Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25540 del 12/11/2020

Cassazione civile sez. III, 12/11/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 12/11/2020), n.25540

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28954/2019 proposto da:

M.F.Y., elettivamente domiciliato in Roma Via del

Casale Strozzi, 31, presso lo studio dell’avvocato Laura Barberio,

che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ROMA n. 15950/2019, depositato il

29/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/07/2020 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. – Con ricorso affidato a tre motivi, M.F.Y.N., cittadino del (OMISSIS), ha impugnato il decreto del Tribunale di Roma, reso pubblico in data 29 luglio 2019, che ne rigettava l’opposizione avverso la decisione della competente Commissione territoriale che, a sua volta, ne aveva respinto la richiesta di protezione internazionale volta ad ottenere, in via gradata, il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria.

1.1. – A sostegno dell’istanza il richiedente aveva dedotto di essere stato costretto a lasciare il Paese d’origine in quanto: aveva messo incinta la ragazza con la quale era fidanzato da circa tre anni, figlia di un deputato del partito al potere, essendo egli appartenente al partito di opposizione; veniva, quindi, imprigionato per circa un mese e rilasciato con la promessa di lasciare la fidanzata; fuggiva con la fidanzata a (OMISSIS), dove costei decedeva a seguito del parto; i genitori della fidanzata lo raggiungevano per prendere con loro la neonata, presentandosi “con i militari” e minacciandolo “di fargli del male”; era, pertanto, fuggito in Libia nell'(OMISSIS) e, quindi, in Italia, temendo “di essere ucciso in caso di rientro in Togo per il ruolo del nonno di sua figlia”.

2. – Il Tribunale, per quanto in questa sede ancora rileva, osservava che: a) il racconto del richiedente “anche se sufficientemente articolato” appariva “poco credibile” in ragione di “evidenti contraddizioni” su talune “circostanze rilevanti” (relative: alle vicende successive alla “sua uscita di prigione” come l’incontro con la fidanzata (“avvenuto perchè lei lo aveva trovato o perchè era stato lui a telefonarle”); – al parto (“avvenuto in ospedale o in casa”); – alle minacce subite (avendo dapprima dichiarato che i genitori della fidanzata lo avevano minacciato di persona e poi che le minacce le avrebbe ricevute telefonicamente)); b) i fatti riferiti non consentivano il riconoscimento dello status di rifugiato in assenza di elementi avvaloranti “la dedotta correlazione dell’espatrio con persecuzioni legate a motivazioni anche latamente politiche o riconducibili ad altri aspetti previsti dalla Convenzione di Ginevra”; c) non poteva riconoscersi la protezione sussidiaria in ragione della “poco credibilità” della vicenda narrata e in assenza di congruenti allegazioni, dovendo escludersi anche l’esistenza di una situazione di violenza indiscriminata, sebbene le autorità del Togo continuino a limitare i diritti di libertà di espressione e di riunione dei partiti di opposizione e a reprimere violentemente e letalmente le proteste pacifiche; d) non poteva essere riconosciuta la protezione umanitaria in assenza di allegazione e prova circa una specifica situazione di vulnerabilità ed avendo il richiedente dedotto “di lavorare in nero per un supermercato e di vivere da amici che lo ospitano dopo la chiusura del centro di accoglienza”.

3. – L’intimato Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva, depositando unicamente “atto di costituzione” al fine di eventuale partecipazione ad udienza di discussione.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, non avendo il Tribunale operato la necessaria cooperazione istruttoria in ragione della ritenuta non credibilità dei fatti riferiti in base a presunte contraddizioni del tutto marginali, nè avendo considerato la dimostrata militanza politica di esso ricorrente, che aveva determinato l’arresto arbitrario con grave violazione dei diritti umani, continuamente perpetrata nel Togo.

1.1. – Il motivo è infondato.

