Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2553 del 04/02/2020

Cassazione civile sez. I, 04/02/2020, (ud. 25/11/2019, dep. 04/02/2020), n.2553

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32243/2018 proposto da:

S.S., elettivamente domiciliato in Roma Via Po N. 24, presso

lo studio dell’avvocato Miglio Claudio che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Lombardi Danilo;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 774/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 04/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/11/2019 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza depositata in data 4.4.2018, ha rigettato l’appello proposto avverso l’ordinanza ex art. 702 bis c.p.c., proposta da S.S., cittadino del (OMISSIS), volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.

E’ stato, in primo luogo, ritenuto che difettassero i presupposti per il riconoscimento in capo al ricorrente dello status di rifugiato, non essendo il suo racconto stato ritenuto credibile (costui aveva riferito di essere fuggito dal Gambia a causa del suo orientamento omosessuale).

Al richiedente è stata inoltre negata la protezione sussidiaria, essendo stata ritenuta l’insussistenza di una situazione di violenza generalizzata nel suo paese di provenienza.

Il ricorrente non è stato comunque ritenuto meritevole del permesso per motivi umanitari per carenza di una condizione di vulnerabilità.

Ha proposto ricorso per cassazione S.S. affidandolo a quattro motivi.

Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stato dedotto l’omesso esame di un fatto per il giudizio costituito dalla valutazione dell’orientamento sessuale del ricorrente.

Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello, nel valutare il suo orientamento sessuale, non ha preso in considerazione la relazione redatta dalla psicologa Dott.ssa Sp..

2. Il motivo è inammissibile.

Va preliminarmente osservato che, anche recentemente, questa Corte ha statuito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (n. 3340 del 05/02/2019).

Nel caso di specie, il Tribunale ha valutato le dichiarazioni del ricorrente tenendo ben presenti i parametri previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, essendo state specificamente indicate le ragioni della ritenuta non plausibilità e coerenza del suo racconto.

In particolare, il giudice di secondo grado ha evidenziato la contraddittorietà del racconto del richiedente, avendo costui nell’atto di appello per la prima volta sostenuto di essere effettivamente omosessuale, mentre in primo grado, conformemente alle dichiarazioni rese innanzi alla Commissione, aveva riferito di essere stato meramente sospettato di omossessualità.

Il ricorrente non ha neppure allegato le gravi anomalie motivazionali (nei termini sopra illustrati dalla giurisprudenza di questa Corte), che sono le uniche attualmente denunciabili nei ristretti limiti consentiti dall’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Lo stesso si è, infatti, limitato a dedurre apoditticamente l’omessa valutazione da parte della Corte di merito della relazione della psicologa dallo stesso allegata, e senza confrontarsi quindi con le precise argomentazioni del giudice di merito che, in realtà, sulla predetta relazione ha preso posizione, ritenendola irrilevante, non avendo chiarito alcunchè sull’orientamento sessuale del ricorrente, ritenendo solo che “la storia del S. può essere considerata verosimile”.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 6, 7,8 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,11,29, nonchè omessa e/o insufficiente motivazione di fatto decisivo in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole il ricorrente che la Corte d’Appello ha omesso qualsiasi indagine in ordine alla sussistenza in Gambia di una normativa gravemente discriminatoria per le persone di orientamento omossessuale o per le persone sospettate di aver commesso atti omosessuali.

Evidenzia che, pur avendo indicato nell’atto di appello fonti di informazione accreditate sulla situazione riguardante i diritti civili in Gambia, la Corte d’Appello aveva omesso di accertare la situazione reale del paese di provenienza.

4. Il motivo è inammissibile.

Va osservato che la Corte, dopo aver ritenuto non credibile il racconto del ricorrente in ordine al suo orientamento omossessuale, correttamente non ha svolto, su tale punto, le indagini riguardanti la legislazione in Gambia. E’ evidente che il dovere di cooperazione istruttoria che incombe sul giudice venga meno ove lo stesso sia chiamato svolgere indagini su aspetti che riguardano la condizione personale e soggettiva del richiedente, i quali diventano irrilevanti ove il giudice accerti a monte la non credibilità dello stesso richiedente.

5. Con il terzo motivo è stata dedotta l’omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio costituito dall’accertamento delle condizioni per la protezione umanitaria.

Espone il ricorrente che la Corte d’Appello non aveva espresso alcuna motivazione in ordine alla concreta condizione del ricorrente che aveva depositato il contratto di lavoro e le busta paga, così dimostrando un grado di integrazione soddisfacente.

6. Il motivo è inammissibile.

Va preliminarmente osservato che questa Corte ha già avuto modo di affermare che, anche ove sia dedotta dal richiedente una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili nel paese d’origine, pur dovendosi partire, nella valutazione di vulnerabilità, dalla situazione oggettiva di tale paese, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza. Infatti, ove si prescindesse dalla vicenda personale del richiedente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in questi termini Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Nel caso di specie, la violazione dei dritti fondamentali è stata dedotta con riferimento alla legislazione repressiva del Gambia riguardante le persone omosessuali e o gli atti omosessuali, profili inconferenti una volta che il racconto del richiedente non è stato ritenuto credibile.

Infine, le censure del ricorrente in ordine al suo livello di integrazione raggiunto in Italia sono del tutto irrilevanti, avendo questa Corte già affermato che il livello di integrazione raggiunto dall’odierno ricorrente nel paese d’accoglienza è un elemento che può essere sì considerato in una valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza della situazione di vulnerabilità, ma non può, tuttavia, da solo esaurirne il contenuto (vedi sempre Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

7. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, in relazione alla revoca dell’ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato.

8. Il motivo è inammissibile.

Va osservato che questa Corte ha più volte affermato che la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, adottata con la sentenza che definisce il giudizio di appello, anzichè con separato decreto, come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, non comporta mutamenti nel regime impugnatorio, che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione ex art. 170 della stesso D.P.R.. Si deve quindi escludere che la pronuncia sulla revoca, in quanto adottata con sentenza, sia, per ciò solo, impugnabile immediatamente con il ricorso per cassazione, rimedio previsto solo per l’ipotesi contemplata dall’art. 113 del D.P.R. citato (Cass. 29288/2017; coni. Cass. n. 30282018 e n. 32028/2018).

Ne consegue che il ricorrente avrebbe dovuto promuovere tempestivamente lo speciale procedimento di opposizione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 170 e non attendere la proposizione del ricorso per cassazione.

La declaratoria di inammissibilità del ricorso non comporta comunque la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, non essendosi il Ministero dell’Interno costituito in giudizio.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, del ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 25 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2020

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