Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25566 del 27/10/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 27/10/2017, (ud. 18/05/2017, dep.27/10/2017),  n. 25566

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15891-2013 proposto da:

YAHOO ITALIA SRL, in persona dell’Amm.re Delegato e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE

G. MAZZINI 9-11, presso lo studio dell’avvocato LIVIA SALVINI, che

lo rappresenta e difende giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 150/2012 della COMM.TRIB.REG. della LOMBARDIA,

depositata il 17/12/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/05/2017 dal Consigliere Dott. ANDREA VENEGONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato DE GIROLAMO per delega

dell’Avvocato SALVINI che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato PALATIELLO che si riporta

agli atti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

RITENUTO CHE:

La società Yahoo Italia srl era oggetto di una verifica relativa a più anni di imposta.

Con avviso di accertamento (OMISSIS), successivo alla verifica, riguardante il periodo di imposta 2006 (Unico 2007) l’ufficio recuperava a tassazione nei confronti del contribuente Yahoo Italia srl costi per 694.854,62 Euro, disconoscendone la deduzione perchè non oggettivamente determinabili; ne derivavano, conseguentemente, maggiori imposte per ires e irap, oltre ad interessi e sanzioni.

Si trattava, in particolare, di costi per servizi resi dalla casa madre Yahoo Europe a Yahoo Italia per la gestione e implementazione del portale relativo alla telefonia mobile; costi che riguardavano la gestione accentrata della “business unit mobile”, cioè sostenuti a livello centrale da Yahoo Europa ma riaddebitati, cioè ripartiti, tra le varie società del gruppo con un “mark up”del 7% sulla base di un “cost sharing agreement”, cioè un accordo di ripartizione dei costi tra la casa madre e varie società figlie, tra cui quella italiana, aventi sede nei principali Stati Europei. Gli stessi riguardavano i servizi mercato mobile, posta elettronica premium, sviluppi del prodotto, sviluppo business e servizi “ad hoc” (come la (OMISSIS)).

L’accertamento riteneva che il riaddebito dei costi fosse avvenuto in maniera automatica senza riferimento alla proporzione col beneficio ricevuto, per cui recuperava a tassazione i costi del settore Mobile, di cui al conto “Indirect allocation”.

Dopo tentativo di adesione fallito, la società ricorreva alla CTP di Milano deducendo:

– Violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 5 per il mancato rispetto del termine di trenta giorni di permanenza dei verificatori nei locali dell’impresa.

– Contraddittorietà della motivazione dell’avviso sui rilievi relativi al conto “Indirect Allocation”;

– Errata applicazione da parte dell’ufficio delle norme sulla possibilità di utilizzo delle perdite riportate dagli anni precedenti;

– Errata interpretazione dell’art. 109 TUIR sul concetto di “inerenza” dei costi.

Deduceva, in particolare, che i costi erano stati regolarmente fatturati e registrati ed erano conformi ai criteri di allocazione secondo il “cost sharing agreement”.

La CTP di Milano, con sentenza n. 21/15/2011, accoglieva il ricorso per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 5, annullando l’avviso di accertamento conseguente.

L’ufficio appellava la sentenza.

La CTR Lombardia, con sentenza n. 150/50/12, depositata il 17.12.2012, riformava la sentenza di primo grado sia in relazione alla violazione dell’art. 12, comma 5, non ravvisando alcun motivo di nullità, che nel merito, e confermava l’accertamento.

Ricorreva la società in cassazione, con ricorso notificato in data 17.6.2013, sulla base di dieci motivi.

Resisteva l’ufficio con controricorso.

Successivamente, con separata memoria con cui chiedeva la trattazione della causa, la società, oltre ad evidenziare la propria messa in liquidazione, invocava l’applicazione del vincolo di giudicato esterno, esponendo che per altra annualità, il 2004, la relativa sentenza della CTR, favorevole alla società, non era stata impugnata ed era quindi passata in giudicato. Poichè i fatti di causa e le questioni trattate erano identiche a quelli del presente, chiedeva che il presente giudizio venisse deciso sulla base dell’efficacia vincolante del giudicato relativo all’annualità 2004.

