Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25573 del 10/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 10/10/2019, (ud. 07/02/2019, dep. 10/10/2019), n.25573

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1350-2018 proposto da:

LA RONDA SERVIZI DI VIGILANZA S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio (TOFFOLETTO DE LUCA TAMAJO

RAFFAELE), rappresentata e difesa dagli avvocati VINCENZO LUCIANI,

ANDREA MORONE, FEDERICA PATERNO’, RAFFAELE DE LUCA TAMAJO, FRANCO

TOFFOLETTO;

– ricorrente –

contro

B.N., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato TOMMASO CAPUANO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 33/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 27/06/2017 R.G.N. 411/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/02/2019 dal Consigliere Dott. DE GREGORIO FEDERICO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato BENEDETTA GAROFALO per delega verbale Avvocato

RAFFAELE DE LUCA TAMAJO;

udito l’Avvocato CARLO PETRONE per delega verbale Avvocato TOMMASO

CAPUANO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso in data 29 dicembre 2011 il sig. B.N., premesso di aver lavorato con mansioni di guardia particolare giurata alle dipendenze della società LA RONDA SERVIZI DI VIGILANZA S.p.A. dall’11 marzo 1997, impugnava il licenziamento per giusta causa intimatogli con lettera del (OMISSIS) dalla datrice di lavoro, perchè presentatosi in servizio con circa mezz’ora di ritardo rispetto all’orario stabilito e perchè alle ore 6:15 del giorno 7 marzo 2011 era stata riscontrata la sua assenza nella postazione di servizio assegnata, essendo stato invece trovato mentre stava dormendo su di un divano. Il lavoratore deduceva di aver avvertito la direzione del ritardo per cui era stato autorizzato a prendere servizio alle ore 00.30 del 7 marzo anzichè alle 24:00 del giorno precedente. Inoltre, aveva dedotto la sproporzione della sanzione comminatagli, non rientrando la condotta contestata tra le ipotesi previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro quale giusta causa di licenziamento, escludendo in particolare che il fatto addebitatogli integrasse la fattispecie dell’abbandono del posto di lavoro. L’adito giudice del lavoro di Verona con sentenza n. 434 pubblicata il 4 dicembre 2014, previa istruzione con l’espletamento di prova per testi, dichiarava l’illegittimità dell’impugnato licenziamento e condannava la convenuta società alla reintegra dell’attore nel posto di lavoro e al risarcimento del danno, liquidato nell’importo complessivo pari al numero di mensilità della retribuzione globale di fatto, maturate dalla data di licenziamento sino alla reintegra effettiva, oltre accessori di legge, detratto l’aliunde perceptum, con addebito inoltre delle spese di lite. Il giudicante riteneva provato quanto affermato dal ricorrente in ordine al giustificato ritardo nel presentarsi al lavoro rispetto all’orario stabilito ed escludeva, inoltre, l’abbandono del posto di lavoro, poichè il comportamento posto in essere dal dipendente andava configurato come addormentamento in servizio, fattispecie che ai sensi del c.c.n.l. vigilanza privata era punita con la sanzione conservativa della sospensione del della retribuzione dal servizio da 1 a 6 giorni, risultando altresì sproporzionata la sanzione espulsiva comminata rispetto all’infrazione commessa, tenuto pure conto della mancanza di precedenti disciplinari, valutato il contesto fattuale per cui il padiglione da vigilare risultava avere le porte chiuse nonchè presidiato da altre due guardie giurate addette ad altrettanti stand.

La sentenza di primo grado era appellata da parte datoriale con ricorso in data 4 giugno 2015, impugnazione che tuttavia veniva respinta dalla Corte d’Appello di Venezia mediante la sentenza n. 33 in data 26 gennaio – 27 giugno 2017, con la condanna inoltre dell’appellante al rimborso delle ulteriori spese di lite (dando peraltro atto in motivazione anche della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il raddoppio del contributo unificato).

