Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25523 del 21/09/2021

Cassazione civile sez. III, 21/09/2021, (ud. 18/03/2021, dep. 21/09/2021), n.25523

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7939/2019 proposto da:

D.V.S., rappresentato e difeso dall’avvocato MARCO

SANVITALE, ed elettivamente domiciliato presso lo studio del

medesimo in Pescara, Piazza l maggio n. 4, pec:

avvmarcosanvitale.puntopec.it;

– ricorrente –

contro

UCI UFFICIO CENTRALE ITALIANO S CONS RL, in persona del legale

rappresentante, rappresentato e difeso dagli avvocati CARLO BRETZEL,

e CATERINA ANTONIETTA DAVELLI, e con i medesimi elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CONCA D’ORO-300, presso lo studio

dell’avvocato GIOVANNI BAFILE, pec:

carlo.bretzel.milano.pecavvocati.it;

caterina.davelli.milano.pecavvocat.it;

giovannibafile.ordineavvocatiroma.org;

– controricorrente –

e contro

R.M., D.L.D.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1559/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 30/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18/03/2021 dal Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. D.V.S., convivente more uxorio di C.M.D. e della di lei figlia R.D.M., intervenne nel giudizio incardinato dinanzi al Tribunale di Ancona da R.M., padre di D.M., per chiedere la condanna dell’UCI – Ufficio Centrale Italiano S.c.r.l. e di D.L.D. al risarcimento dei danni patiti in conseguenza del decesso della convivente e della di lei figlia, occorso in occasione di un sinistro stradale verificatosi in data (OMISSIS) per fatto e colpa di D.L.D., conducente dell’automobile nella quale viaggiavano le due donne quali terze trasportate. Il D.V., cui la compagnia di assicurazioni aveva liquidato la somma di Euro 50.383,75, ritenendo che la stessa non fosse satisfattiva del danno subito in conseguenza della distruzione del proprio nucleo familiare, chiese la condanna dei convenuti a risarcirgli la somma di Euro 1.215.043,84 al lordo di quanto già ricevuto.

2. Nel contraddittorio con la sola UCI, il Tribunale di Ancona, con sentenza n. 262 del 12/2/2014, rigettò la domanda, ritenendo raggiunta la prova che il rapporto tra il D.V. con la convivente e la di lei figlia si fosse affievolito o fosse cessato del tutto al momento del sinistro e che, conseguentemente, fosse da ritenere congrua la somma già corrisposta dalla compagnia assicurativa. Conclusivamente, condannò il D.V. alle spese.

3. Avverso tale sentenza, il D.V. propose appello dolendosi della ricostruzione del fatto così come operata dal primo giudice, asserendo di aver fornito in primo grado la prova di circostanze idonee a dimostrare una comunanza di vita e di affetti con la C. e la R.. Inoltre, censurò la sentenza nella parte in cui lo aveva condannato alle spese, osservando, a tal riguardo, che le somme ricevute dalla compagnia assicurativa erano state versate soltanto in corso di causa e per effetto della stessa.

4. Nel contraddittorio con la sola UCI, la Corte d’Appello di Ancona, con sentenza n. 1559 del 30/7/2018, ha rigettato il gravame, ritenendo, per quanto ancora qui di interesse, immune da censure il giudizio del primo giudice nella parte in cui aveva ritenuto satisfattiva la somma già corrisposta dalla compagnia assicurativa, essendo emersi plurimi elementi di prova e plurimi elementi presuntivi, correttamente apprezzati dalla impugnata sentenza, per dubitare della persistenza e dell’attualità del rapporto affettivo tra l’appellante e le due donne. In particolare la Corte d’Appello ha preso in considerazione le prove testimoniali, ha attribuito rilevanza alla circostanza che il D.V. non fosse in grado di fornire spiegazioni sull’identità della persona che guidava la macchina né sulle ragioni per cui le donne si trovassero con lui al momento dell’incidente, circostanze indicative di una non attuale condivisione della quotidianità che avrebbe consentito al D.V. di essere informato sulla persona del conducente e sui motivi del viaggio. Ancora la Corte d’Appello, come del resto il giudice di prime cure, ha attribuito rilevanza alla pendenza di un procedimento penale, a carico del D.V. per il reato di cui all’art. 609 bis c.p., commesso in danno di un’amica di M.D. alcuni mesi prima dell’evento mortale, nonché alle dichiarazioni di una teste relative al deterioramento del rapporto familiare.