CONSIDERATO CHE:

1. Deve in primo luogo affrontarsi il tema preliminare dell’efficacia del giudicato, atteso che la eventuale fondatezza dell’argomento dedotto dalla società assorbirebbe le restanti questioni.

1.1. Poichè la sentenza della CTR relativa all’anno 2004 ha riconosciuto la deducibilità dei costi sulla base del fatto che gli stessi, dedotti nell’esercizio di competenza, erano riportati nelle scritture contabili e nel conto economico, erano afferenti ai ricavi ed erano certi, la società ritiene che il giudicato sull’anno 2004 vincoli la decisione anche sulle altre annualità caratterizzate dai medesimi presupposti di fatto, come l’annualità in questione.

1.2. Il motivo non è fondato.

Questa Corte ha affermato a Sezioni Unite che l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori del periodo considerato non trova ragionevole giustificazione in relazione a quelli che possono essere definiti come “elementi preliminari” nella costituzione della fattispecie tributaria, i quali, per la loro strutturale propedeuticità (o strumentalità) al riconoscimento di un determinato diritto, sono naturalmente correlati ad un interesse protetto che ha il carattere della durevolezza e, quindi, all’efficacia regolamentare del giudicato che su di essi si sia formato (Sez. Un. n. 13916 del 2006).

1.3. In altri termini, l’efficacia vincolante del giudicato opera per periodi di imposta diversi da quello oggetto della controversia in cui il giudicato si è formato solo se lo stesso concerne elementi che, una volta accertati, sono per loro natura immutabili in relazione alla sussistenza del presupposto dell’imposta, quali elementi che, per le loro caratteristiche, sono strutturalmente ed ontologicamente idonei a produrre i loro effetti su più periodi.

Successivamente, questa Corte ha ribadito in ripetute occasioni il principio per cui in materia fiscale, dove vige l’autonomia di ciascun periodo di imposta, “la sentenza del giudice tributario che definitivamente accerti il contenuto e l’entità degli obblighi del contribuente per un determinato periodo d’imposta fa stato, quanto ai tributi dello stesso tipo da questi dovuti per gli anni successivi, solo per gli elementi che abbiano un valore “condizionante” inderogabile rispetto alla disciplina della fattispecie esaminata, sicchè, laddove risolva una situazione fattuale riferita ad uno specifico periodo d’imposta, essa non può estendere i suoi effetti automaticamente ad un’altra annualità, ancorchè siano coinvolti tratti storici comuni” (Sez. 5, n. 22941 del 2013, n. 1837 del 2014, n. 4832 del 2015; sez. 6, n. 11367 del 2017).

1.4. Nel caso di specie, l’oggetto del giudicato di cui la società invoca l’efficacia espansiva è il riconoscimento, come deducibili in quanto inerenti, delle spese ripartite in base al “cost sharing agreement”. L’inerenza è una mera relazione tra la spesa e l’attività dell’impresa, e presuppone una valutazione per la quale i requisiti che la determinano sono suscettibili, per loro natura, di variare di anno in anno. Un costo può avere le caratteristiche che lo rendono inerente in riferimento ad una annualità, ma potrebbe non avere le stesse caratteristiche in una annualità diversa (si veda Sez. 5, n. 16480 del 2014). Non a caso, la sopra menzionata Sez Un., n. 13916 del 2006 cita le spese deducibili proprio tra le componenti per le quali ogni anno di imposta è autonomo. Questa valutazione non muta anche se il sostenimento dei costi dipende da un accordo pluriennale, come nella specie, atteso che la pluriennalità non influisce comunque aprioristicamente sul rapporto tra il costo e l’attività dell’impresa, che resta suscettibile di porsi in maniera differenziata in ogni periodo di imposta, e deve, quindi, essere analizzato annualmente.

Si ritiene, quindi, che non possa essere riconosciuta in maniera automatica efficacia vincolante nel presente giudizio al giudicato formatosi su altro anno di imposta.

