividendi”. E’, quest’ultima, previsione che non intende superare la competizione di efficacia normativa tra diverse fonti dell’ordinamento secondo il criterio generale di gerarchia; e che, soprattutto, esclude – in linea di principio, e fatta ovviamente salva la valutazione caso per caso – che la sola compresenza nell’ordinamento di Direttiva e di Convenzione bilaterale implichi l’automatica espunzione dell’una a favore dell’altra.

p. 3.2 Fatta questa premessa generale in ordine alla possibilità che lo stesso obiettivo venga perseguito facendo alternativo ricorso agli strumenti predisposti s’ dalla Direttiva sia dalla Convenzione bilaterale, appare tuttavia conforme all’ordinamento che l’eliminazione o attenuazione della doppia imposizione non possa mai determinare, in concreto, la distorsione rappresentata da una duplice non-imposizione, o comunque da un beneficio indebito (perchè contrastante con la ratio normativa).

Questa distorsione può (deve) essere evitata – come anticipato – proprio in forza del regime di alternatività ed opzione (a seconda della disciplina prescelta dal contribuente) tra le modalità previste, rispettivamente, dalla Convenzione bilaterale (riconoscimento del credito d’imposta) e dalla Direttiva (esenzione dalla ritenuta). Con la conseguenza che – in linea di principio – non è precluso dalla Direttiva madre-figlia che la società-madre, sussistendone tutti i presupposti, opti per il regime convenzionale del credito d’imposta in luogo di quello della piena detassazione. Così come deve ammettersi la possibilità di adesione allo strumento convenzionale intercorso tra Paesi UE (in quanto anch’esso in linea con il comune obiettivo eurounitario) in luogo di ricorrere al meccanismo di esenzione della Direttiva.

Là dove è invece precluso – perchè avulso ed eccedente rispetto alla finalità di evitare la doppia imposizione – che essa si avvalga sia del rimborso della ritenuta sui dividendi ovvero dell’esenzione diretta D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 27 bis, cit.., sia del credito d’imposta previsto dalla Convenzione.

La disposizione di non imponibilità degli utili di cui all’art. 5, n. 1 della Direttiva in definitiva – non ha ragione di applicarsi qualora già la normativa convenzionale invocata contenga (come nella specie) norme che realizzano, per altra via, la finalità di sopprimere o attenuare la doppia imposizione economica. Così come il credito d’imposta previsto dalla Convenzione non ha ragione d’essere riconosciuto a favore di chi abbia già scontato, sullo stesso reddito, il regime di esenzione alla fonte.

In altri termini, all’esito del coordinamento tra disciplina convenzionale e Direttiva, in nessun caso alla società-madre francese potrebbe riconoscersi sia l’esenzione dalla ritenuta sull’utile distribuito, sia il credito d’imposta.

Nel senso della non cumulabilità – in concreto – delle due discipline si esprime l’indirizzo costante di legittimità.

Già Cass. 19180/04 – cit. – osservava infatti che: “se occorre evitare che si verifichino fenomeni di doppia imposizione, non è meno importante evitare che si verifichino “sommatorie” di benefici che, al pari delle doppie imposizioni, possono determinare distorsioni nel funzionamento del Mercato Comune, che inficiano le regole della concorrenza e della neutralità delle disposizioni fiscali; ovvero, consentono di realizzare frodi o abusi, in relazione ai quali l’applicazione delle norme di contrasto prevale anche sulle disposizioni recate dalla Direttiva 90/435/CEE art. 1, par. 2). Si pensi al caso in cui la società madre riesca a beneficiare, nello Stato di residenza, di un credito d’imposta pari alla ritenuta operata alla fonte, sulla base delle disposizioni convenzionali, e poi la società figlia ottenga anche il rimborso della ritenuta alla fonte operata, in un altro Stato dell’U.E.”. Così Cass. 19152/04 – cit. secondo cui (motiv.): “Tali disposizioni, comunitarie e convenzionali, vanno poi lette alla luce della ulteriore disposizione (art. 7, n. 2) della Direttiva (…) nel senso che la disposizione di non imponibilità degli utili di cui all’art. 5, n. 1 della Direttiva non si applica se già la normativa convenzionale o quella interna contengono norme che realizzano la finalità di sopprimere o attenuare la doppia imposizione economica trattandosi di disposizione che non determina un’eccezione al divieto di doppia imposizione, ma semmai lo rafforza attraverso una “saldatura” delle norme convenzionali con quelle comunitarie”.

