Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25581 del 10/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 10/10/2019, (ud. 04/07/2019, dep. 10/10/2019), n.25581

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27971/2014 proposto da:

ALMAVIVA CONTACT S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE TRE MADONNE 8,

presso lo studio degli avvocati MAURIZIO MARAZZA, DOMENICO DE FEO,

MARCO MARAZZA, che la rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

P.B.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 4252/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/05/2014 R.G.N. 9859/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/07/2019 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. P.B., assunto dalla Atesia S.p.A., nel periodo 6 aprile 1996 – 30 giugno 2007, con distinti contratti di collaborazione autonoma e continuativa quindi con contratti a progetto, come operatore di call center, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma la società chiedendo l’accertamento della natura subordinata del rapporto e la declaratoria di prosecuzione dello stesso in mancanza di qualsiasi atto idoneo a risolverlo e condanna della società al ripristino del rapporto di lavoro con le mansioni e gli orari svolti nonchè al risarcimento del danno, pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento alla effettiva riammissione in servizio oltre che al versamento dei contributi previdenziali ed assicurativi.

2. Il Tribunale respingeva la domanda escludendo la asserita natura subordinata del rapporto e la sottoposizione al potere gerarchico e disciplinare tipico del datore di lavoro.

3. La decisione era in parte riformata dalla Corte d’appello di Roma che dichiarava la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con inquadramento nel 3 livello del c.c.n.l. di settore, con decorrenza dal 20 agosto 1996, ordinando il ripristino della funzionalità del rapporto; condannava, inoltre, Almaviva Contact S.p.A. (incorporante Atesia) al risarcimento del danno in forma ordinaria, oltre accessori.

Rilevava la Corte territoriale che i contratti stipulati (di co.co.co.) non contenessero la determinazione dell’oggetto della collaborazione ma solo le mansioni da svolgere e dunque già presentassero, nel loro assetto formale, caratteristiche tipiche dei contratti di lavoro subordinato.

Inoltre evidenziava, quanto alla concreta esecuzione della prestazione, che dal complessivo materiale di causa (risultanze degli accertamenti ispettivi e contenuto di verbali di prove orali svolte in giudizi similari ed acquisiti agli atti) fosse emerso, sin dal primo contratto tra le parti, il pieno inserimento del ricorrente nell’organizzazione aziendale, l’utilizzo da parte dello stesso degli strumenti e dei mezzi della Atesia S.p.A., la sua sottoposizione al potere organizzativo della società oltre che uno stringente assoggettamento ai poteri di controllo e direttivo realizzato non solo attraverso direttive generiche bensì mediante puntuali ordini di servizio ed interventi dell’assistente di sala che provvedeva a sollecitare il lavoro in caso di code, autorizzava o richiedeva lo straordinario oltre la fascia concordata, controllava il rispetto delle fasce orarie.

Rilevava che l’operatore dovesse sottostare a disposizioni “decisamente invasive” in ordine alle modalità della prestazione e addirittura ai tempi di attesa (non era consentito “mangiare in postazione… leggere giornali, riviste, libri… tenere acceso il cellulare, abbandonare oggetti personali sulla postazione per periodi superiori a 20 minuti”), difficilmente conciliabili con un rapporto di lavoro autonomo.

Sosteneva che, una volta accertato, l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia, irrilevante fosse l’astratta previsione di una libertà di presenza e di orario e che si trattava di una libertà “limitata” visto che sussisteva da un lato l’obbligo di giustificare le assenze superiori a 10 giorni e dall’altro la prestazione non poteva comunque eccedere le 6 ore massime nell’ambito di un turno prestabilito.

Riteneva pertanto sussistente un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dal 20 agosto 1996 ed ancora in corso con diritto del P. all’inquadramento nel 3 livello del c.c.n.l. Imprese Esercenti Servizi di Telecomunicazione (considerando del tutto generica la domanda intesa ad ottenere le differenze retributive in ragione di un asserito diritto all’inquadramento nel superiore 4 livello) ed al ripristino della funzionalità del rapporto.

Escludeva l’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 50 (e quindi la possibilità di applicare la misura risarcitoria ridotta prevista da tale norma) ritenendo che l’invito a presentarsi in azienda rivolto dalla società al P. il giorno 16 maggio 2007 non potesse integrare una valida proposta di assunzione, non contenendo gli elementi necessari ad identificare il contenuto della prestazione.

4. Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale Almaviva Contact S.p.A. ha proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi.

5. P.B. è rimasto intimato.

6. La causa, originariamente chiamata all’adunanza camerale del 9 gennaio 2019, è stata rinviata a nuovo ruolo per la trattazione in udienza pubblica.

7. La società ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2222 e 2094 c.c., dell’art. 409 c.p.c., n. 3, nonchè del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e segg. e art. 69, comma 1, in relazione alla ritenuta sussistenza della prova della natura subordinata del rapporto.

Rileva che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto dei contratti a progetto stipulati a decorrere dal 1 ottobre 2005, nei quali erano descritte le modalità dell’impegno del collaboratore e l’ambito del programma entro il quale realizzare, con gli indicati sistemi applicativi, la fase o il programma di lavoro e cioè una determinata campagna, in osservanza di un contratto di appalto per conto di un determinato committente.

Sostiene, inoltre, che gli elementi posti dalla Corte territoriale a sostegno della ritenuta subordinazione sono comunque riconducibili ad una forma di coordinamento che connota tipicamente il lavoro autonomo, non essendo l’operato aziendale espressivo di un potere direttivo e disciplinare nè sussistendo alcun vincolo personale di soggezione del lavoratore al datore di lavoro.

2. Con il secondo motivo e terzo motivo la società denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Sostiene che la Corte territoriale avrebbe valutato le risultanze istruttorie secondo criteri generali non coerenti con il tipo di attività svolta dal lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro in esame e comunque non avrebbe tenuto conto di risultanze di causa deponenti in senso opposto.

3. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 183 del 2010, art. 50, nonchè dell’art. 1227 c.c., comma 2 (art. 360 c.p.c., n. 3) ed insufficiente motivazione in relazione alla non configurabilità dell’art. 50 nel caso di specie art. 360 c.p.c., n. 5).

Assume che l’invito a presentarsi in azienda il giorno 16 maggio 2007 andasse letto in uno con il contenuto del telegramma del 28/2/2007 nel quale era stigmatizzato il comportamento da assumere in caso di interesse alla stabilizzazione.

4. Il ricorso, nei vari motivi in cui è articolato, non può essere accolto.

5. Va innanzitutto rilevato che assorbente rispetto a parte dei rilievi di cui alla prima censura è la ritenuta sussistenza in fatto di una prestazione di lavoro con le caratteristiche della subordinazione sin dal primo contratto stipulato tra le parti (“(…) ha lavorato in modo continuativo per circa 11 anni con le identiche modalità (…)”).

5.1. Riguardo a tale ratio decidendi (autonoma rispetto alla pur riscontrata inadeguatezza formale dei contratti di collaborazione) va osservato che la denunciata violazione di legge postula l’erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina: così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla Corte regolatrice di adempiere al proprio compito istituzionale di verifica del fondamento della violazione denunziata (Cass. n. 16038/2013; Cass. n. 3010/2012; Cass. n. 12984/2006).

Ed allora il motivo che pretenda di desumere tale violazione dall’erronea valutazione del materiale probatorio è già in contrasto con le suddette indicazioni.

5.2. Peraltro, la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro è censurabile in sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi di individuazione della natura subordinata o autonoma del rapporto, mentre l’accertamento degli elementi, che rivelino l’effettiva presenza del parametro stesso nel caso concreto attraverso la valutazione delle risultanze processuali e che sono idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli, costituisce apprezzamento di fatto che, se immune da vizi giuridici e adeguatamente motivato, resta insindacabile in Cassazione (v. Cass. 27 luglio 2007, n. 16681; Cass. 23 giugno 2014, n. 14160).

5.3. Quanto alle ulteriori censure, va ricordato che la dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c., non è ravvisabile nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (v. ex aliis Cass., Sez. Un., 5 agosto 2016, n. 16598; Cass. 10 giugno 2016, n. 11892) e che la violazione dell’art. 116 c.p.c., è configurabile solo allorchè il giudice apprezzi liberamente una prova legale, oppure si ritenga vincolato da una prova liberamente apprezzabile (Cass., Sez. Un., n. 11892/2016 cit.; Cass. 19 giugno 2014, n. 13960; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965), situazioni queste non sussistenti nel caso in esame.