2. Passando all’esame dei motivi attinenti il merito del giudizio, con il primo e secondo motivo aventi il medesimo oggetto ma formulati secondo la versione antecedente e la attuale dell’art. 360 c.p.c., n. 5), e quindi esaminabili congiuntamente – la società deduce insufficiente motivazione della sentenza della CTR su fatto controverso e decisivo (art. 360, n. 5) ed omesso esame di fatto decisivo in merito al rilievo attinente alla motivazione dell’avviso di accertamento.

La società ribadisce (ed afferma di riproporre quanto dedotto anche in controricorso all’appello dell’ufficio) la contraddittorietà dell’avviso di accertamento, perchè lo stesso richiama ora l’art. 109 ora l’art. 110, comma 2 e 5, TUIR, per cui non si comprende se il problema sia l’inerenza o il valore dei costi. La società sostiene che la motivazione dell’avviso contiene argomentazioni plurime tra loro alternative, deducendo errata citazione delle norme atteso che la previsione attinente il c.d. transfer price è l’art. 110, comma 7. Per la società il problema della non inerenza e quello della determinazione del valore di costi inerenti sono due concetti inconciliabili che non possono essere posti a fondamento dello stesso avviso.

2.1. I motivi sono infondati.

Va premesso che il motivo è stato dedotto sia nella formulazione dell’art. 360, n. 5) antecedente al 2012, che in quella attualmente in vigore. La norma applicabile, peraltro, è l’art. 360 c.p.c., n. 5) nella “nuova” versione, anche nel processo tributario (Sez. Un., n. 8053 del 2014), atteso che la stessa opera per i ricorsi relativi a sentenze depositate dopo l’11.9.2012, e, nella specie, la sentenza impugnata è stata depositata il 17.12.2012.

2.2. Ora, la sopra citata sentenza delle Sezioni Unite, n. 8053 del 2014, ha anche stabilito che:

a) La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5), disposta con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente l'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.

b) Il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

c) L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

d) La parte ricorrente dovrà indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.

2.3. Alla luce di questi principi, e del fatto che l’art. 360, n. 5 è applicabile nella nuova versione, se si considera che nel secondo motivo il fatto denunciato come omesso dalla CTR è indicato nella “dedotta illegittimità della motivazione dell’atto impugnato”, il motivo è infondato per due ragioni:

1) le Sez. Un. hanno affermato che il “fatto” omesso di cui all’art. 360, n. 5) deve essere un “fatto storico” e non una categoria giuridica come la “illegittimità della motivazione”;

2) a pag. 4 la CTR dà esattamente conto dei motivi per cui ritiene che la motivazione dell’avviso non sia illegittima (fondati che siano, o meno, i motivi della CTR nel merito).

Questo, peraltro, porterebbe a ritenere il motivo infondato anche sotto l’art. 360, n. 5) nella formulazione antecedente al 2012, atteso che nella sentenza della CTR una motivazione esiste e non è insufficiente, in quanto la CTR si diffonde a spiegare le ragioni per cui ritiene la motivazione dell’avviso di accertamento completa.

3. Con il terzo, quarto e quinto motivo, dedotti sia come violazione e falsa applicazione dell’art. 109 TUIR e art. 2697 c.c. sotto il profilo della violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che come insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo ed omesso esame di fatto decisivo, sotto il profilo della violazione dell’art. 360 n. 5), nella formulazione antecedente al 2012 ed in quella attuale, deduce errore della CTR sulla valutazione del concetto di “inerenza” dei costi in questione.

Deduce, in particolare, la società che la CTR ha errato dove ha posto in correlazione costi e ricavi mentre il concetto di inerenza deve intendersi quale correlazione tra costi ed attività di impresa anche solo potenzialmente idonea a produrre utili. Nella specie, peraltro, sottolinea la società ricorrente, sussiste anche la diretta correlazione, perchè i servizi in questione servivano a permettere il funzionamento del portale della società, sul quale la stessa ospitava la pubblicità che era una delle sue fonti di ricavo.