Conclusivamente, rigettato l’appello del D.V., la Corte territoriale lo ha condannato alle spese del grado.

5. Avverso tale sentenza, D.V.S. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi. Ha resistito con controricorso l’Ufficio Centrale Italiano s.c.r.l..

6. La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., in vista della quale parte resistente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo – art. 360 c.p.c., n. 3: violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 116 e 232 c.p.c., in relazione alla valutazione delle prove espletate ed al riparto dell’onere della prova – parte ricorrente contesta la ricognizione della fattispecie così come operata dall’impugnata sentenza, assumendo che il giudice del merito avrebbe errato sia in sede di valutazione delle prove espletate, sia in tema di riparto dell’onere della prova. In particolare, per un verso, si duole del fatto che gli elementi essenziali sui quali si sarebbe formato il convincimento della Corte territoriale (individuati sub lett. A) e B) a pag. 9 del ricorso) siano in realtà irrilevanti o destituiti di fondamento; per altro verso, nega che ricada su di sé l’onere di dimostrare la persistenza dell’affectio sino al momento del sinistro.

1.1 Il motivo e’, nel suo complesso, inammissibile.

1.1.1 In via preliminare, deve rilevarsi che la produzione della sentenza penale n. 2322/2015 del Tribunale di Pescara sub doc. 5, relativa al procedimento penale a carico del D.V. per violenza sessuale, si sostanzia in un inammissibile tentativo di introdurre nuovi atti e documenti nel giudizio di legittimità, in violazione del disposto di cui all’art. 372 c.p.c. e ciò in quanto è possibile ravvisarne l’astratta rilevanza soltanto in ordine all’affermazione (o negazione) di meri fatti materiali, ossia a valutazioni di stretto merito non deducibili in questa sede. Invero, per costante giurisprudenza, l’assoluzione pronunziata a norma dell’art. 530 c.p.p., comma 2, non vincola in alcun modo il giudice civile, non assumendo alcuna valenza enunciativa della “regula iuris” alla quale egli ha il dovere di conformarsi nel caso concreto, giacché, in tal caso, l’assoluzione è determinata dall’accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato e non da un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato (cfr., da ultimo, Cass., 3, n. 4764/2016).

1.1.2 Quanto alla pretesa violazione dell’art. 116 c.p.c., la censura incorre nella declaratoria di inammissibilità, in quanto le ragioni in essa svolte risultano estranee ai motivi consentiti dall’art. 360 c.p.c., veicolandosi nella sostanza una quaestio facti. E’ noto che la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o una risultanza probatoria, non abbia operato secondo il suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento (cfr. Cass., Sez. U., sent. n. 20867/2020). Tuttavia, parte ricorrente si limita a dedurre che il giudice del merito abbia male

– apprezzato talune circostanze in sede di ricostruzione del fatto (segnatamente, la sussistenza di un procedimento penale per violenza sessuale e la presenza della C. e della R. sull’auto del D.L.) e a prospettare una diversa e più appagante interpretazione del compendio probatorio, in tal modo sollecitando questa Corte a rivalutare la quaestio facti al di là dei limiti consentiti dall’attuale n. 5 dell’art. 360 c.p.c. – che peraltro non è neppure dedotto nella censura – siccome precisati dalle Sezioni Unite nelle sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014.

1.1.3 Quanto alla pretesa violazione dell’art. 2697 c.c., la censura è priva di autosufficienza, in quanto non rispettosa delle prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Invero, parte ricorrente non argomenta, come invece avrebbe dovuto fare, sul come e sul quando il giudice del merito avrebbe attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (cfr. Cass., 3, n. 13395/2018); piuttosto, si limita a dolersi, in maniera del tutto generica e apodittica, del fatto di essere destinataria dell’onere di fornire la prova della persistenza del rapporto affettivo con le due donne al momento del sinistro (cfr. pag. 12, righe 18-19 del ricorso), di talché il motivo manca della puntuale esposizione delle ragioni per cui è proposto nonché dell’illustrazione degli argomenti posti a sostegno della sentenza impugnata e dell’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo, come espressamente indicato nella rubrica, giustificherebbero la cassazione della pronuncia.

