Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25575 del 10/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 10/10/2019, (ud. 06/06/2019, dep. 10/10/2019), n.25575

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10439/2018 proposto da:

SECURPOL S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA EMILIO DE CAVALIERI, presso

lo studio dell’avvocato VALENTINA CATALDI, rappresentata e difesa

dagli avvocati GIAMPAOLO MARRAZZO, ALBERTO SANTIGLI;

– ricorrente –

contro

A.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ALBA

12/A, presso lo studio dell’avvocato CARLO ALESSANDRINI,

rappresentato e difeso dall’avvocato LOREDANA DI FOLCO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 469/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 01/02/2018 R.G.N. 3762/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/06/2019 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per l’accoglimento per il

terzo motivo rigetto del resto;

udito l’Avvocato GIOVANNI BEATRICE per delega Avvocato GIAMPAOLO

MARRAZZO;

udito l’Avvocato LOREDANA DI FOLCO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 469 pubblicata l’1.2.2018, ha respinto il reclamo di Securpol s.r.l., confermando la decisione di primo grado di rigetto dell’opposizione avverso l’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria e che, in accoglimento della domanda proposta da A.R., aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato al predetto ed applicato la tutela di cui all’art. 18, comma 4, richiamato dal comma 7, L. n. 300 del 1970, come modificato dalla L. n. 92 del 2012.

2. La Corte territoriale ha dato atto di come il lavoratore, fin dal ricorso introduttivo di primo grado, avesse dedotto di non essere stato adibito in via esclusiva o prevalente a prestare servizio nell’ambito dell’appalto presso la C.C.I.A.A. di Frosinone e che pertanto la cessazione di quest’ultimo non potesse costituire giustificato motivo di licenziamento.

3. Ha rilevato come la Securpol s.r.l. non avesse in alcun modo censurato l’accertamento, contenuto nella sentenza di primo grado, secondo cui l’ A. non rientrava tra i lavoratori che nei sei mesi precedenti avevano esclusivamente o prevalentemente prestato servizio presso l’appalto poi cessato; il predetto, anzi, aveva iniziato a lavorare presso la C.C.I.A.A. di Frosinone solo da maggio 2014, prestando ivi servizio nei mesi di giugno, luglio e agosto, per un numero di ore di poco superiore alla metà del normale orario di lavoro mensile.

4. Ha sottolineato, ancora, la sentenza impugnata, come la Securpol s.r.l. non avesse allegato nè chiesto di provare l’impossibilità di ricollocare il dipendente.

5. L’illegittimità del licenziamento è stata quindi affermata non solo per il mancato adempimento all’obbligo di repechage, ma anche per insussistenza del necessario nesso causale tra la ragione organizzativo-produttiva posta a base del recesso – perdita dell’appalto presso la C.C.I.A.A. di Frosinone – ed il provvedimento espulsivo.

6. Quanto alla tutela applicabile, la Corte d’appello ha rilevato come l’impossibilità di ricollocare il lavoratore fosse elemento costitutivo del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, sia perchè la L. n. 92 del 2012, non ha modificato la nozione dettata dalla L. n. 604 del 1966, art. 3, nè il quadro costituzionale di riferimento, sia perchè la possibilità di continuare ad occupare il lavoratore non consente neppure di prospettare la sussistenza delle ragioni elencate dal citato art. 3, come peraltro desumibile dalle pronunce di legittimità (Cass. n. 12101 del 2016 e n. 5592 del 2016) in tema di allegazione e prova dell’obbligo di repechage.

7. Ha quindi affermato l’insussistenza del fatto posto a base del recesso per la mancata prova dell’impossibilità di reimpiego del lavoratore ed anche per la carenza di nesso causale tra la ragione organizzativa/produttiva addotta ed il licenziamento del dipendente.

8. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Securpol s.r.l., affidato a quattro motivi, cui ha resistito con controricorso A.R..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo di ricorso la Securpol s.r.l. ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omesso esame, in violazione dell’art. 112 c.p.c., dello specifico motivo di reclamo sull’erronea interpretazione data dal Tribunale all’art. 25 del c.c.n.l. (“In ogni caso di cessazione di appalto…l’Istituto uscente… darà comunicazione… alle segreterie provinciali delle 00.SS. firmatarie, alle RSA/RSU, alla DTL competente per territorio, alla Prefettura…, alla Questura e…all’Istituto subentrante fornendo 1) l’elenco dei nominativi, livelli di inquadramento e anzianità lavorativa del personale già impiegato in via esclusiva o prevalente nell’appalto da più lungo tempo e comunque da non meno di sei mesi precedenti a quello della comunicazione”) inteso come riferito al personale impiegato nell’appalto da “più di sei mesi” anzichè “da non meno di sei mesi”.

2. Il motivo è inammissibile in quanto denuncia l’omessa pronuncia ad opera della Corte d’appello sul motivo di reclamo relativo all’erronea interpretazione del contratto collettivo senza, tuttavia, trascrivere il motivo medesimo, di cui non vi è traccia nella decisione di secondo grado (neppure alle pagine 6 e 7 contenenti il riassunto delle censure proposte dal reclamante), il che impedisce a questa Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” (cfr. Cass. n. 17049 del 2015).

3.Col secondo motivo la società ricorrente ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali con riferimento ad erronea e/o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c..