3.1. I motivi sono infondati.

Nella sostanza, i costi in questione attengono alla manutenzione del portale internet di Yahoo Italia, attraverso il quale quest’ultima società proponeva i propri prodotti (dalla messaggeria della telefonia mobile, alle notizie) offerti gratuitamente. I ricavi di Yahoo Italia non derivavano, infatti, dalla vendita di tali servizi, quanto dall’ospitare pubblicità sul portale stesso, e ciò permetteva l’offerta gratuita dei servizi stessi. I costi attinenti alla manutenzione del portale, sostenuti dalla casa madre e ripartiti tra le società “figlie” in base ad una percentuale predeterminata, seppure variabile, calcolata sul reddito di una Unità Aziendale del Paese espressa come percentuale del fatturato totale, quindi, erano da Yahoo Italia ritenuti inerenti alla propria attività perchè, grazie al funzionamento del portale, la stessa poteva ospitare la pubblicità, dalla quale otteneva i ricavi. Sostenendo la propria quota di spesa ripartita in base al “cost sharing agreement”, in altre parole, Yahoo Italia contribuiva ai costi che permettevano il mantenimento del bene (il portale) dal quale ritraeva i propri ricavi.

L’Agenzia, a ben vedere, non contesta i fatti storici nè tale meccanismo di ripartizione dei costi, ma contesta unicamente il fatto che lo stesso, prevedendo una percentuale predeterminata ed essendo un accordo interno al gruppo, intervenendo tra la società capogruppo estera e varie società “figlie” in vari Paesi d’Europa, non permette di verificare con evidenza in termini quantitativi concreti il rapporto tra i costi ed il beneficio di Yahoo Italia, e questo, secondo l’ufficio, è uno degli elementi fondamentali per la valutazione sulla inerenza dei costi. Non è in contestazione, quindi, il fatto che i costi siano stati sostenuti, ma non è chiaro come la società possa invocare che la misura di quei costi, nella sua interezza, sia funzionale al perseguimento dell’utile. Il tutto, come detto, considerando che non si è in presenza di un accordo tra società tra loro indipendenti, ma tra società madre estera e figlie, dove, in sostanza, l’allocazione dei costi finisce per determinare uno spostamento di ricchezza imponibile all’interno dello stesso gruppo e, in ultima analisi, da uno Stato ad un altro.

3.2. L’art. 109, comma 5 TUIR, vigente all’epoca, nell’affermare che:

Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi (omissis sul seguito) fissa, indubitabilmente, un rapporto tra le componenti reddituali, positive e negative, cui la norma si riferisce.

3.3. Questa Corte condivide l’orientamento, già espresso in precedenza in altre sentenze, secondo cui il concetto di inerenza non richiede una correlazione diretta tra il costo ed uno specifico ricavo, potendosi riconoscere tale nozione in una relazione tra il costo e, in termini più generali, l’attività dell’impresa, anche solo potenzialmente produttrice di ricavi o proventi imponibili (Sez. 5, n. 10062 del 2000, Sez. 5, n. 1465 del 2009 e di recente ancora a Sez. 5, n. 4041 del 2015 e Sez. 6, n. 21743 del 2015; si veda anche Sez. 5, n. 6939 del 2008).

3.4. Tuttavia, sempre ad avviso di questo Collegio, per definire meglio il concetto e contenerlo entro confini di ragionevolezza e proporzionalità, in particolare allorchè ci si riferisca a rapporti infragruppo, lo stesso non può essere disgiunto da quello di coerenza ed utilità economica dei costi (Sez. 5, n. 21184 del 2014, Sez. 5, n. 27043 del 2014, sez. 5, n. 10270 del 2017, Sez. 6 ord. n. 9036 del 2013). Proprio in tema di spese derivanti da “cost sharing agreements”, questa Corte ha avuto anche occasione di affermare, in epoca molto recente, che ai fini della deducibilità, non è sufficiente allegare il “cost sharing agreement” nè che la spesa sia stata contabilizzata, ma il contribuente deve provare coerenza e utilità economica del costo (Sez. 5, n. 9466 del 2017; si veda anche Sez. 5, n. 9560 del 2016 e Sez. 6, n. 11094 del 2017). Questo non è in contraddizione con altra giurisprudenza in cui la Corte ha riconosciuto la deducibilità dei costi sulla base di un accordo di ripartizione (Sez. 5, n. 6939 del 2008) perchè, proprio scorrendo quest’ultima sentenza, emerge che, nel caso specifico, le spese erano state oggetto, anche per quanto attiene alla congruità, di una analisi accurata da parte di una società di revisione e di valutazioni del capo settore (responsabile del relativo centro di costo) che aveva certificato la corretta percentuale del lavoro svolto da ciascun settore in favore delle controllate.