Secondo la Corte territoriale, in base al contesto nel quale si erano svolti i fatti contestati all’incolpato non sussisteva quel totale distacco dal bene da proteggere richiesto dalla giurisprudenza per poter configurare l’abbandono del posto di lavoro. In particolare, sotto il profilo oggettivo il contesto ambientale non era tale da far temere un potenziale pregiudizio per lo stand da sorvegliare, che si trovava all’interno di un padiglione, le cui porte di accesso erano chiuse ed era presidiato all’interno da altre due guardie giurate addette ad altrettanti stands e da una terza addetta alla sorveglianza dell’intero padiglione. Dal punto di vista soggettivo, il fatto che il B. si trovava all’interno del padiglione in uno stand adiacente, dal quale era possibile vedere lo stand da sorvegliare, escludeva che si potesse inequivocabilmente configurare una sua coscienza e volontà di non svolgere il proprio lavoro. Parte appellante aveva sostenuto che il lavoratore si era allontanato con il preciso intento di dormire senza essere disturbato, ma non aveva neppure offerto di provare tale assunto, assunto che non poteva essere dedotto in via presuntiva, come invece auspicato dalla società, in base al mero fatto che il lavoratore era stato trovato addormentato su di un divano piuttosto che su una sedia, poichè una cosa era l’abbandono del posto di lavoro, altra cosa era l’addormentamento, come riconosciuto anche dalla contrattazione collettiva, che sanzionava diversamente le due fattispecie.

La Corte veneziana, inoltre, disattendeva anche il secondo motivo di gravame, con il quale era stato censurato il ritenuto difetto di proporzionalità tra condotta contestata e reazione disciplinare, assumendo che il deliberato e consapevole allontanamento dalla propria postazione al fine di reperire un luogo appartato dove poter dormire senza essere disturbato era dotato di una sua intrinseca e ontologica gravità, condotta che indipendentemente dalla sua formale qualificazione come abbandono del posto di lavoro era certamente idonea a giustificare la massima sanzione espulsiva per giusta causa. Anche questa doglianza veniva respinta, poichè non risultava provato neppure in via presuntiva che il B. si fosse allontanato dallo stand che doveva sorvegliare con la chiara intenzione di dormire senza essere disturbato, non potendo l’intenzione soggettiva del lavoratore essere dedotta dal solo fatto che il medesimo era stato trovato addormentato su di un divano in uno stand vicino. La Corte di merito, inoltre, pur non dubitando, verosimilmente, della veridicità di quanto sostenuto da parte datoriale circa la violazione delle direttive appositamente impartite al dipendente, di rimanere per tutta la durata del suo turno all’interno dello stand assegnatogli, osservava che ad ogni modo non risultava dimostrato, nè documentalmente e nemmeno tramite testi, che il B. avesse ricevuto specifiche consegne sulle modalità di svolgimento del proprio turno di lavoro, sicchè poteva anche ammettersi una certa elasticità nella sua esecuzione, essendo il dipendente comunque rimasto sempre nelle vicinanze dello stand. Ciò che rendeva all’evidenza meno “macroscopica” la dedotta lesione del vincolo fiduciario, con riguardo alla legittima aspettativa di parte datoriale di un corretto adempimento della prestazione futura.

Inoltre, la Corte distrettuale, avuto riguardo all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, come sopra valutati, alla durata di 14 anni del rapporto in questione, pure senza precedenti sanzioni disciplinari, riteneva, al pari del giudice di primo grado, palesemente sproporzionato il licenziamento rispetto all’infrazione commessa, per entrambi i dedotti profili.

La pronuncia d’appello è stata quindi impugnata dalla S.p.a. LA RONDA servizi di Vigilanza, con sede in Verona, con ricorso per cassazione notificato tramite p.e.c. il 27 dicembre 2017, affidato a tre motivi, cui ha resistito il sig. B. come da controricorso del 5-2-2018.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo – formulato ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – la società ricorrente ha denunciato omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio: uno dei pilastri su cui la Corte d’Appello aveva escluso la configurabilità dell’abbandono del luogo di lavoro risiedeva nella erronea convinzione che non sarebbe stato provato che il B. abbia ricevuto specifiche consegne sulle modalità di svolgimento del lavoro…, trattandosi di un’affermazione priva di alcun riscontro fattuale, risultando sul punto sufficiente la deposizione rilasciata all’udienza del 6 dicembre 2012 dal teste M., oltre che le dichiarazioni rese dai testi S. e T.. Era dunque pacifico che il B. avesse a suo tempo ricevuto dalla società uno specifico incarico di vigilanza reso necessario dalla presenza all’interno dello stand assegnatogli di un prototipo non ancora in commercio.

