Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25521 del 10/10/2019

Cassazione civile sez. trib., 10/10/2019, (ud. 29/04/2019, dep. 10/10/2019), n.25521

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20882-2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

G.G.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIA

PANAMA 95, presso lo studio dell’avvocato PICCIAREDDA FRANCO, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2219/2014 della COMM. TRIB. REG. di ROMA,

depositata il 08/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/04/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO.

Fatto

RITENUTO

Che:

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 2219/22/2014, depositata dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio l’8.04.2014, la quale, in sede di giudizio di rinvio ex art. 394 c.p.c., aveva rigettato l’appello dell’Ufficio, accogliendo nella misura indicata in motivazione la domanda di rimborso della somma di Euro 248.724,02 per imposte non dovute, introdotta da G.G.G..

Ha rappresentato che la controversia traeva origine dalla istanza di rimborso presentata dal contribuente, tesa ad ottenere la restituzione delle ritenute fiscali effettuate a suo dire indebitamente dal Fondo di previdenza integrativa complementare tenuto dall’Enel al momento della liquidazione della propria quota di partecipazione, pari ad Euro 1.242.540,00, sulla quale erano state trattenute le imposte applicando l’aliquota del 38,92%. Sulla istanza si era formato il silenzio rifiuto, perchè l’Ufficio sosteneva la corretta applicazione dell’aliquota media calcolabile per la tassazione separata dell’indennità di fine rapporto.

Il G., che riteneva del tutto illegittimo quel regime impositivo, affermando di contro che alle prestazioni erogate in forma di capitale e in dipendenza di contratti di assicurazione o capitalizzazione maturati a favore degli iscritti non dovesse applicarsi alcuna ritenuta, o in subordine che essa dovesse essere operata nella misura del 12,50% (peraltro sulla differenza tra il capitale erogato e i premi riscossi, ai sensi dell’art. 42, comma 4 del TUIR, ratione temporis vigente), aveva adito la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, che con sentenza n. 97/38/2007 aveva accolto la domanda subordinata, dichiarando tassabile l’intero importo con l’aliquota agevolata.

Avverso la pronuncia l’Agenzia ricorreva dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, che rigettava l’appello con sentenza n. 91/06/2008. L’Agenzia impugnava anche questa pronuncia, che questa Corte accoglieva con ordinanza n. 30360/2011. Era dunque cassata la decisione della Commissione regionale ed il processo rimesso al giudice del rinvio per il riesame del merito della controversia, da definire secondo il principio di diritto somministrato dalla Corte.

All’esito del giudizio di rinvio la Commissione Tributaria Regionale, con la sentenza oggetto del presente ricorso, rigettava l’appello della Agenzia, attribuendo al contribuente il diritto al rimborso di Euro 243.107,28.

L’Ufficio censura la decisione con quattro motivi:

con il primo per violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., nonchè dell’art. 394 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere il giudice regionale erroneamente affermato che l’Ufficio non aveva mai contestato l’ammontare del rendimento;

con il secondo per violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 63 e degli artt. 384 e 392 c.p.c. e ss., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, perchè avrebbe deciso in difformità del principio di diritto formulato nel giudizio rescindente, o al più applicandolo solo apparentemente;

con il terzo per violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., per non aver rispettato le regole sulla ripartizione dell’onere probatorio;

con il quarto, articolato in subordine, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per la totale omissione dell’esame della sussistenza o meno di somme derivanti dall’investimento sul libero mercato del capitale costituito nel Fondo.

Ha dunque chiesto la cassazione della sentenza.

Si è costituito il controricorrente, che ha eccepito l’inammissibilità e nel merito l’infondatezza dei motivi, chiedendo il rigetto del ricorso.

L’Agenzia ha depositato memoria ai sensi 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

I primi tre motivi, che possono essere trattati congiuntamente perchè con essi l’Ufficio contesta la decisione del giudice di rinvio sotto una pluralità di profili, afferenti la mancata osservanza del principio somministrato da questa Corte avverso la precedente pronuncia di rigetto dell’appello dell’Ufficio, cassata e rinviata alla Commissione regionale, e la cattiva applicazione delle regole probatorie, sono fondati.