Ha osservato Cass. n. 8621/11 che: “in tema di imposte sui dividendi azionari corrisposti da una società figlia residente in Italia ad una società madre residente in (OMISSIS), cui sia stato riconosciuto il credito di imposta, va applicata la ritenuta del 5%, in applicazione degli artt. 10 e 24 della Convenzione tra Italia e Francia sulle doppie imposizioni, recepita con L. 7 gennaio 1992, n. 20, in quanto il contenuto di essa non contrasta con la Direttiva del Consiglio CEE, 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE, prevalendo tale disciplina, prescelta dal contribuente, sul dettato del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27-bis che consente alla società di optare per l’esenzione della ritenuta sui dividendi, ma senza credito di imposta, con la conseguenza che l’opzione della società madre per il riconoscimento del credito di imposta esclude l’applicazione del diverso regime di cui al citato D.P.R. n. 600, art. 27 che non prevede e non consente il cumulo dei due benefici”.

Nella stessa direzione questa corte di legittimità si è espressa con riguardo a fattispecie diverse, ma pur sempre implicanti la risoluzione del medesimo problema di fondo qui affrontato: – così Cass. 5943/09 (con riguardo alla analoga Convenzione Italia-Regno Unito del 21 ottobre 1988), secondo cui: “sia la Direttiva come recepita nel diritto interno nel cit. D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis che la Convenzione sono strumenti convergenti nel fine di evitare le doppie imposizioni. Ciò comporta altresì che le stesse norme valgono ad impedire “sommatorie” di benefici, quali quelli rappresentati, nella specie, nel riconoscimento di un credito di imposta in favore della Società madre, che ottenga anche il rimborso della ritenuta alla fonte operata sui dividendi dallo stesso Stato che eroga il credito d’imposta”; – ed ancora, più recentemente, Cass. 27111/16, in un caso in cui l’applicazione cumulativa in Italia della disciplina convenzionale italo-francese e di quella UE veniva sollecitata da una società-madre di diritto tedesco.

p. 3.3. Orbene, nella concretezza della fattispecie, la controllante Financiere Honeywell s.a. ha fruito – in alternativa al regime di cui all’art. 10 della Convenzione bilaterale italo-francese – della piena attuazione della Direttiva madre-figlia, non avendo la società-figlia italiana praticato alcuna ritenuta sui dividendi attribuitile. Ciò si desume – quale dato pacifico – dalla stessa esposizione dei fatti di causa, nella quale la ricorrente dà atto che: “tali dividendi sono stati pagati alla società in data 28 novembre 2003 (…). Sussistendo le condizioni per l’esenzione da ritenuta sui dividendi di cui all’articolo 5, par.1, Dir. Consiglio 90/435/CEE (Direttiva madre-figlia), recepito dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis, su tali utili non veniva operato alcun prelievo alla fonte”(ric., pag.2).

In tale situazione, è dunque evidente come l’invocata disciplina convenzionale non consenta il riconoscimento alla società-madre francese del credito d’imposta, venendo quest’ultimo ad aggiungersi – nella considerazione sostanziale del peso fiscale complessivamente ad essa applicato – al già fruito regime di detassazione alla fonte di cui alla Direttiva.

Questa conclusione non può determinare, da un lato, alcuna discriminazione; nè, dall’altro, la lamentata violazione dei principi generali di interpretazione ed applicazione del diritto dei trattati.