Con il secondo motivo di ricorso è stata dedotta la violazione o falsa applicazione di norme del contratto collettivo nazionale di lavoro ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè dell’art. 1362 c.c., con riferimento in particolare all’art. 140 del c.c.n.l. per i dipendenti di istituti di vigilanza privata, secondo cui il licenziamento per giusta causa si applica nei confronti del lavoratore che commetta una mancanza che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro. A titolo indicativo rientravano tra le mancanze di cui sopra l’abbandono del posto di lavoro. Nonostante la univocità della previsione negoziale e la chiarezza degli obblighi contrattuali da osservare, la Corte veneziana con un evidente violazione della lettera della richiamata norma collettiva, aveva escluso la riconducibilità del caso in esame alla fattispecie dell’abbandono del posto di lavoro, ritenendo viceversa configurabile la meno gravi ipotesi dell’addormentamento in servizio di cui all’art. 101, lett. c) dello stesso contratto collettivo, che al riguardo prevedeva la sanzione conservativa della sospensione della retribuzione e dal servizio da uno a sei giorni (per il lavoratore che esegua con negligenza grave il lavoro affidatogli, ometta parzialmente di eseguire la prestazione richiesta, arrechi danno alle cose ricevute in dotazione o in uso con responsabilità, si assenti per un giorno dal lavoro senza valida giustificazione, non avverta subito superiori diretti di eventuali irregolarità nell’adempimento di servizio, si presenti in servizio prestato di manifesta ubriachezza e nell’ipotesi in cui “SI ADDORMENTI in SERVIZIO”).

La Corte territoriale, pur muovendo il suo ragionamento da una recente pronuncia di Cassazione, nella sua parte motiva con la sentenza impugnata finiva di fatto per discostarsene, operando una parziale e limitata applicazione del richiamato principio di diritto. Infatti, partendo dal profilo oggettivo era pacifico che la notte tra il sei e il 7 marzo 2011 il sig. B. era stato addetto al piantonamento del padiglione otto, in particolare presso lo stand IML motori, che conteneva un prototipo non ancora presentato al pubblico, prototipo che necessitava come da specifica richiesta del cliente di un presidio particolare con una guardia nella fascia notturna; alle ore 6:15 il suddetto dipendente era sorpreso dai signori M., S. e T. a dormire profondamente, sdraiato su uno dei divani posti su di un soppalco di un diverso stand, distante circa 10 metri da quello assegnato al predetto, in un luogo quindi chiaramente al di fuori del suo raggio di azione, non rientrando nella zona sottoposta la sua attività di vigilanza. Da tale soppalco non era possibile, infatti, controllare lo stand cui era stato adibito il lavoratore, essendo aperto solo da un lato ed essendoci una balaustra alta oltre un metro e mezzo, che impediva la visuale specie di chi fosse seduto o sdraiato sul divano. Il B. non aveva avvisato nessuno dei suoi colleghi presenti nel medesimo sito di avere necessità di allontanarsi e riposare, lasciando del tutto incustodito lo stand cui era stato addetto.

Gli anzidetti elementi, del tutto pacifici anche al resto dell’attività istruttoria svolta in primo grado, rappresentavano senz’altro il substrato oggettivo della fattispecie disciplinare contestata al lavoratore e fondante il recesso. Malgrado ciò, la Corte di merito si era limitata a rilevare che il contesto ambientale non era tale da far temere un potenziale pregiudizio per lo stand da sorvegliare, affermazione però integrante il vizio di violazione del suddetto art. 140. L’esclusione della più grave fattispecie dell’abbandono del posto di lavoro veniva in pratica fatta discendere dal solo profilo, alquanto soggettivo e personale, della verosimile assenza di un pericolo per i beni da proteggere, piuttosto che dalla verifica oggettiva di tutte le anzidette richiamate circostanze di fatto, che sicuramente rappresentavano elementi costitutivi della suddetta fattispecie.