4. Ha sostenuto come la locuzione contenuta nell’art. 25 del c.c.n.l. secondo cui, ai fini della procedura di cambio appalto, vanno inseriti nell’elenco destinato alle OO.SS. i lavoratori “impiegati nell’appalto da almeno sei mesi”, dovesse essere interpretata in senso letterale, senza bisogno di far ricorso ad ulteriori criteri ermeneutici, con conseguente inclusione nel suddetto elenco del dipendente A. assegnato al cantiere in questione il 17.3.2014, sei mesi prima della comunicazione alle OO.SS. risalente al 17.9.2014.

5. Neppure questo motivo può trovare accoglimento.

6. La denuncia di violazione o falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi di lavoro, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, in quanto parifìcata sul piano processuale alla violazione di norme di diritto (cfr. Cass. n. 6335 del 2014; n. 7385 del 2014), consente a questa Corte un sindacato che presuppone un accertamento in fatto incontestato.

7. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità, (cfr. Cass. 18782 del 2005; n. 195 del 2016; n. 23847 del 2017; n. 6035 del 2018).

8. Nel caso di specie, la censura di erronea interpretazione dell’art. 25 del c.c.n.l. si basa su un dato di fatto diverso da quello accertato dalla Corte d’appello; cioè l’essere stato il lavoratore assegnato al servizio appaltato dal marzo 2014, anzichè dal maggio 2014 come ritenuto in sentenza, con inevitabili diverse conseguenze quanto al periodo di lavoro trascorso alla data di comunicazione di cessazione appalto (settembre 2014), cioè rispettivamente sei mesi o quattro mesi; così formulata la censura è inammissibile.

9. Col terzo motivo di ricorso Securpol s.r.l. ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, in relazione all’obbligo di repechage.

10. Ha affermato come l’obbligo datoriale di ricollocare il dipendente dovesse essere controbilanciato da un onere di collaborazione del lavoratore mediante allegazione dei posti di lavoro in cui la sua attività potrebbe essere utilmente reimpiegata.

11. Il motivo è infondato atteso che la pronuncia d’appello si è uniformata all’indirizzo consolidato di questa Corte, e che si intende ribadire, secondo cui, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri (cfr. Cass. n. 5592 del 2016; n. 12101 del 2016; n. 160 del 2017; n. 24882 del 2017).

12. Col quarto motivo di ricorso la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, sul rilievo che la manifesta insussistenza del fatto implichi la inesistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento (ha richiamato Cass. n. 14021 del 2016; n. 23669 del 2014), con possibilità di reintegra, mentre ove difetti uno degli elementi giuridici del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nella sussistenza di un fatto materiale astrattamente idoneo a costituire g.m.o., può trovare applicazione solo la tutela indennitaria.

13. Ha sostenuto come nel caso di specie sussistesse il fatto materiale posto a base del licenziamento, cioè la perdita dell’appalto da parte della società datoriale, e che l’obbligo di repechage, quale limite giuridico al potere di recesso datoriale, non incidesse sull’esistenza o meno del fatto materiale posto a base del licenziamento, con la conseguenza che dalla violazione di quest’ultimo obbligo potesse derivare unicamente l’applicazione della tutela indennitaria.

14. Il motivo è inammissibile e, comunque, infondato.

15. Pur prescindendo dalla omessa trascrizione della lettera di licenziamento contenente l’indicazione del “fatto” posto a base della decisione di recesso, deve rilevarsi come la società ricorrente abbia censurato solo una delle due rationes decidendi sui cui si basa la sentenza d’appello.

16. Quest’ultima, infatti, ha ritenuto insussistente il fatto posto a base del licenziamento, e quest’ultimo illegittimo, per due autonome ragioni: in ordine logico, la mancata prova del nesso causale tra la cessazione dell’appalto e il licenziamento del sig. A. e l’inadempimento datoriale all’obbligo di repechage (“il licenziamento impugnato è illegittimo non solo per non avere la società datrice assolto all’obbligo del repechage, ma anche per insussistenza del necessario nesso causale tra la ragione organizzativa/produttiva posta a base del recesso – perdita dell’appalto presso la C.C.I.A.A. di Frosinone – ed il provvedimento espulsivo, atteso che il reclamato non lavorava nè esclusivamente nè prevalentemente per detto appalto”, pag. 6 della sentenza).

17. La censura della società, in quanto investe solo una delle due autonome rationes decidendi, ciascuna idonea a fondare la illegittimità del recesso, risulta inammissibile.

18. Secondo la costante giurisprudenza di questa S.C., ove sia impugnata una statuizione fondata su più ragioni argomentative, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura; diversamente, l’omessa impugnazione di una delle autonome rationes decidendi e quindi la definitività della decisione sul punto, rende inammissibile per difetto di interesse la censura relativa alle altre statuizioni in quanto inidonea a determinare l’annullamento della sentenza (Cass. S.U. n. 16602 del 2005; Cass. n. 22753 del 2011; n. 4672 del 2013; n. 27325 del 2017).

19. La censura è, comunque, infondata alla luce dell’orientamento consolidato di questa Corte (cfr. Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 20436 del 2016, Cass. n. 160 del 2017, Cass. n. 9869 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017) che considera l’impossibilità di repechage del dipendente requisito di legittimità del recesso datoriale, quindi elemento costitutivo del legittimo esercizio del potere di recesso, al pari della sussistenza delle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3.

20. Principi ribaditi anche recentemente (Cass. n. 10435 del 2018) e in riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, nel senso che la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone da un lato, l’esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall’altro, la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato, con conseguente onere, a carico del datore di lavoro, di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente all’attività produttiva, all’organizzazione o al funzionamento dell’azienda nonchè l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte.

21. Per le considerazioni svolte il ricorso deve essere respinto.

22. La regolazione delle spese di lite segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.

23. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2019

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