Sotto il primo aspetto (oggetto precipuo del terzo motivo di ricorso), la società ricorrente rivendica un trattamento che non sarebbe in realtà consentito nemmeno ad una società-madre residente in Italia. Neppure, tale trattamento potrebbe fondarsi sul principio di non discriminazione di cui all’art. 25 della Convenzione italo-francese in esame, secondo cui: “I nazionali di uno Stato, siano essi residenti o non di uno degli Stati, non sono assoggettati nell’altro Stato ad alcuna imposizione od obbligo ad essa relativo, diversi o più onerosi di quelli cui sono o potranno essere assoggettati i nazionali di detto altro Stato che si trovino nella stessa situazione”. Formulazione, quest’ultima, che vincola i singoli Stati contraenti a non applicare al residente estero un trattamento deteriore rispetto a quello riservato, nella medesima fattispecie impositiva, al residente nazionale; che è tuttavia cosa ben diversa dal vincolo (prospettato dalla ricorrente che ha, con ciò, indebitamente sovrapposto il principio di non discriminazione a quello di reciprocità internazionale) di disciplinare la fattispecie impositiva interna conformemente alla disciplina dell’altro Stato. Al contrario, sarebbe proprio il positivo riconoscimento del credito d’imposta convenzionale a concretare, nella specie, l’effetto discriminatorio che la società ricorrente vorrebbe scongiurare.

Sotto il secondo aspetto (fatto oggetto del quarto motivo di ricorso), basterà osservare come, in base all’art. 31 della citata Convenzione di Vienna del 969 sul diritto dei trattati, questi ultimi debbano essere interpretati secondo buona fede ed alla luce del loro oggetto e del loro scopo; parametri che, certamente, verrebbero qui sconvolti qualora il trattato venisse utilizzato per attribuire alla contribuente un beneficio non previsto, perchè esulante dall’obiettivo convenzionale di evitare la doppia imposizione. E ciò a maggior ragione a fronte di un trattato che – come quello italofrancese e, più in generale, quelli analogamente ispirati al modello OCSE in materia – mira a contrastare il fenomeno della doppia imposizione con interventi caratterizzati, come è ormai tipico anche della fiscalità internazionale, dalla prevalenza della sostanza sulla forma; e, non ultimo, dall’esigenza di evitare che tale contrasto possa giungere, in pratica, ad assecondare intenti elusivi (come è reso palese, tra il resto, dal fatto che il regime di favore venga riconosciuto unicamente al beneficiarlo effettivo dei dividendi, e solo nella comprovata assenza di elementi di c.d. treaty abuse).

Quale ulteriore profilo di inaccoglibilità della domanda va poi considerato – non ultimo per importanza – che essa si basa su una distorta applicazione della normativa convenzionale (art. 10 cit.) di elisione della doppia imposizione giuridica internazionale. Posto che a fare qui difetto è proprio la doppia imposizione che dovrebbe suscitare, a detta della ricorrente, il riconoscimento perequativo del credito d’imposta. Va infatti considerato che la contribuente, oltre ad usufruire del regime comunitario di esenzione da ritenuta, non è stata assoggettata ad imposizione, sui dividendi in oggetto, nemmeno in Francia. Questa circostanza può ritenersi pacifica, perchè già rilevata nella sentenza di appello e non smentita nel ricorso per cassazione; nel quale la società ha contestato le conseguenze giuridiche della mancata imposizione nello Stato di residenza, ma non il fatto oggettivo in sè della mancata imposizione in base alla legislazione francese. Dal che consegue come la doppia imposizione (in senso tanto economico quanto giuridico) non si sia di fatto verificata nè per effetto della legge italiana (in base alla quale il prelievo fiscale ha riguardato unicamente gli utili lordi di gestione in capo alla società-figlia, non anche i dividendi in capo alla società madre), nè in forza della legge francese.

Con l’applicazione della direttiva, pertanto, la società richiedente ha – da un lato – evitato in radice ogni fenomeno di doppia imposizione legittimante l’applicazione del regime bilaterale, e – dall’altro – conseguito un trattamento (di detassazione dei dividendi) sostanzialmente corrispondente a quello riservato ad una società madre percipiente italiana.

p. 3.4 Non si ritiene che una diversa conclusione possa fondarsi sulle ulteriori argomentazioni sviluppate dalla società ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c..