Ugualmente parziale ed erronea risultava la valutazione del profilo soggettivo della contestata condotta, poichè anche su questo versante la decisione impugnata si rivelava del tutto distonica rispetto alle coordinate interpretative della giurisprudenza di legittimità, nella misura in cui ometteva di considerare che il luogo dove era stato sorpreso il dipendente a dormire era pacificamente estraneo e al di fuori della zona cui egli era stato addetto. Era innegabile che il lavoratore avesse deliberatamente scelto di allontanarsi dallo stand, cui era stato assegnato, e che si era diretto presso uno stand vicino, dove era andato alla ricerca di un posto appartato per poter riposare, non a caso un soppalco dove c’era un divano non visibile dal basso. L’omesso esame di tali pacifiche circostanze nell’ambito del giudizio di accertamento della condotta di cui all’art. 140 c.c.n.l., quale abbandono del posto di lavoro, integrava una palese violazione della disposizione negoziale, essendo nel ragionamento del giudice del tutto carente l’indagine sull’indefettibile requisito della coscienza e volontà della condotta di abbandono. In realtà, la Corte distrettuale aveva omesso, anche per tale profilo, di contestualizzare il comportamento, errore che non consentiva quindi al collegio di cogliere la gravità della condotta di chi, preposto ad un luogo di vigilanza di un intero stand aziendale, volontariamente e senza avvisare nessuno lascia il proprio posto di lavoro per addormentarsi in un luogo appartato e per un tempo non preventivabile ex ante, accettando implicitamente il rischio di mettere a repentaglio la sicurezza dei luoghi di lavoro che si era impegnato contrattualmente a custodire e vigilare. Dunque, il lavoratore che non si adoperava per assicurare il regolare svolgimento del servizio con la propria condotta determinava un gravissimo inadempimento idoneo a ledere il vincolo fiduciario. In tal sensi si era pronunciata da tempo la giurisprudenza di legittimità, richiamandosi sul punto il principio affermato da Cass. 4 giugno 2002 n. 8107.

Infine, con il terzo motivo è stata lamentata la violazione o falsa applicazione degli artt. 2016 e 2119 c.c., laddove l’impugnata sentenza, sull’erroneo inquadramento della vicenda fattuale come addormentamento in servizio, punito dal c.c.n.l. con una sanzione conservativa, era giunta alla conclusione dell’illegittimità del licenziamento per difetto del requisito di proporzionalità, in quanto, a parte il già rilevato erroneo punto di partenza, essendo invece pacifico che l’appellato avesse deliberatamente e scientemente abbandonato la sua postazione al fine di rintracciare un luogo appartato dove poter dormire, in ogni caso la condotta posta in essere risultava connotata da una sua intrinseca e ontologica gravità, che, anche a prescindere dalla sua formale qualificazione come abbandono del posto di lavoro, era certamente idonea a giustificare la massima sanzione espulsiva. La Corte di merito, secondo parte ricorrente, non aveva adeguatamente valutato la portata oggettiva e soggettiva dei fatti addebitati e la loro ripercussione sull’elemento fiduciario. La sentenza impugnata aveva omesso totalmente di effettuare proprio quella rilevazione degli elementi di contesto del fatto addebitato, che scaturivano dalle concrete circostanze in cui la condotta si era realizzata. Tale omissione non aveva consentito alla Corte distrettuale di valutare e apprezzare, nel comportamento osservato dal dipendente, la grave negazione degli elementi essenziali del rapporto, in relazione alla delicatezza delle mansioni assegnate, in vista delle peculiari esigenze di prevenzione e repressione che il servizio di vigilanza deve soddisfare. Non poteva accettarsi l’approccio riduttivo e minimalista della Corte territoriale, che aveva qualificato siffatto comportamento come non meritevole di una sanzione espulsiva. La guardia giurata, che intenzionalmente abbandonava il proprio posto di lavoro appartatosi in un altro stand a dormire profondamente su di un divano, veniva meno ai doveri fondamentali oggetto della propria prestazione di lavoro e tale mancanza, nel caso di specie, aveva un peso disciplinare elevatissimo, consentendo di affermare che all’esito dell’operazione di sussunzione della complessiva vicenda fattuale entro le coordinate della disciplina codicistica, ex art. 2119 c.c., nel caso di specie ricorrevano i requisiti della giusta causa di licenziamento, ed ancora che, sul piano della proporzionalità ex art. 2106 c.c., il provvedimento espulsivo doveva ritenersi certamente commisurato alla gravità della condotta così come emersa nel corso del giudizio.

Le anzidette censure vanno disattese in forza delle seguenti considerazioni.