5.4. Per il resto le doglianze, nonostante il formale richiamo al vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, si risolvono nella critica della sufficienza del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi (e così di determinate circostanze asseritamente risultanti da emergenze di causa che si assume non siano state esaminate dalla Corte territoriale e che avrebbero consentito di ritenere non sussistente alcuna subordinazione), affinchè se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012.

Va, al riguardo osservato, con riferimento alla denuncia di omissione motivazionale, che come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. Un., 22 settembre 2014, n. 19881; Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione; è, pertanto, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che implica una violazione di legge costituzionalmente rilevante e che integra un “error in procedendo”; a chiarimento dell’indicato principio, le sezioni unite hanno precisato che comporta la nullità della sentenza solo la “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, la “motivazione apparente”, il “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, non essendo invece più consentita la formulazione di censure per il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione (Cass., Sez. Un., 10 luglio 2015, n. 14477; ex multis, tra le sezioni semplici, Cass. 6 dicembre 2018, n. 31543).

E’ stato, anche, precisato che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perchè consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talchè essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass., Sez. Un., 3 novembre 2016, n. 22232).

5.5. Tali evenienze non sono riscontrabili nel caso di specie: la Corte territoriale ha spiegato, in maniera esaustiva e niente affatto perplessa, le ragioni della decisione evidenziando come emergessero elementi univoci della sussistenza di un vincolo di subordinazione; secondo la Corte di merito, l’obbligo per il lavoratore di coordinarsi con le esigenze organizzative aziendali, l’utilizzo degli strumenti e dei mezzi della società, senza alcun rischio d’impresa, l’assoggettamento al potere di controllò e direttivo della società (realizzato non solo attraverso direttive generiche ma anche con specifiche istruzioni in merito alle prestazioni contrattuali e con verifiche continue di adempimento sia attraverso il sistema informatico sia direttamente in sala mediante la vigilanza degli assistenti), integrassero nel complesso circostanze significative dell’esercizio del potere direttivo e gerarchico del datore di lavoro.

Si tratta di un impianto argomentativo assolutamente comprensibile, in relazione al quale può discutersi della sua plausibilità e condivisibilità ma non di una inesistenza motivazionale.

6. L’esame del quarto motivo di ricorso impone alcune preliminari considerazioni sull’interpretazione della L. n. 183 del 2010, art. 50.

6.1. La norma che viene qui in discussione ha formato oggetto di studio da parte della dottrina essendosi rilevati plurimi profili suscettibili di differenti interpretazioni ed essendosi, in particolare, il dibattito incentrato sulla questione se tale norma stabilisca “unicamente” la sanzione indennitaria a fronte del rifiuto, da parte del lavoratore, di due offerte di stabilizzazione del rapporto di lavoro ovvero faccia comunque salva la conversione o ricostituzione del rapporto (melius assunzione a tempo indeterminato).

Il suddetto art. 50, stabilisce che: “Fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di accertamento della natura subordinata di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche se riconducibili ad un progetto o programma di lavoro, il datore di lavoro che abbia offerto entro il 30 settembre 2008 la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato ai sensi della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, commi 1202 e segg., nonchè abbia, dopo la data di entrata in vigore della presente legge, ulteriormente offerto la conversione a tempo indeterminato del contratto in corso ovvero offerto l’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle svolte durante il rapporto di lavoro precedentemente in essere, è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8”.

La disposizione introduce un regime speciale finalizzato a limitare, a determinate condizioni, le conseguenze sanzionatorie in caso di esito vittorioso del giudizio intentato dal lavoratore, volto all’accertamento della natura subordinata del rapporto di collaborazione continuativa e coordinata, anche a progetto.

6.2. L’esame della previsione non può prescindere da una sintetica ricostruzione del più ampio quadro normativo in cui essa interviene (L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 1202-1210).

6.3. L’incipit della norma “fatte salve le sentenze passate in giudicato” rende, innanzitutto, chiaro che l’ambito di applicazione della stessa sia da riferirsi tanto alle controversie ancora da promuovere, quanto a quelle in corso. Ed anzi, proprio l’espresso richiamo alla L. 296 del 2006, è indicativo della voluntas legis di dettare una normativa finalizzata a proseguire il percorso, intrapreso dalla predetta L. n. 296, inteso a facilitare l’emersione di rapporti (simulati) di collaborazione, molti dei quali, proprio in quanto in sospetto di abuso, in fase di contenzioso giudiziale (percorso poi completato dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 54).