I precedenti di legittimità in essa richiamati (nn. 8621/11 cit., e 20978/15) non depongono affatto nel senso voluto dalla ricorrente, vertendo sulle condizioni di applicabilità della convenzione bilaterale, senza con ciò dare adito alla possibilità che, una volta esercitata l’opzione per l’esenzione da imposta di cui alla direttiva madre-figlia, la percipiente abbia titolo per avvalersi del credito d’imposta riconosciuto dal regime convenzionale (quand’anche pur esso assoggettato a ritenuta). Di segno contrario è anzi Cass. 4771/17, la quale (in fattispecie di dividendi corrisposti nel 2002 a società-madre belga) è giunta ad escludere il rimborso della ritenuta colà applicata ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27-bis, ratione temporis vigente, in assenza di prova certificata di concreta imposizione nello Stato di appartenenza per uno dei tributi indicati nella direttiva 435/90/CEE del Consiglio.

Nemmeno quanto, sul punto, stabilito dalla invocata circolare del Ministero delle Finanze n. 151/1994 pare decisivo. Al di là della generale non vincolatività delle fonti di normazione interna all’amministrazione, rileva come la circolare in questione sia intervenuta assai prima dell’evoluzione giurisprudenziale di cui si è dato conto; al punto che, riletta sulla base di quest’ultima, anche l’amministrazione finanziaria ha ritenuto (v. controricorso) di potersene pienamente avvalere, ma – all’opposto appunto a sostegno della legittimità del proprio diniego di riconoscimento del credito d’imposta. Nè tale circolare contiene argomenti atti a superare la peculiarità di una fattispecie come la presente, nella quale – ferma restando la già richiamata compresenza normativa e sistematica di direttiva e convenzione – la società madre ha in concreto optato per la prima; disponendo che la società figlia non operasse alcuna ritenuta alla fonte sui dividendi erogati.

Non varrebbe obiettare che – quand’anche si ammettesse, in linea di principio, il carattere alternativo ed opzionale del sistema di tassazione in esame, come finora delineato – la società madre non avrebbe comunque mai espresso, nella specie, alcuna opzione per l’esenzione da ritenuta; così da non avere, in realtà, ancora consumato il proprio diritto di scelta per la soluzione fiscalmente più vantaggiosa.

Basterà infatti osservare, in proposito, come l’avvenuta tassazione del rapporto sulla base della direttiva comunitaria non potrebbe essere rivista sol perchè la società-madre non avanzò una formale dichiarazione di opzione in tal senso. Ben potendo l’opzione per un regime fiscale speciale – di natura negoziale e, come tale, irretrattabile in relazione al rapporto impositivo che, sulla base di essa, abbia già trovato definitiva regolazione – desumersi da comportamenti concludenti del contribuente, e ciò tenendo conto anche dell’influenza totalitaria esercitata dalla società-madre percipiente sulla società-figlia che ha materialmente eseguito il pagamento in regime comunitario.

p. 3.5 Per l’ipotesi di mancato accoglimento dei motivi di ricorso, la società ricorrente chiede che venga sollevata, ex art. 267 TFUE, questione pregiudiziale avanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sui seguenti quesiti: – “se costituisce violazione dei principi di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali, rispettivamente sanciti dall’art. 49 e dall’art. 63 TFUE, la circostanza che, con riferimento ai dividendi pagati da società figlie residenti in Italia, la normativa italiana applicabile nel 2002 non prevedeva in favore delle società madri residenti in (OMISSIS) il credito di imposta concesso alle società madri residenti in Italia; – se l’art. 7, par. 2, direttiva madre figlia debba essere interpretato nel senso che, quando i dividendi sono corrisposti dalla società figlia italiana (sostituto di imposta) in esenzione da ritenuta ai sensi dell’art. 5 della direttiva, è impregiudicato il diritto della società madre francese di optare per il pagamento di un credito di imposta sui dividendi (al netto della ritenuta convenzionale sui dividendi e sullo stesso credito d’imposta) previsto dalla convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Francia; – se l’esistenza di un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 107 TFUE con riferimento al regime tributario di uno Stato membro applicabile al reddito di un contribuente non residente, debba essere verificata avendo riguardo esclusivamente alla normativa di tale Stato membro o sè, ai fini di detta verifica, debba aversi riguardo anche al regime tributario applicabile allo stesso reddito nello Stato di residenza del contribuente”.

La questione appare mal posta.

