Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25536 del 12/11/2020

Cassazione civile sez. III, 12/11/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 12/11/2020), n.25536

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30988/2019 proposto da:

J.O., nato in (OMISSIS), rappresentato e

difeso dall’avv.to Mauro Notargiovanni,

(mauronotargiovanni.ordineavvocatiroma.org) con studio in Roma via

A. Doria 64, giusta procura speciale allegata al ricorso, ed

elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto n. 18872/2019 del Tribunale di Roma, depositato il

30.9.2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15.7.2010 dal Cons. Dott. Antonella Di Florio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. J.O., proveniente dal (OMISSIS), ricorre affidandosi ad un unico motivo per la cassazione del decreto del Tribunale di Roma che aveva respinto la domanda da lui proposta per ottenere il riconoscimento dello stato di rifugiato e della protezione sussidiaria nonchè, in via subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari in ragione del rigetto della relativa istanza avanzata, in via amministrativa, dinanzi alla competente Commissione Territoriale.

1.1. Per ciò che interessa in questa sede – in cui la censura è stata proposta esclusivamente con riferimento al rigetto della protezione umanitaria, il ricorrente aveva narrato di essere fuggito in quanto lo zio – che, alla morte del padre, aveva sposato la madre (e che era un soggetto violento, più volte detenuto e scarcerato per problemi di salute mentale) – lo aveva selvaggiamente picchiato inducendolo alla fuga dal proprio paese, in quanto la polizia, alla quale aveva denunciato i fatti, non era intervenuta.

2. Ha aggiunto di essere arrivato in Italia dopo essere transitato per la Libia.

3. Il Ministero dell’Interno intimato non si è difeso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con unico motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Assume, al riguardo, che il Tribunale, nel respingere la domanda di protezione umanitaria, si era limitato ad escludere che ricorressero le ipotesi previste dall’art. 19 TUI – riguardanti i presupposti preclusivi dell’espulsione – omettendo del tutto di applicare i principi ormai consolidati affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di protezione umanitaria: deduce, in sostanza, che il Tribunale aveva del tutto omesso di affrontare l’esame comparativo fra la sua condizione di vulnerabilità – derivante anche dal fatto che egli era sbarcato in Italia, dopo un doloroso transito in Libia (caratterizzato da carcerazione e torture) ancora minorenne -, il livello di integrazione raggiunto ed il rischio di subire un grave pregiudizio per la tutela dei diritti fondamentali in caso di rimpatrio.

1.1. Più specificamente, con la censura in esame si lamenta che:

a) il Tribunale aveva affermato erroneamente che le ipotesi che consentono di riconoscere la protezione umanitaria sono riconducibili all’art. 19 TUI “che costituisce la base normativa principale per l’individuazione degli ulteriori impegni di protezione dei richiedenti asilo in Italia” (oltre alle due forme di c.d. “protezione maggiore”)” e che doveva comunque escludersi che, in caso di rientro in Gambia, sussistesse il rischio di esposizione a trattamenti lesivi dei diritti fondamentali (cfr. pag. 3 penultimo cpv. e pag. 4 primo cpv.), senza tuttavia svolgere alcun accertamento al riguardo, attraverso l’acquisizione di fonti informative aggiornate;

b) non erano stati affatto esaminati nè i profili di integrazione dedotti, puntualmente indicati nel ricorso (tirocini, lavoro da pizzaiolo: cfr. pag. 4, quarto cpv.) con la specificazione che erano stati prodotti in primo grado i documenti che ne fornivano prova (rinvenibili anche nel fascicolo d’ufficio del presente giudizio di

legittimità); nè la vulnerabilità allegata e desumibile dal racconto narrato dinanzi alla C.T., che includeva il trattamento disumano subito durante il suo transito in Libia (cfr. pag. 6 del ricorso) il cui verbale è stato prodotto anche in questa sede (cfr. All. 2).