3.5. Va anche tenuto presente, come accennato sopra, il contesto della presente controversia, nella quale si verte in tema di servizi tra società infragruppo, dove il problema della congruità della spesa non è solo messo in luce dall’Agenzia delle Entrate (circolare 32/80) ma anche dalle linee guida OCSE sui servizi infragruppo. Da queste ultime, si evince che una delle problematiche principali delle operazioni infragruppo è proprio quella della determinazione dei valori, quindi dei costi, dei servizi, con l’affermazione del principio per cui il pagamento per i servizi deve essere quello che sarebbe stato effettuato tra imprese indipendenti; lo spirito di questo tipo di accordi dovrebbe sempre consistere nel portare l’ammontare dei costi ad una proporzione con la aspettativa di utili, sempre in nome della salvaguardia del principio della libera concorrenza. Il valore del servizio cui il costo si riferisce, quindi, è un elemento che deve essere preso in considerazione per valutare se la misura della spesa è proporzionata all’utilità, anche non diretta, dell’impresa.

Ora, si ritiene che la CTR in ultima analisi abbia espresso, con qualche imprecisione terminologica che, però, non influisce sulla sostanza, lo stesso concetto di inerenza al quale questa Corte aderisce, come espresso in precedenza.

3.6. Se si guarda alla essenza del concetto espresso dalla CTR, infatti, non può non riconoscersi che essa ha affermato che nella specie manca la prova della riferibilità dei costi, nella misura in cui essi sono stati determinati, alla utilità della società.

3.7. Questo non significa trasformare l’ipotetica antieconomicità dell’attività di impresa, come conseguenza di costi sproporzionati, nel presupposto di una norma impositiva, ma non può neppure sostenersi che, in particolare nei rapporti infragruppo, il concetto di congruità del costo sia del tutto estraneo all’analisi sulla sua deducibilità. In questo senso, la non congruità, l’antieconomicità di un costo, può essere una spia della non inerenza dello stesso. La materia, come detto, è ancora più delicata allorchè ci si muove nell’ambito di rapporti infragruppo, dove la stessa legge si preoccupa di fornire dei parametri nell’art. 110, comma 7 TUIRche non possono essere ignorati come riferimento nella valutazione sul trattamento fiscale di una spesa, quando la rettifica in base al valore indicato nella norma porterebbe ad un aumento del reddito della società tassata in Italia (si veda, pur nella diversità del fatto storico presupposto, Sez. 5, n. 11949 del 2012).

3.8. Non si ravvisa, quindi, nè errata applicazione della legge nè alcuna omissione di fatti storici decisivi, atteso che la CTR ha espresso, in sostanza, il concetto per cui non vi è prova che i costi in questione, seppure effettivamente sostenuti, corrispondessero alla utilità della società in quella specifica misura in cui sono stati determinati; in altre parole, non ha ravvisato prova della riferibilità alla consociata italiana della quota dei costi addebitabile in base ai criteri predeterminati, seppure variabili, di cui al cost sharing agreement.

4. Con il sesto e settimo motivo, formulati secondo la versione antecedente e la attuale dell’art. 360 c.p.c., n. 5), deduce insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo ed omesso esame di fatto decisivo quanto alla valutazione della modalità di ripartizione dei costi in base all’accordo.