Nella peculiarità della fattispecie, il mancato riconoscimento del credito d’imposta previsto dalla Convenzione bilaterale deriva, come detto, proprio dalla piena applicazione alla società ricorrente del regime di esenzione risultante dal diritto comunitario. La stessa ricorrente basa la propria domanda sull’asserita violazione, da parte dell’amministrazione finanziaria italiana, non già del diritto comunitario (integralmente applicato) ma di quello convenzionale (che le attribuirebbe altresì il credito d’imposta, ex art. 10, p. 4, lett. b cit.). Senonchè, i limiti e le condizioni di applicabilità del diritto convenzionale non rientrano nella interpretazione del giudice comunitario, ma in quella demandata al giudice nazionale. Ha osservato la Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella decisione 16 luglio 2009 in causa C-128/08 (Jacques Damseaux c/Belgio) che (p. 22) “risulta dalla giurisprudenza che la Corte non è competente, nell’ambito dell’art. 234 CE, a pronunciarsi sull’eventuale violazione, da parte di uno Stato contraente, delle disposizioni di convenzioni bilaterali concluse dagli Stati membri dirette ad eliminare o ad attenuare gli effetti negativi che discendono dalla coesistenza di sistemi fiscali nazionali (v., in tal senso, sentenza 6 dicembre 2007, causa C-298/05, Columbus Container Services, Racc. pag. 1-10451, punto 46). La Corte non può nemmeno esaminare il rapporto tra una misura nazionale e le disposizioni di una Convenzione diretta ad evitare le doppie imposizioni, come la Convenzione fiscale bilaterale oggetto della causa principale, poichè tale questione non rientra nell’interpretazione del diritto comunitario (v., in tal senso, sentenze 14 dicembre 2000, causa C-141/99, AMID, Racc. pag. 1-11619, punto 18, nonchè Columbus Container Services, cit., punto 47)”.

Di ciò non si rinviene smentita nella sentenza CGUE 25 settembre 2003 Ocè Van der Grinten C-58/01 (citata dalla ricorrente); dal momento che anche quest’ultima decisione (in fattispecie di tassazione dei dividendi corrisposti da una controllata del Regno Unito alla capogruppo olandese) ha riguardato le modalità applicative della direttiva madre-figlia; segnatamente, sotto il profilo della affermata compatibilità con l’art. 7, n. 2, della direttiva 90/435/CEE di “un prelievo del 5% previsto dalla convenzione sulla doppia imposizione oggetto del procedimento principale anche se tale prelievo, in quanto si applica ai dividendi versati dalla società controllata alla sua società capogruppo, costituisce una ritenuta alla fonte ai sensi dell’art. 5,n. 1, della medesima direttiva”. Là dove, nel caso di specie, è proprio l’avvenuta applicazione integrale del regime di esenzione da ritenuta di cui alla direttiva ad escludere la doppia imposizione contrastata dal regime bilaterale; garantendo al contempo un trattamento paritario rispetto alle società madri residenti, tale da escludere la sussistenza di una discriminazione, così come di una limitazione alla libertà di stabilimento e circolazione dei capitali. Sicchè, diversamente dalla fattispecie esaminata dalla CG, non si controverte qui tanto di compatibilità della ritenuta (convenzionale) con il divieto di tassazione imposto dalla direttiva; quanto di riconoscibilità del credito d’imposta (convenzionale) a chi abbia già usufruito dell’esenzione.

Considerazioni non dissimili valgono anche per gli asseriti profili di discriminazione e contrasto con la disciplina UE che la società ricorrente (come ampiamente esplicitato dal proprio difensore anche nel corso della discussione) individua nel fatto che il credito riconosciuto dall’art. 10 cit. della convenzione italo-francese sarebbe pur sempre limitato al solo 50% del credito riconosciuto alla percipiente italiana. Si tratta, infatti, di considerazioni ininfluenti ai fini di causa, in quanto concernenti una disciplina fiscale (il credito d’imposta di origine convenzionale) di cui, per le indicate ragioni, la società non può fruire.

Ne segue il rigetto del ricorso, con accollo delle spese di lite, in ragione di soccombenza, a carico della società ricorrente.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 19.000,00; oltre spese prenotate a debito;

v.to il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012;

dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione quinta civile, il 21 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2017

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