6.4. Quanto ai presupposti di operatività, la norma richiede una sequenza di offerte da parte del datore di lavoro.

Questi (id est: il datore di lavoro) deve avere offerto al collaboratore, entro il 30 settembre del 2008, la stabilizzazione del rapporto di lavoro secondo la procedura di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 1202 e segg., articolata in tre fasi: a) la stipulazione di un accordo aziendale o territoriale volto a promuovere la trasformazione del rapporto di collaborazione in un rapporto di lavoro subordinato di durata non inferiore a 24 mesi; b) la sottoscrizione da parte dei lavoratori di atti di conciliazione individuali ai sensi e per gli effetti degli artt. 410 e 411 c.p.c., con riferimento ai diritti di natura retributiva, contributiva e risarcitoria per il periodo pregresso; c) il pagamento da parte del solo datore di lavoro di un contributo straordinario integrativo per ciascun lavoratore interessato alla trasformazione del rapporto di lavoro.

La prima offerta è, dunque, garantita dalla stessa procedimentalizzazione disegnata dal Legislatore del 2006 e filtrata dalle intese raggiunte dalle parti sociali.

Il datore di lavoro deve, poi, aver rinnovato l’offerta dopo l’entrata in vigore della medesima L. n. 183 del 2010. A tale riguardo, il dato letterale non pone dubbi interpretativi: la nuova proposta si aggiunge all’offerta di stabilizzazione compiuta entro il 30 settembre 2008, come reso palese dall’utilizzo dell’avverbio “ulteriormente” che rafforza il senso, già inequivoco, della congiunzione “nonchè”.

L’oggetto del contratto di lavoro subordinato di cui alla seconda offerta è predeterminato dal Legislatore; le mansioni di lavoro devono essere equivalenti a quelle del contratto in corso o cessato. Nulla è detto, invece, in ordine all’orario di lavoro e ciò è pienamente giustificabile in ragione della estrema variabilità dell’impegno lavorativo che può avere, in concreto, connotato ogni singolo rapporto.

6.5. La valutazione di conformità delle offerte datoriali ai parametri legali, che costituisce condizione essenziale per l’operatività, in sede giudiziale, del meccanismo di cui sopra si è detto, in quanto necessariamente mediata dalle risultanze processuali, è attività riservata al giudice di merito.

In presenza degli inviti datoriali, positivamente valutati dal giudice del fatto, rifiutati dal lavoratore (come risulta evidente ove si consideri che altrimenti non sussisterebbe neppure la possibilità di azionare alcun giudizio per effetto dell’avvenuta sottoscrizione degli atti di conciliazione individuali), gli effetti derivanti dall’accertamento giudiziale della natura subordinata di una collaborazione coordinata e continuativa, sono quelli indicati dal predetto art. 50, ed il datore di lavoro “è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8”.

6.6. Il contrasto interpretativo verte, in particolare, sull’interpretazione dell’espressione “è tenuto unicamente a indennizzare”.

Trattasi, effettivamente, di una non felice soluzione espressiva, come del resto già evidenziato dal Presidente della Repubblica che, in occasione del messaggio, ex art. 74 Cost., in data 31 marzo 2010, ebbe ad osservare come la disposizione, insieme ad altre della L. n. 183 del 2010, potesse prestarsi “a seri dubbi interpretativi e a potenziali contenziosi”.

6.7. Due sono, infatti, le possibili letture dell’art. 50, in punto di conseguenze connesse al rifiuto del prestatore di accettare le offerte datoriali, in caso di accertamento giudiziale della natura subordinata del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa.

Da una parte, ritenere che l’indennità rappresenti l'”unica” misura sanzionatoria a carico del datore di lavoro, sostitutiva cioè di tutte le conseguenze normalmente ricollegabili ad un tale accertamento (ovvero la conversione in rapporto a tempo indeterminato ed il risarcimento), dall’altra, ritenere che la norma abbia inteso “unicamente” incidere sulla misura del danno e non anche direttamente sulla disciplina futura del rapporto di lavoro.

6.8. Stima il Collegio che, tra le due indicate opzioni interpretative, debba preferirsi la seconda che rende il dato letterale (pur in sè non univoco) coerente con quello sistematico.