1.2. Il motivo è fondato.

Il Tribunale, infatti, nell’esaminare la domanda di protezione umanitaria, si è limitato a richiamare le ipotesi previste dall’art. 19 TUI, in materia di divieto di espulsione e di categorie vulnerabili, affermando che la vicenda narrata dal ricorrente non rientrava nei casi elencati: la statuizione risulta, in relazione a ciò, riduttiva ed erronea in quanto la norma che riguarda il divieto di espulsione ha dato concretezza al principio di “non refoulemont” predicato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra e dall’art. 4 del Prot. addizionale CEDU, ma non vale a restringere la previsione di una norma “a compasso largo” come l’art. 5, comma 6 TUI, in relazione alla quale può essere riconosciuto il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie per ipotesi individualizzate ma non circoscrivibili a casi tassativi: e vale solo la pena di rilevare che anche l’art. 19 TUI è governato, comunque, dall’apertura del “non respingimento” predicato al comma 1, ed è stato interpretato, in relazione a fatti sopravvenuti o ignorati nel procedimento di protezione internazionale, imponendo anche al giudice di pace, competente a pronunciarsi nella fase espulsiva, il dovere di cooperazione istruttorio (cfr. Cass. 4230/2013; Cass. 33166/2019), con esclusione, pertanto, della possibilità di ridurre ad una casistica tassativa le vicende in cui lo Stato ospitante deve comunque farsi carico del dovere di protezione.

1.3. Il Tribunale, dunque, ha errato.

Infatti, da una parte ha rigettato la domanda di protezione umanitaria, escludendo, in motivazione, che il ricorrente rientrasse nelle categorie di cui all’art. 19 TU Immigrazione per le quali è vietata l’espulsione; ed ha affermato che non “residuano spazi per la valutazione della ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria non essendo individuabili, in questo specifico caso, ulteriori obblighi internazionali assunti dall’Italia”, con ciò contraddicendo i principi ormai consolidati affermati da questa Corte in punto di protezione umanitaria (cfr. Cass. 4455/2018; Cass. SU 29459/2019); e, dall’altra, ha statuito apoditticamente che la “mera integrazione del ricorrente” non rappresentava elemento sufficiente per il riconoscimento del diritto invocato, dovendo necessariamente “concorrere con la verifica del rischio specifico che il rimpatrio potesse determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo della dignità personale”, rischio escluso per “la situazione complessiva del paese di origine prima descritta” (cfr. pag. 4 secondo cpv. decreto impugnato): in tal modo, risulta violato il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nell’interpretazione ormai consolidata espressa da questa Corte (cfr. Cass. 4455/2018 e Cass. S.U. 29456/2019 sopra richiamate; Cass. 1104/2020), secondo cui il giudizio di comparazione postula una circostanziata valutazione degli elementi allegati (e delle relative prove) a sostegno dell’integrazione del richiedente asilo (fra cui, in primis, l’attività lavorativa svolta) nonchè un esame della sua vulnerabilità e del rischio che andrebbe a correre in caso di rimpatrio in relazione al livello di tutela dei diritti umani esistente nel paese di origine, desumibili dall’acquisizione delle C.O.I. fondate su fonti ufficiali attendibili ed aggiornate al momento della decisione.

1.4. Tale regola procedimentale è rimasta inosservata dal Tribunale che, da una parte, ha omesso del tutto di esaminare la documentazione prodotta a sostegno del livello di integrazione raggiunto (cfr. doc. all. 3 fasc. primo grado versati in atti) e, dall’altro, ha escluso il rischio di privazione dei diritti umani in modo del tutto generico e senza alcun riferimento a fonti ufficiali aggiornate, come previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 5 (applicabile anche alla fattispecie in esame), disattendendo in tal modo anche il dovere di cooperazione istruttoria. Il decreto, pertanto, deve essere cassato con rinvio al Tribunale di Roma in diversa composizione per il riesame, in parte qua, della controversia alla luce dei seguenti principi di diritto:

1. “secondo l’interpretazione fatta propria dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza che, tuttavia, non deve essere isolatamente ed astrattamente considerato; peraltro, a fronte del dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, la valutazione delle condizioni socio-politiche del Paese d’origine del richiedente deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione che il giudice di merito deve acquisire”;

2. “il giudice del merito non può limitarsi a valutazioni solo generiche ovvero omettere di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, potendo incorrere in tale ipotesi, la pronuncia, ove impugnata, nel vizio di violazione di legge”;

3. “il riferimento alle fonti ufficiali aggiornate, attendibili e specifiche rispetto alla situazione individuale dedotta configura un dovere del giudice che giammai potrà determinare una inversione, a carico del richiedente, dell’onere postulato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3”.

2. Il Tribunale dovrà altresì provvedere alla decisione in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte;

accoglie il ricorso.

Cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Roma, Sezione Specializzata Immigrazione, in diversa composizione per il riesame della controversia e per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 15 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2020

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