Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25570 del 10/10/2019

Cassazione civile sez. I, 10/10/2019, (ud. 12/09/2019, dep. 10/10/2019), n.25570

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giusepp – rel. Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14419/2018 proposto da:

X.M., domiciliata in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria

civile della Corte di Cassazione e rappresentata e difesa

dall’avvocato Federico Lera, in forza di procura speciale in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 06/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/09/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis depositato il 6/9/2017, X.M., cittadina cinese, ha adito il Tribunale di Milano – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE, impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

La richiedente aveva riferito di essere nata in Cina ad Anhui, di essere sposata e di avere un figlio di 26 anni, di essere operaia in una fabbrica di materie plastiche; di essere stata indotta ad espatriare per motivi religiosi, in quanto aderente alla religione cristiana della comunità religiosa di Dio onnipotente, perchè il governo cinese, comunista e ateo, non riconosce la libertà religiosa e perseguita e arresta i cristiani; di essersi rifugiata all’estero a seguito di numerose perquisizioni e indagini subite dalla polizia per motivi religiosi.

Con decreto del 6/4/2018, il Tribunale di Milano – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE ha rigettato il ricorso, ritenendo la non sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.

2. Avverso il predetto decreto ha proposto ricorso X.M., con atto notificato il 7/5/2018, svolgendo tre motivi.

L’intimata Amministrazione dell’Interno non si è costituita in giudizio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 1, art. 8, comma 1, lett. a), art. 3, comma 5, lett. c), con riferimento al riconoscimento dello status di rifugiato e con specifico riferimento alla condizione di perseguitato religioso.

1.1. Il racconto della richiedente era stato considerato aprioristicamente, senza alcun doveroso approfondimento della realtà sociale, venendo così meno all’obbligo di cooperazione a carico del Giudice e al principio della buona fede del richiedente.

Il Tribunale non aveva ritenuto credibile la ricorrente, senza considerare il suo eventuale analfabetismo religioso, il che non escludeva che ella potesse essere una sincera credente, ancorchè non provvista di cultura religiosa.

La violazione della libertà religiosa non doveva dipendere dall’adozione di un modello preconcetto di pratica religiosa e il Tribunale si era basato sulle linee guida UNHCR in modo del tutto decontestualizzato e superficiale.

Infine la ricorrente aggiunge che l’impossibilità di praticare liberamente il culto costituiva una ipotesi classica di persecuzione religiosa.

2. Con il secondo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 14, lett. b), in combinato disposto con il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 con riferimento alla richiesta protezione sussidiaria, con specifico riferimento ai trattamenti degradanti riservati in Cina ai credenti delle religioni cristiane.

3. I primi due motivi, connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

3.1. Il Tribunale di Milano ha respinto la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria, entrambe fondate sulla persecuzione per motivi religiosa asseritamente subita nella repubblica cinese dalla richiedente asilo, di fede cristiana aderente alla comunità religiosa di Dio onnipotente, essendo giunto alla conclusione che il racconto di X.M. in ordine alla propria vicenda personale non fosse credibile, poco circostanziato, privo di elementi specifici rispetto ad elementi fondamentali e non plausibile.

In particolare, secondo il Tribunale la ricorrente aveva riferito in modo troppo generico il momento centrale ed estremamente significativo della conversione; le motivazioni che l’avevano indotta ad avvicinarsi ad un culto vietato e duramente represso erano state riferite in modo vago e generico, al pari delle modalità dei contatti con la rete dei fedeli; la richiedente aveva riferito in modo troppo generico anche le caratteristiche principali della religione professate, i contenuti delle preghiere e i fondamenti del culto; non erano plausibili nè l’ignoranza della repressione del culto da parte delle autorità, nè la mancanza di difficoltà di sorta per sei anni dal 2006 al 2012 e di adozione di precauzioni specifiche per le riunioni dei fedeli, nonostante la severa repressione praticata dalla Cina della Chiesa Almighty God; altrettanto implausibili sono parsi al Tribunale la tardiva denuncia del marito dell’amica Li e il silenzio sui due anni trascorsi nel villaggio; anche sotto il profilo dell’attendibilità intrinseca, le dichiarazioni della richiedente sono parse scarsamente pregnanti sul fondamentale elemento dell’esperienza religiosa individuale.

3.2. Certamente la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez. 6, 25/07/2018, n. 19716).

Il giudice deve tuttavia prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine; le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso (Sez.6, 27/06/2018, n. 16925; Sez.6, 10/4/2015 n. 7333; Sez. 6, 1/3/2013 n. 5224).

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.

Il contenuto dei parametri sub c) ed e), sopra indicati, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, quando il complessivo quadro allegativo e probatorio fornito non sia esauriente, purchè il giudizio di veridicità alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca) sia positivo (Sez.6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez.6, 10/5/2011, n. 10202).

Beninteso, il principio che le dichiarazioni del richiedente che siano inattendibili non richiedono approfondimento istruttorio officioso va opportunamente precisato e circoscritto: nel senso che ciò vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente, che può rilevare ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Invece il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c). (Sez.1, 31/1/2019 n. 3016).

Inoltre questa Corte ha di recente ribadito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, o come motivazione apparente, o come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Sez. 1, n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549 – 01; Sez. 6 – 1, n. 33096 del 20/12/2018, Rv. 652571 – 01).

3.3. Nella specie, lungi dall’introdurre una censura motivazionale conforme all’attuale canone dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in termini di omesso esame di fatto decisivo controverso fra le parti, la ricorrente denuncia, fra l’altro in gran parte in modo non pertinente, una insussistente violazione di legge per sollecitare inammissibilmente questa Corte ad una rivalutazione del materiale probatorio difforme da quella effettuata dal Giudice di merito e ampiamente motivata.

4. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19 in relazione ai presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Secondo la ricorrente non era stato tenuto conto della effettiva e incolmabile sproporzione fra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali.

Tuttavia anche questa censura appare inammissibile poichè implica anch’essa la rivalutazione del giudizio di non credibilità soggettiva formulata dal Tribunale di Milano, poichè la richiesta di protezione umanitaria è fondata esclusivamente sull’assenza di libertà religiosa nel Paese di origine, in difetto di elementi utili a personalizzare e rendere rilevante nei suoi confronti il pregiudizio paventato.

4. Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile.

Non occorre provvedere sulle spese in difetto di costituzione dell’Amministrazione.

PQM

LA CORTE

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 12 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2019

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