6.9. La norma va interpretata nel senso che l’indennità economica si sostituisce esclusivamente alle normali conseguenze risarcitorie che derivano dall’accertamento della natura subordinata del rapporto, assicurando al lavoratore un indennizzo che copre, in via forfetaria, non diversamente della medesima L. n. 183 del 2010, art. 32, i danni derivanti dalla ingiustificata estromissione, fermo, tuttavia, il diritto del prestatore al ripristino della funzionalità del rapporto di lavoro ovvero alla “conversione”, in esecuzione della sentenza (oltre che naturalmente alle retribuzioni da tali momenti in poi ed a quelle eventualmente maturate in ragione del reale atteggiarsi del rapporto intercorso e non derivanti, ex se, dalla diversa qualificazione del rapporto).

L’avverbio “unicamente” è, infatti, riferito solo al riconoscimento di un minor ristoro economico, giustificato dal rifiuto delle proposte di stabilizzazione, secondo l’esegesi sostenuta dalla Corte di appello di Roma.

6.10. L’indennità, dunque, definisce i rapporti tra lavoratore e datore di lavoro, regolando la misura del risarcimento in relazione al periodo intercorrente tra la cessazione della collaborazione e la sentenza che ne accerta la natura subordinata (e, se del caso, anche al periodo non lavorato tra una collaborazione e l’altra, in caso di riconoscimento di un unico rapporto).

6.11. Conforta siffatta interpretazione l’esame dei lavori preparatori ed, in particolare, delle schede di lettura della Camera dei Deputati relativi agli articoli contenuti nella L. n. 183 del 2010.

In relazione all’art. 50, si dà atto che “l’articolo (…) determina la misura del risarcimento nei casi in cui sia stata accertata la natura subordinata di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa”.

Il riferimento esclusivamente al “risarcimento” e l’assenza di una esplicita previsione della valenza sostitutiva di detta indennità, anche della ripresa del rapporto, è segno della scelta del Legislatore di preservare l’ordinaria e più pregnante tutela disposta dall’ordinamento e cioè il mantenimento dell’accertato rapporto di lavoro.

Quest’ultimo, infatti, non può considerarsi estinto in mancanza di una chiara previsione che colleghi tale rilevantissima conseguenza al rifiuto opposto dal lavoratore alle proposte datoriali.

6.12. Così interpretata, la disposizione consente di superare i dubbi di legittimità costituzionale e di violazione del diritto sovranazionale, essendo in linea con il principio di effettività ed adeguatezza delle sanzioni, con quello di parità di trattamento e con la clausola di non regresso delle tutele.

La novella in esame, limitandosi ad introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione, con salvezza del nucleo centrale della tutela sostanziale costituito dalla “conversione” ovvero dal ripristino del rapporto, garantisce il diritto di difesa ai sensi dell’art. 24 Cost. e, come tale, appare ragionevole, essendo destinata ad assicurare una parificazione di trattamento di situazioni eguali a prescindere dalla data di introduzione del giudizio, con il solo limite delle sentenze passate in giudicato.

Inoltre, restando fermo il diritto alle eventuali differenze di retribuzione maturate in relazione ai periodi lavorati, non si pongono profili di incostituzionalità per violazione dell’art. 36 Cost. (e conseguentemente dell’art. 38 Cost.); peraltro, anche nel caso dell’art. 50, come già accennato, a partire dalla sentenza con cui il giudice accerta la natura subordinata del rapporto ed ordina il ripristino del rapporto, il datore di lavoro è indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riattivazione effettiva del rapporto.

In definitiva, la normativa esaminata risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento degli opposti interessi attraverso l’analitica disciplina, in quello che è stato definito un “delicato gioco di pesi e contrappesi”, dei parametri – modalità temporali e oggetto delle offerte – che devono essere rispettati dal datore di lavoro per poter beneficiare del regime speciale di cui all’art. 50. Al lavoratore che abbia rifiutato ben due proposte di assunzione (e nonostante tale rifiuto) è comunque garantita l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato (che va a sostituire il “ricorso ai contratti di lavoro subordinato” e il “corretto utilizzo dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto” di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 1202) unitamente ad un’indennità, predeterminata tra un minimo ed un massimo, che ridimensiona le pretese risarcitorie, in misura della metà del massimo dell’indennità stabilita dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, non diversamente dalla previsione del medesimo art. 32, comma 6 (“In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà”), in funzione premiale della condotta datoriale.

Il tutto nell’ambito dell’illustrato e più ampio contesto normativo di deflazione e definizione di un consistente contenzioso, sedimentatosi in alcuni settori produttivi, nel quale si inscrive la vicenda in questione, che rende la norma in oggetto non solo ragionevole ma anche coerente con i criteri ispiratori della disciplina legislativa precedente.