In tema di protezione internazionale, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, impone al giudice soltanto l’obbligo, prima di pronunciare il proprio giudizio sulla sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione, di compiere le valutazioni ivi elencate e, in particolare, di stabilire se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili. Da ciò consegue che: a) la norma non potrà mai dirsi violata sol perchè il giudice del merito abbia ritenuto inattendibile un racconto o inveritiero un fatto; b) non sussiste un diritto dello straniero ad essere creduto sol perchè abbia presentato la domanda di asilo il prima possibile o abbia fornito un racconto circostanziato; c) il giudice è libero di credere o non credere a quanto riferito secondo il suo prudente apprezzamento che, in quanto tale, non è sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (Cass. n. 6897/2020, cfr. anche Cass. n. 27503/2018 e Cass. n. 21142/2019).

Il Tribunale, nell’apprezzamento della credibilità del richiedente (che, come detto, è quaestio facti non censurato alla luce del paradigma di cui al vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), si è attenuto al principio di procedimentalizzazione legale della decisione avendo operato la propria valutazione (cfr. sintesi nel “Rilevato che”) alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e alla luce delle informazioni precise e aggiornate sulla situazione generale del paese di origine del richiedente (D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3), prendendo in considerazione anche la militanza politica del M., oltre alle ulteriori circostanze fattuali dedotte in giudizio, senza indulgere “nella capillare e frazionata ricerca delle singole, eventuali contraddizioni” (Cass. n. 8819/2020).

Peraltro, non può non rilevarsi che la censura sulla non credibilità del racconto non risulta comunque decisiva, giacchè il Tribunale, dopo averla negata, ha escluso la ricorrenza dei presupposti per riconoscere la veste di rifugiato, in base alle previsioni della Convenzione di Ginevra, proprio in relazione ai fatti narrati dal richiedente asilo.

2. – Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g), artt. 3, 4, 5, art. 6, comma 2, art. 14, lett. c) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, avendo il Tribunale escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui del citato art. 14, lett. c), nonostante abbia riscontrato una situazione di violazione dei diritti umani in base alle COI più accreditate e mancando di porre in essere la necessaria cooperazione istruttoria.

2.1. – Il motivo è infondato.

Ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306/2019).

Il giudizio di sussunzione formulato dal Tribunale, in base a COI recenti e precise (le stesse richiamate nel ricorso: p. 9), è coerente con il rammentato principio di diritto, non integrando la fattispecie prevista del citato art. 14, lett. c), delineata nei termini anzidetti, la limitazione, da parte delle autorità statuali, dei diritti di libertà di espressione e di riunione dei partiti di opposizione e la repressione, anche violenta, delle proteste pacifiche.

3. – Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, avendo il Tribunale erroneamente escluso una situazione di vulnerabilità ai fini della protezione umanitaria, mancando di approfondire le vicende di arresto e torture vissute da esso richiedente dapprima in Togo per motivi politici e poi in Libia.

3.1. – Il motivo è infondato.

Il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (nella disciplina previgente al D.L. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, dalle L. n. 132 del 2018) costituisce una misura atipica e residuale, volta ad abbracciare situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento di una tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità, da valutare caso per caso (Cass. n. 13096/2019). A tal riguardo, si è precisato (Cass., S.U., n. 29459/2019) che, in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato.

Nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese (Cass. n. 31676/2018).

Il giudizio di sussunzione operato dal Tribunale è rispondente ai ricordati principi di diritto, giacchè esso non presuppone – come, invece, postulato dal motivo di ricorso – un espresso riconoscimento di militanza politica attiva del richiedente, quale unico profilo che avrebbe, eventualmente, potuto fondare una valutazione di vulnerabilità, in assenza di ulteriori allegazioni sul punto, quale ratio decidendi del decreto impugnato che non è stata idoneamente criticata dal ricorrente.

E’, infine, inammissibile il profilo di censura che allega una situazione di estesa violazione dei diritti umani in Libia, quale Paese di transito per raggiungere l’Italia, mancando il ricorrente di evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda (Cass. n. 31676/2018), posto che questa si fonda sul rischio di rimpatrio in Togo in ragione della militanza politica del M., quale elemento ivi rilevante.

4. – Ne consegue il rigetto del ricorso.

Non occorre provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività difensiva della parte intimata.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2020

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