Il giudice regionale, chiamato a decidere in sede di rinvio, dopo aver evidenziato il carattere chiuso di tale giudizio e dopo aver riportato il principio affermato dalle Sezioni Unite in materia con la sentenza n. 13642/2011, già citata dall’ordinanza della Cassazione n. 30360/2011 pronunciata nella presente controversia, afferma che “diversamente da quanto sostenuto dall’Agenzia delle Entrate, nel caso in esame va assoggettata alla ritenuta del 12,50% la parte di capitale, erogato al contribuente, riferibile al rendimento di polizza. Il G. ha perciò diritto al rimborso della differenza tra le somme che il sostituto d’imposta gli trattenne sui rendimenti conseguiti nel periodo antecedente al 31.12.2000 (e cioè Euro 920.163,78) all’aliquota del 38,92%, come si desume dalla certificazione ENEL in data 22.11.2005 a firma B. … e quanto gli doveva essere trattenuto sulla base dell’aliquota del 12,50%. L’Agenzia delle Entrate non risulta aver contestato l’ammontare del rendimento e non può certo farlo nel presente giudizio di rinvio (art. 394 c.p.c.). Quanto all’efficacia di tale certificazione risultano prodotte le procure rilasciate al Dott. B. dall’amministratore unico di ENEL APE s.r.l….per compiere, fra le altre attività, gli adempimenti di legge in materia fiscale, correlate alla gestione del personale.”. A questo punto il giudice del rinvio procede al calcolo di quanto versato a titolo d’imposta e quanto dovuto in applicazione dell’aliquota al 12,50%, determinando il credito a rimborso spettante al G. nella misura di Euro 243.107,27.

La decisione, lamenta l’Ufficio, è fondata su un principio difforme da quanto affermato dalla Corte avverso la precedente statuizione della Commissione regionale, ivi denunciando che l’aliquota del 12,50% fosse stata applicata alle somme erogate al dipendente senza avvedersi che esse non costituivano il rendimento proveniente da investimenti del capitale accumulato, ma solo genericamente rendimenti.

Ciò chiarito, è innanzitutto non rispondente al vero che l’Agenzia non abbia mai contestato i conteggi emergenti dalla ricostruzione contabile del contribuente, che, come riferisce lo stesso Ufficio, aveva depositato la certificazione rilasciata dall’Enel e una perizia giurata a firma dei Dott. P. e V.. Nell’atto di costituzione nel giudizio di rinvio, come riportato in ricorso, l’Agenzia, alla luce del richiamo alla sentenza n. 13642/2011 delle Sezioni Unite da parte della stessa ordinanza n. 30360/2011, aveva insistito nel sollecitare il giudice di rinvio a verificare “se vi sia stato e quale sia stato l’impiego da parte del Fondo, sul mercato, del capitale accantonato, e quale e quanto sia stato il rendimento conseguito in relazione a tale impiego.”. Ciò è sufficiente a dimostrare la specifica contestazione formulata sul punto dall’odierna ricorrente.

E’ fondata anche la denunciata difformità dal principio di diritto somministrato nel precedente giudizio di legittimità, così come il cattivo governo delle regole di riparto dell’onere probatorio.

La Corte, richiamando il principio affermato dalle Sez. U nella sentenza n. 13642/2011, aveva accolto il ricorso dell’Ufficio. Aveva tuttavia rinviato alla Commissione Regionale del Lazio in altra composizione, ritenendo di non poter decidere nel merito “in quanto deve essere riservata alla sede di rinvio la individuazione in concreto degli elementi reddituali e contabili idonei alla corretta applicazione del principio sopra enunciato, sulla base della documentazione acquisita in atti ed alla evoluzione nel tempo del rapporto contributivo.” (cfr. il testo della decisione, di cui questo Collegio ha preso direttamente visione).

Occorreva a questo punto che il giudice del rinvio provvedesse a verificare se e in che misura una porzione delle somme versate al G. costituisse il risultato dell’impiego sul mercato del capitale accantonato. La Commissione ha invece ritenuto di adempiere a tale dovere con un mero rinvio alla documentazione allegata dal contribuente.

Sennonchè quella perizia nulla dimostra, di fatto disattendendo proprio la regola somministrata dal giudice di legittimità.

D’altronde, la lunga sequenza in materia di pronunce della Corte di cassazione conduce ad avvalorare le censure della ricorrente, evidenziano l’infondatezza delle ragioni prospettate dal controricorrente.