Invero, preliminarmente e segnatamente con riferimento al primo motivo ex art. 360 c.p.c., n. 5, va osservato che nella specie i fatti di causa devono ritenersi – incensurabilmente in questa sede di legittimità- accertati come da motivate pronunce di merito, che vanno di conseguenza lette congiuntamente, integrandosi le stesse reciprocamente (n. 434/0412-2014 in primo grado, confermata in secondo grado con il rigetto del ricorso d’appello in data 4 giugno 2015 mediante la qui impugnata pronuncia n. 33/26 gennaio – 27 giugno 2017 r.g. n. 411/2015), sicchè la c.d. doppia conforme preclude ogni diversa valutazione rispetto a quanto appurato e di conseguenza apprezzato nonchè deciso, prima dal giudice del lavoro di Verona e poi dalla Corte di Venezia, operando nella specie l’art. 348-ter c.p.c., u.c., ratione temporis applicabile in virtù del regime transitorio stabilito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 2, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. sul punto, inoltre, Cass. I civ. n. 26774 del 22/12/2016: nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, applicabile ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012- il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 -nel testo riformulato dal D.L. n. 83 cit., art. 54, comma 3 ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012- deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse. Conforme tra le altre Cass. 2 civ. n. 5528 del 10/03/2014.

5. quindi anche Cass. 6 civ. – 3, n. 26097 in data 11/12/2014, secondo cui in ipotesi di cosiddetta “doppia conforme” in fatto a cognizione sommaria, ex art. 348 ter, comma 4, alla cui disciplina rimanda il quinto e ultimo comma dello stesso art. 348-ter riguardo al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado- c.p.c., è escluso il controllo sulla ricostruzione di fatto operata dai giudici di merito, sicchè il sindacato di legittimità del provvedimento di primo grado è possibile soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici o manchi del tutto, oppure sia articolata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, perplessi o obiettivamente incomprensibili.

A tale ultimo riguardo, tuttavia, va ancora precisato, come puntualizzato da Cass. 6 civ. – 3 con l’ordinanza n. 22598 del 25/09/2018, che in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Nella specie, peraltro, la motivazione della sentenza qui impugnata appare del tutto adeguata agli anzidetti parametri, di modo che non può dirsi neanche violato il c.d. minimo costituzionale – v. a tal proposito in part. Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014, tanto più poi che neanche parte ricorrente ha prospettato un error in procedendo sul punto, peraltro da denunciarsi ritualmente, ed univocamente in termini di nullità, ai sensi del succitato art. 360 n. 4).

Da tanto deriva anche l’infondatezza, se non la radicale inammissibilità, di tutte le censure svolte con il secondo ed il terzo motivo di ricorso, tra loro evidentemente connessi e perciò congiuntamente esaminabili, concernenti le denunciate violazioni di legge e di contrattazione collettiva, che però presuppongono una ricostruzione in punto di fatto della vicenda in questione diversa da quanto ritenuto in sede di merito, nella specie quindi, come si evince dalle surriferite doglianze, essenzialmente formulate in termini di abbandono del posto di lavoro, anzichè di addormentamento, secondo quanto invece accertato dai giudici di primo e di secondo grado. Una volta, pertanto, acclarati i fatti di causa, secondo quanto pur motivatamente appurato in sede di merito, le censure consentite ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 non possono prescindere dall’accertamento compiuto dai giudici esclusivamente competenti al riguardo. Ne consegue che le asserite violazioni di legge, ovvero di errata applicazione del c.c.n.l., vanno esaminate esclusivamente in base a quanto in punto di fatto già accertato dai giudici di merito, le cui corrispondenti valutazioni poi, come è noto secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte in materia, nemmeno sono sindacabili in sede di legittimità. Infatti, in tema di ricorso per cassazione, la deduzione del vizio di violazione di legge, consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (c.d. vizio di sussunzione), postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito (in tal sensi v. tra le altre Cass. 3 civ., ordinanza n. 6035 del 13/03/2018, che in motivazione così risulta, in particolare, motivata: “…Tutto ciò rende, altresì, evidente quanto innanzi accennato circa l’insussistenza di una effettiva denuncia di error in iudicando.