Deduce la società che la motivazione della CTR è carente laddove ha affermato che la ripartizione dei costi è avvenuta “in maniera automatica e forfettaria”, laddove invece è avvenuta secondo un preciso criterio stabilito antecedentemente nel cost sharing agreement. Secondo questo accordo, il costo per la società non era fisso ed immodificabile ogni anno, ma variava in una percentuale tra il 7,50 e il 4,70% del costo sostenuto dalla casa madre per il settore Mobile. Afferma che questo criterio di ripartizione dei costi, in rapporto a quelli sostenuti dalla casa madre, è stato ritenuto corretto dalla Amministrazione nella risoluzione n. 9/2555 del 31.1.1981 e dalla Cassazione, sez 5, n. 6939 del 2008.

4.1. I motivi sono infondati.

Non vi è stato, infatti, alcun omesso esame di fatto storico decisivo da parte della CTR, la quale ha pienamente preso in considerazione il contenuto dell’accordo di ripartizione dei costi, e ha messo in luce come lo stesso si basasse su un sistema di suddivisione dei costi stabilito antecedentemente – come riconosciuto anche dalla stessa società – anzichè in base alla situazione concreta di corrispondenza quantitativa con la effettiva utilità ritratta dal servizio ottenuto. Anche in questo caso, quindi, non sussiste alcun omesso esame di fatto decisivo.

5. Con l’ottavo, nono e decimo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 84 TUIR e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, sotto il profilo della violazione dell’art. 360, n. 3, in merito al tema del riconoscimento, in sede di accertamento, del riporto delle perdite di esercizi pregressi che avrebbe comunque determinato l’azzeramento del maggiore imponibile accertato, questione che è dedotta anche sotto il profilo della insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo ed omesso esame di fatto decisivo, in base alla formulazione antecedente ed attuale dell’art. 360 c.p.c., n. 5).

5.1. Va affermato, preliminarmente, che la mancata controdeduzione dell’ufficio su questo motivo non equivale ad ammissione. Questa Corte ha affermato che il principio di non contestazione, di cui all’art. 115 c.p.c., comma 1, si applica anche nel processo tributario, ma, attesa l’indisponibilità dei diritti controversi, riguarda esclusivamente i profili probatori del fatto non contestato, e non anche le allegazioni, e ciò semprechè il giudice, in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, non ritenga di escluderne l’esistenza (Sez. 5 n. 2196 del 2015, Rv. 634386); è stato in particolare affermato che la specificità del giudizio tributario comporta che la mancata presa di posizione dell’Ufficio sui motivi di opposizione alla pretesa impositiva svolti dal contribuente non equivale ad ammissione, nè determina il restringimento del thema decidendum ai soli motivi contestati (Sez. 5, n. 13834 del 2014, Rv. 631297).

5.2. Sul tema, la società sottolinea di avere riportato le perdite pregresse nel 2006 (Unico 2007) compensando nel quadro RN, rigo 4, il reddito di impresa dell’esercizio (1.204.564 Euro) con parte delle perdite pregresse risultanti dal quadro RS dell’Unico 2006 riferito al 2005 e sostiene che, pur avendo accertato il maggior reddito a seguito del disconoscimento dei costi, l’Agenzia avrebbe dovuto, in sede di accertamento, tenere comunque conto del riporto delle perdite pregresse evidenziato in dichiarazione.

5.3. Il motivo è infondato.

Questo Collegio ritiene che la previsione dell’art. 84 TUIR vigente ratione temporis, quanto agli aspetti rilevanti ai fini del presente problema, – secondo cui la perdita di un periodo d’imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, poteva essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi, ma non oltre il quinto, per l’intero importo che trovava capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi, mentre le perdite realizzate nei primi tre periodi di imposta di vita della attività potevano essere computate in diminuzione anche oltre tale limite temporale – non possa essere interpretata come fonte di un obbligo dell’Ufficio in tal senso. Il testo della norma, infatti, riconosce una facoltà al contribuente e, anche con le proposizioni successive, ne puntualizza le modalità di esercizio.