La sentenza delle Sez. U in particolare, dopo aver dato conto della evoluzione normativa, avverte il “difficile approccio del legislatore italiano con la previdenza complementare, che ha delineato un percorso incerto della disciplina di queste forme integrative trasformate nel tempo da “tutela assicurativa”, rispondente al principio del risparmio finanziario (che trova la propria garanzia costituzionale nell’art. 47 della Carta fondamentale), a “tutela previdenziale”, rispondente al principio del risparmio previdenziale (che trova la propria garanzia costituzionale nell’art. 38 della Carta fondamentale): la differenza principale tra le due forme di risparmio sta nel fatto che, nel primo caso l’investimento concerne una somma che è già patrimonio del soggetto, mentre nel secondo caso, l’investimento concerne una somma che origina da redditi di lavoro.” (pag 8 della sentenza a Sez. U). Nel prosieguo la sentenza, registrando che la scelta per una tassazione netta tout court analoga a quella applicata ai redditi di lavoro è intervenuta solo a partire con il D.Lgs. n. 124 del 1993 (L. n. 335 del 1995, art. 13, comma 9 introdotto dall’art. 11) ma per le prestazioni erogate in forma di capitale a favore di soggetti iscritti ad enti di previdenza complementare in epoca successiva all’entrata in vigore del suddetto decreto, ha ritenuto che per gli iscritti in data anteriore il sistema dovesse contemplare un doppio binario di trattamento fiscale, non potendo ignorarsi la “composizione strutturale delle prestazioni stesse”. Ciò perchè “… nel caso concreto, trattandosi di un Fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono composte da una “sorte capitale”, costituita dagli accantonamenti imputabili ai contributi versati dal datore di lavoro (e in notevole minor misura dal lavoratore), e da un “rendimento netto”, imputabile alla gestione di mercato da parte del Fondo del capitale accantonato. Sicchè possono essere tassate in modo analogo al TFR esclusivamente le somme liquidate a titolo di capitale, mentre alle somme corrispondenti al rendimento di polizza (nella fattispecie PIA), si applica la tassazione nella misura del 12,50% ai sensi della L. 26 settembre 1985, n. 482, art. 6, della …” (pag. 9 della sentenza).

La piana lettura del passaggio motivazionale delle Sez. U evidenzia che il principio generale da essa affermato distingue la “sorte capitale” dal “rendimento netto imputabile (solo quest’ultimo) alla gestione sul mercato da parte del Fondo del

“capitale accantonato”. Rispetto al principio generale affermato a pag. 9, la circostanza che il principio di diritto, formulato a pag. 10, menzioni il solo sintagma “rendimento” non svilisce il riferimento alla composizione complessiva, costituita da “rendimento netto imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato”.

L’interpretazione della decisione n. 13642 del 2011 ha d’altronde conferme, con significative precisazioni nei successivi arresti della Cassazione, che non ne scalfiscono l’impianto.

In particolare la successiva giurisprudenza di legittimità si è attestata su una lettura del principio affermato dalle Sezioni Unite, secondo la quale il predetto più favorevole trattamento impositivo può trovare applicazione limitatamente alle somme rinvenienti dall’effettivo investimento da parte del fondo sul mercato finanziario del capitale accantonato, costituendone il rendimento (tra le tante, cfr. Cass. n. 29583/2011; 280/2012; n. 7724-7728/2013; n. 3136/2014; n. 1977/2015; n. 720/2017).

Si è infatti sostenuto che l’applicazione del più favorevole meccanismo impositivo L. n. 482 del 1985, ex art. 6, si giustifica in ragione della equiparazione tra i capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita e quelli corrisposti in dipendenza di contratti di capitalizzazione, posta dal TUIR art. 41 (ora 44), comma 1, lett. g-quater), e art. 42 (ora 45), comma 4. E’ stato anzi evidenziato che l’applicazione non è direttamente riconducibile alla L. 482 del 1985, art. 6 (espressamente riferita solo ai capitali corrisposti da “imprese di assicurazione” in dipendenza di “contratti di assicurazione sulla vita, esclusi quelli corrisposti a seguito di decesso dell’assicurato”), ma solo in via analogica ai capitali corrisposti in dipendenza di contratti di capitalizzazione; analogia a sua volta giustificata dalla comune considerazione delle due fattispecie nel TUIR quali ipotesi omogenee di redditi di capitale. Non si è mai dubitato dunque che la ragione della eventuale assoggettabilità a detto meccanismo dei capitali corrisposti ai dirigenti Enel aderenti al descritto fondo di previdenza integrativa non vada ricercata – neppure con riferimento a quelli riferibili agli accantonamenti operati in regime di P.I.A. prima del 1998 – nella natura assicurativa della prestazione, nè tanto meno del soggetto erogante, quanto piuttosto nella possibilità di ravvisare in quelle prestazioni redditi di capitale derivanti da contratti di capitalizzazione.