La ricorrente, infatti, si duole non tanto dell’erronea interpretazione delle norme che presiedono al governo della fattispecie di diffamazione a mezzo stampa o dei principi giuridici a tal riguardo enucleati dalla giurisprudenza di legittimità, quanto della cattiva applicazione degli stessi rispetto ai fatti allegati siccome integranti l’ipotesi dell’anzidetto illecito… Tuttavia, una siffatta doglianza – veicolabile in base all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e da qualificarsi come “vizio di sussunzione”, in quanto attinente all’erronea riconduzione della fattispecie materiale in quella legale (e, dunque, del fatto alla norma che è deputata a dettarne la disciplina e regolarne gli effetti) – non può che essere costruita se non assumendo l’accertamento di fatto, così come operato dal giudice del merito, in guisa di termine obbligato, indefettibile e non modificabile del sillogismo tipico del paradigma dell’operazione giuridica di sussunzione, là dove, diversamente (ossia ponendo in discussione detto accertamento), si verrebbe a trasmodare nella revisione della quaestio facti e, dunque, ad esercitarsi poteri di cognizione esclusivamente riservati al giudice del merito (cfr. in tale prospettiva, tra le altre, Cass., 23 settembre 2016, n. 18715 e Cass., 14 febbraio 2017, n. 3965). E’ dunque estraneo alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investe la ricostruzione e l’accertamento del fatto materiale, da cui, invece, nella sua portata, come giudizialmente definita, deve muovere la censura di erronea riconduzione di esso alla norma di riferimento. Sicchè, nella specie, come già posto in risalto, ciò che viene criticato è anzitutto e proprio l’accertamento del giudice del merito sulla realtà materiale che le risultanze di causa, secondo la prospettiva della stessa parte ricorrente, avrebbero dimostrato come “vera”…”.

V. anche Cass. III civ. n. 3205 del 18/03/1995: il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quale motivo di ricorso per cassazione – dell’art. 360 c.p.c., n. 3, ricorre quando si prospetta l’errata applicazione di una norma ad un fatto sulla cui fissazione non c’è discussione, mentre quello di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione – art. 360 c.p.c., n. 5, si risolve in una doglianza che investe la ricostruzione della fattispecie concreta, addebitando a questa ricostruzione di essere stata effettuata in una massima la cui incongruità emerge dalla insufficiente, contraddittoria o omessa motivazione della sentenza. Pertanto, il vizio dell’incongruità della motivazione comporta un giudizio sulla ricostruzione del fatto, mentre quello sulla falsa applicazione della legge si risolve in un giudizio sul fatto contemplato dalla norma di diritto applicabile al caso concreto, in maniera tale che tra i due momenti non vi siano giustapposizioni. Conforme id. n. 1624 del 16/02/1998. Analogamente, secondo Cass. III civ. n. 1430 del 20/02/1999, l’espressione normativa, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, si riferisce all’accertamento dei punti di fatto che hanno assunto rilevanza per la decisione e non a quelli riguardanti l’affermazione e l’applicazione dei principi giuridici, posto che in questo secondo caso è configurabile una falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360, n. 3. Parimenti, secondo Cass. II civ. n. 6224 del 29/04/2002, non può ricondursi nell’ambito del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quale motivo di ricorso per cassazione “ex” art. 360 c.p.c., n. 3), la deduzione con la quale si contesti al giudice di merito, non di aver errato nella individuazione della norma regolatrice della controversia, bensì di avere erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi d’una determinata fattispecie normativamente regolata, giacchè siffatta valutazione comporta, non un giudizio di diritto, ma un giudizio di fatto, da impugnarsi, se del caso, sotto il profilo del vizio di motivazione. Cfr. ancora Cass. I civ. n. 15499 in data 11/08/2004: il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata lla Corte di cassazione 65 Ord. Giud.; viceversa, l’allegazione di un’erronea icognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione -secondo il testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, vigente all’epoca di tale pronuncia- Conforme, tra le altre Cass. sez. un. civ. n. 10313 del 5/5/2006, secondo cui, di conseguenza, il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa. In senso analogo Cass. lav. n. 7394 del 26/03/2010 e n. 16698 del 16/07/2010, nonchè Sez. 6 – 2 con ordinanza n. 24054 del 12/10/2017. V. altresì Cass. II civ. n. 6653 del 30/03/2005: non può ricondursi nell’ambito del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quale motivo di ricorso per cassazione “ex” art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la deduzione con la quale si contesti al giudice di merito non di aver errato nella individuazione della norma regolatrice della controversia, bensì di avere erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi d’una determinata fattispecie normativamente regolata, giacchè siffatta valutazione comporta un giudizio non già di diritto bensì di fatto, eventualmente impugnabile sotto il profilo del vizio di motivazione – anche qui ex art. 360, n. 5 vecchio testo. Ancora, similmente v. Cass. n. 8315 del 04/04/2013: il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Conformi Cass. V civ. n. 26110 del 30/12/2015 e sez. lav. n. 195 in data 11/01/2016. Ancor più recentemente Cass. I civ. n. 24155 del 13/10/2017 ha confermato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità. Di conseguenza, nella specie veniva dichiarato inammissibile il motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con il quale era stata proposta una lettura alternativa delle risultanze di causa rispetto a quella fatta propria dal giudice di merito, in assenza di qualsivoglia censura dei criteri ermeneutici asseritamene violati o di specifica indicazione di un preciso “error in iudicando”).