1.1.4 Quanto, infine, alla pretesa violazione dell’art. 232 c.p.c., la censura è generica, priva di specificità, non rispettosa delle prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 e non conforme alle indicazioni di questa Corte per la formulazione di censure di legittimità. Invero, il motivo non individua la motivazione della sentenza che si sottopone a critica; inoltre, e comunque, non reca un’attività assertiva percepibile della violazione della norma indicata nell’intestazione e si fonda su prove testimoniali che vengono evocate senza fornirne l’indicazione specifica ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

2. Con il secondo motivo si deduce – art. 360 c.p.c., n. 3: violazione degli artt. 2059 e 1226 c.c., in relazione all’applicazione di un criterio liquidativo di pura equità, disancorato da parametri obiettivi e conseguente mancata applicazione delle tabelle di Milano, nonché violazione degli artt. 2,29 e 30 Cost., laddove non è stato riconosciuto il danno da lesione del rapporto parentale ed affettivo.

Il ricorrente si duole del fatto che l’impugnata sentenza, per un verso, abbia ritenuto congrua, senza peraltro motivare sul punto, la somma di circa Euro 50.000 versata dall’UCI, e, per altro verso, non abbia liquidato alcunché a titolo di danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. sulla base delle Tabelle del Tribunale di Milano.

2.1 Il motivo è infondato.

In tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che la comunicazione dell’offerta dell’impresa di assicurazione ai sensi del D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 148, non accettata dal danneggiato, e il pagamento della somma offerta non esonerano il danneggiato, che agisca in giudizio per il risarcimento dei danni a cose e/o alla persona causati dal medesimo sinistro, dagli oneri di allegazione e di prova che incombono sull’attore (cfr. Cass., 3, n. 24205/2015). Ebbene, nel caso in esame, il giudice del merito, con valutazione insindacabile in questa sede, ha ritenuto che il D.V. non abbia assolto agli oneri probatori su di lui incombenti, non essendo riuscito a dedurre e provare l’esistenza dei pregiudizi, patrimoniali e non patrimoniali, di cui chiede il risarcimento nonché il nesso causale tra questi ultimi e il sinistro, sicché ha condivisibilmente rigettato tutte le domande da questi avanzate. Ne discende che, avendo il giudice del merito accertato l’insussistenza dell’an risarcitorio, non può l’odierna ricorrente dolersi della mancata liquidazione del quantum, né, a fortiori, dell’esiguità della somma versata dalla compagnia assicurativa: essa, infatti, ai sensi del D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 148, comma 7, si atteggia alla stregua di un acconto e doveva essere imputata alla liquidazione definitiva del danno, nella specie nulla.

3. Con il terzo motivo di ricorso – art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5: violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.; omesso esame della questione delle spese di lite del giudizio di primo grado – il ricorrente censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha confermato la condanna alle spese relative al giudizio di primo grado.

3.1 Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

La prospettazione secondo la quale il D.V. sarebbe stato soltanto parzialmente soccombente all’esito del giudizio di primo grado, essendogli state riconosciute le somme già versate dalla compagnia assicurativa in corso di causa, deve ritenersi destituita di fondamento. Invero, non consta che l’odierno ricorrente, allora attore, avesse spiegato una domanda in tal senso, di talché, visto il totale rigetto delle pretese da lui avanzate in primo grado, la statuizione del primo giudice in ordine alle spese, e la relativa conferma da parte del secondo giudice, debbono ritenersi esenti da censure.

Per altro verso, il motivo non è deducibile sotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; semmai, esso avrebbe dovuto essere veicolato mediante il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c..

4. Conclusivamente il ricorso è dichiarato inammissibile ed il ricorrente condannato a pagare, in favore di parte resistente, le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo. Si dà altresì atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, del cd. raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente a pagare, in favore di parte resistente, le spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 10.200 (oltre Euro 200 per esborsi), più accessori di legge e spese generali al 15%. Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, della Sezione Terza Civile, il 18 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2021

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