6.13. Quanto ai possibili profili di violazione dei diritti sanciti dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU, giudica il Collegio che, nello specifico, non vi sia stata alcuna ingiustificata intromissione del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, tale da influire sulla decisione di singole controversie o su un gruppo di esse, bensì interventi che per quanto già sopra evidenziato, rispondono a “ragioni imperative di interesse generale” (v., ad esempio, tra le pronunce in questa materia della Corte Europea dei diritti dell’uomo relative a controversie tra privati: Arras c. Italia, 14.2.2012, p. 42; Ducret c. Francia, 12.6.2007 p. 32 ss.; Vezon c. Francia, 18.4.2006, par. 28 ss.) analoghe a quelle già riscontrate dal Giudice delle leggi in occasione della valutazione di legittimità costituzionale dell’art. 32 (v. Corte Costituzionale n. 303 del 2011, spec. p. 4.2), escludendosi così ogni violazione degli artt. 111 e 117 Cost., e tanto più evidenti nella fattispecie ove il Legislatore ha completato il percorso di transizione verso un corretto utilizzo dei contratti di collaborazione e di promozione dell’impiego dei lavoratori con contratti di lavoro subordinato supportando il prodotto dell’autonomia privata collettiva promosso dalla L. n. 296 del 2006.

Quanto sopra evidenziato esclude altresì che l’intervento legislativo (come detto inserito in un complessivo programma di riforme) di cui trattasi abbia mutato le conseguenze della violazione delle previgenti regole limitatamente ad un gruppo di fattispecie selezionate in base alla circostanza, del tutto accidentale, della pendenza di una lite giudiziaria tra le parti del rapporto di lavoro.

7. Alla stregua delle ampie considerazioni che precedono, anche l’ultimo motivo di ricorso non può essere accolto.

7.1. La Corte territoriale ha escluso, nella fattispecie concreta, l’operatività dell’art. 50 cit.; ciò in quanto ha ritenuto non conformi al modello legale le offerte datoriali di stabilizzazione del rapporto di lavoro.

Diversamente da quanto dedotto dalla società ricorrente, la sentenza impugnata dimostra di aver esaminato la documentazione offerta dalla parte datoriale (si legge testualmente nella nona pagina: “(…) l’invito a presentarsi in azienda il giorno 16 maggio 2007 per informazioni utili alla successiva sottoscrizione del contratto a tempo indeterminato part-time (cfr. doc. 21 prodotto dall’appellante principale in primo grado) non costituisce in alcun modo una valida proposta di assunzione non contenendo gli elementi necessari ad identificare il contenuto della prestazione (…)”) salvo, poi, aver espresso, sulla base della stessa, con accertamento di merito, un giudizio di non congruità delle proposte di assunzione indirizzate al lavoratore (al riguardo, si richiama il p. 6.5. della presente motivazione).

7.2. Il motivo, in realtà, al di là della formale rubricazione, pretenderebbe una diversa valutazione dei documenti esaminati dalla Corte di appello ed in particolare della prima offerta ovvero quella contenente “l’invito a presentarsi in azienda” reputata inidonea in quanto priva di “elementi necessari ad identificare il contenuto della prestazione”.

E tuttavia, come noto, l’interpretazione dell’atto unilaterale (così come del contratto), consistendo in un’operazione di accertamento della volontà del dichiarante (o dei dichiaranti), ovverosia di una realtà fenomenica ed obiettiva, si risolve in un’indagine di fatto riservata al Giudice di merito, la cui valutazione soggiace, in sede di legittimità, ad un limitato sindacato che esige, quanto al vizio di violazione di legge, la precisa illustrazione del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione dei canoni ermeneutici e, quanto al vizio di motivazione, l’indicazione, nei termini rigorosi richiesti dal vigente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (applicabile ratione temporis alla fattispecie), del “fatto storico”, non esaminato, che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo, secondo gli enunciati di Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014.

Nessuno di tali profili è adeguatamente sviluppato nel motivo di ricorso che, dunque, così come prospettato, risulta inammissibile.

8. Conclusivamente il ricorso va respinto.

9. Nulla va disposto in ordine alle spese non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

10. Và dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, poichè l’obbligo del pagamento dell’ulteriore contributo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (cosi Cass., Sez., Un. 22035/2014).

PQM

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2019

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