Ed alla stregua, dunque, di quanto, ormai insindacabilmente, accertato in punto di fatto dai giudici di merito, del tutto corrette appaiono anche le conseguenti argomentazioni in diritto (v. Cass. lav. n. 15441 del 19/04 – 26/07/2016), circa gli estremi dell’abbandono del posto di lavoro, di cui all’art. 140 del c.c.n.l. Istituti di vigilanza, ravvisabile soltanto in presenza di una duplice connotazione, oggettiva, per cui, dovendosi identificare l’abbandono nel totale distacco dal bene da proteggere (o, se si vuole, nella completa dismissione della condotta di protezione) rileva l’intensità dell’inadempimento agli obblighi di sorveglianza, e soggettiva, consistente nella coscienza e volontà della condotta di abbandono indipendentemente dalle finalità perseguite e salva la configurabilità di cause scriminanti, restando irrilevante il motivo dell’allontanamento. In particolare, la Corte di merito ha escluso che nel caso di specie potesse sussistere l’anzidetto elemento oggettivo, non risultando d’altro canto provato anche il pur necessario elemento soggettivo.

Una volta, pertanto ridimensionato l’accaduto, con esclusione dell’abbandono del posto di lavoro, sanzionato dalla contrattazione collettiva con il licenziamento per giusta causa, i giudici di merito hanno inoltre evidenziato una serie di circostanze tali da indurre a ritenere comunque la sproporzione tra il riscontrato addormentamento in servizio ed il recesso per contro intimato, non contemplato dalla stessa contrattazione per tale ipotesi, per la quale era prevista invece la sola sanzione conservativa della sospensione dalla retribuzione e dal servizio da uno a sei giorni. Per quanto concerne, dunque, in particolare le doglianze esposte con il terzo motivo di ricorso, a parte le già rilevate preclusioni riguardo ad una diversa ricostruzione fattuale, la Corte di merito non ha comunque riscontrato una legittima proporzione tra il fatto accertato e la sanzione di rigore applicata da parte datoriale, ritenendo in tal modo, evidentemente, non potersi discostare dalle previsioni in materia dettata, dalla contrattazione collettiva di settore, ratio decidendi peraltro anch’essa del tutto legittima (cfr. infatti Cass. lav. n. 27004 del 24/10/2018, secondo cui pur essendo la giusta causa di licenziamento nozione legale rispetto alla quale non sono vincolanti – al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo – le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa e non precludono l’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore, tuttavia opera il solo limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione. Parimenti, secondo Cass. lav. n. 6165 del 30/03/2016, il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento disciplinare quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal c.c.n.l. in relazione ad una determinata infrazione.

Cfr., d’altro canto, pure Cass. lav. n. 8826 del 05/04/2017, secondo cui la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore per una condotta contemplata, a titolo esemplificativo, da una norma del contratto collettivo fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa deve essere, in ogni caso, effettuata attraverso un accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonchè del rapporto di proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche quando si riscontri l’astratta corrispondenza di quel comportamento alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola della “non scarsa importanza” dettata dall’art. 1455 c.c.. V. altresì Cass. lav. n. 23602 del 28/09/2018: in tema di licenziamento disciplinare, qualora il grave nocumento morale e materiale è parte integrante della fattispecie prevista dalle parti sociali come giusta causa di recesso, occorre accertarne la relativa sussistenza, quale elemento costitutivo che osta alla prosecuzione del rapporto di lavoro, restando preclusa, in caso contrario, la sussunzione del caso concreto nell’astratta previsione della contrattazione collettiva. Inoltre, secondo Cass. lav. n. 26010 del 17/10/2018, in tema di licenziamento per giusta causa, l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che – anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità).

Atteso l’esito negativo dell’impugnazione qui proposta, la parte rimasta soccombente va condannata al rimborso delle relative spese, risultando peraltro anche in presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte RIGETTA il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore di parte controricorrente in complessivi Euro =4500,00= per compensi professionali ed in Euro =200,00= per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, in relazione a questo giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuti per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2019

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