5.4. E’ vero che Sez. 5, n. 15452 del 2010, secondo cui le perdite pregresse devono essere considerate di ufficio in sede di accertamento dall’agenzia, ha espresso una posizione molto estrema sul punto, evocando la teoria dell’emendabilità della dichiarazione quale dichiarazione di scienza, ma tale impostazione non appare del tutto convincente. Per come formulato, l’art. 84 TUIR concepisce il computo in diminuzione delle perdite come un’opzione che, in quanto tale, dovendo essere consapevolmente esercitata, esorbita certamente i limiti della pura dichiarazione di scienza, sconfinando ampiamente sul piano della volontà. Secondo un più recente orientamento giurisprudenziale, infatti, l’esercizio della facoltà di opzione, riservata al contribuente dall’art. 84 TUIR, di utilizzare le perdite di esercizio verificatesi negli anni pregressi portandole in diminuzione del reddito prodotto nell’anno oggetto della dichiarazione, ovvero di non utilizzare dette perdite riportandole in diminuzione dal reddito nei periodi di imposta successivi, costituisce manifestazione di volontà negoziale (Sez. 5, n. 6977 del 2015).

La prima tesi si fonda sul concetto secondo cui la dichiarazione dei redditi del contribuente, affetta da errore, sia esso di fatto che di diritto, commesso dal dichiarante nella sua redazione è in linea di principio emendabile e ritrattabile, quando dalla medesima possa derivare l’assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico, e ciò in quanto la dichiarazione dei redditi non ha natura di atto negoziale e dispositivo, ma reca una mera esternazione di scienza e di giudizio, modificabile in ragione dell’acquisizione di nuovi elementi di conoscenza.

Come, però, precisato da Sez. 5, n. 7294 del 2012, e ripreso da Sez. 5, n. 6977 del 2015, “l’affermazione di una generale ed automatica emendabilità degli errori commessi dal contribuente nella redazione della dichiarazione, tuttavia, non può ritenersi estesa alla dichiarazione dei redditi “tout court”, ma deve correttamente circoscriversi alla indicazione di quei dati, relativi alla quantificazione delle poste reddituali positive o negative, che integrino errori tipicamente materiali (ad es. errori di calcolo od anche errata liquidazione degli importi), ovvero anche formali (concernenti la esatta individuazione della voce del modello da compilare nella quale collocare la posta), rimanendo a tali ipotesi estranea la fattispecie in esame”.

5.5. La mera indicazione in dichiarazione di perdite pregresse, senza riferimento ad uno specifico anno di imposta (quadro RS), ulteriori a quelle riportate invece nella specifica annualità oggetto di accertamento (quadro RN), non può, poi, equipararsi alla manifestazione di volontà di utilizzo delle stesse. E’ necessario, cioè, che la facoltà di scelta che la legge attribuisce al contribuente sia esercitata mediante una chiara indicazione nella dichiarazione dello specifico periodo di imposta (secondo quanto consentito) nel quale utilizzare in compensazione le perdite disponibili, facoltà nel cui esercizio l’Amministrazione non può sostituirsi al contribuente nell’interesse di quest’ultimo (Sez. 5, n. 12460 del 2014) Diversamente opinando, si ammetterebbe che, sulla sola base della generica indicazione delle perdite pregresse ulteriori rispetto a quelle riportate per lo specifico periodo di imposta, il computo di ufficio delle stesse possa modificare, ora per allora, contenuti della dichiarazione destinati a riflettere i loro effetti per una molteplicità di annualità successive, venendosene così ad alterare (peraltro anche “al buio”) il preordinato andamento. Quest’ultimo concetto, anche per affrontare i rilievi mossi alla sentenza impugnata sotto il profilo motivazionale, è in sostanza quello espresso, sebbene sinteticamente, dalla CTR, laddove il ragionamento per cui la compensazione delle perdite pregresse di ufficio comporterebbe il rischio di duplicazione del loro riporto negli anni successivi è manifestazione dell’idea secondo cui l’opzione esercitata per un anno non è poi modificabile in seguito. Alla CTR, quindi, non si può imputare nè di avere errato sull’interpretazione della norma nè di avere omesso la valutazione del fatto.

In conclusione, i motivi dedotti sono infondati ed il ricorso deve, pertanto, essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in Euro 7.000 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna la parte soccombente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 7.000 oltre spese prenotate a debito e contributo unificato, come da motivazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2017

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