Solo se e in quanto nei capitali corrisposti possano identificarsi “redditi di capitale derivanti da contratti di capitalizzazione” è giustificabile l’applicazione del meccanismo impositivo previsto dalla cit. L. n. 482 del 1985, art. 6. Nella giurisprudenza anzi, quando l’erogazione delle quote di partecipazione è stata successivamente operata dal fondo succeduto al PIA, ossia Fondenel (1998), si è esclusa la possibilità di distinguere tra P.I.A. e Fondenel -ossia tra rendimenti degli accantonamenti operati prima del 1998 nel fondo denominato P.I.A. e rendimenti riferibili invece alla gestione Fondenel del periodo successivo-, così come è stata esclusa la possibilità di considerare i primi comunque assoggettabili al detto meccanismo in ragione di una presunta (ma insussistente) natura assicurativa delle prestazioni (cfr. Cass., sent. n. 24525 del 2017).

Resta dunque confermato che sono tassabili con l’aliquota del 12,50% L.n. 482 del 1985, ex art. 6, i capitali maturati anteriormente al 1 gennaio 2001 dai soggetti iscritti al fondo di previdenza integrativa di che trattasi (P.I.A., poi Fondenel) prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 1993, limitatamente a quella porzione di essi costituita dal rendimento netto, derivante dalla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato.

Se da un lato tale requisito va ricercato anche per i capitali maturati e gli accantonamenti effettuati anteriormente alla trasformazione del fondo da P.I.A. a Fondenel, si è anche detto che non v’è ragione di circoscrivere ulteriormente tale requisito ai soli (eventuali) investimenti nel mercato finanziario, secondo l’indicazione contenuta nella Risoluzione 26 novembre 2012, n. 102/E, dell’Agenzia delle entrate e avallata da diverse sentenze successive alla pronuncia delle Sezioni Unite (cfr. le citate Cass. nn. 7724-7728 del 2013; n. 3136 del 2014; n. 1977 del 2015), invece non contenuta in quest’ultima la quale, del tutto condivisibilmente, parla soltanto di “gestione sul mercato”, senza alcuna aggettivazione. Il requisito dell’essere il rendimento imputabile alla “gestione sul mercato” del capitale accantonato identifica invero la ragione stessa della più favorevole tassazione di tale reddito. Tale imputazione infatti rappresenta il risultato degli investimenti della somma versata effettuati dall’ente di gestione, investimenti che, se certamente saranno per lo più indirizzati verso i vari prodotti del mercato finanziario (strumenti finanziari, valori mobiliari, etc.), nulla esclude possano esserlo anche verso altri tipi di mercato (es. mercato immobiliare).

E’ stato però precisato che “deve escludersi che tale requisito possa considerarsi soddisfatto dall’essere il rendimento ottenuto corrispondente alla redditività ottenuta sul mercato dell’intero patrimonio dell’Enel (rapporto tra il margine operativo lordo e il capitale investito). Tale coerenza (del rendimento ottenuto dal capitale accantonato con quello ottenuto dal patrimonio dell’Enel) costituisce infatti comunque un dato estrinseco e non causale, nel senso che il primo non può comunque considerarsi frutto dell’investimento di quegli accantonamenti nel libero mercato, come richiesto perchè abbia a configurarsi il reddito da capitale della specie richiesta, essendo al contrario esso stesso dipeso da un predeterminato calcolo di matematica attuariale” (Cass., sent. n. 24525 del 2017 cit.).

La ricostruzione ermeneutica della disciplina dunque, come già rappresentato nella pronuncia n. 13642 cit., distingue in modo inequivocabile il trattamento fiscale di quanto corrispondente al capitale accantonato (secondo le regole della tassazione separata propria della struttura previdenziale dei redditi di lavoro) e del rendimento netto imputabile alla gestione di mercato (secondo le regole fissate nell’art. 6 cit., analogicamente applicabili per certa ricostruzione della vicenda giuridica, al 12,50%). Quest’ultimo trattamento, in conclusione va applicato solo al rendimento di gestione del capitale sul mercato, anche finanziario ma non solo, se e nella misura conseguita e, sul piano processuale, se e nella misura provata.

Il giudice del rinvio di fatto ha applicato l’aliquota più vantaggiosa ad una porzione, peraltro rilevantissima, delle somme liquidate al contribuente, senza accertare alcunchè, pervenendo ad un decisione solo apparentemente rispettosa del principio somministrato dalla ordinanza del giudice di legittimità.

I motivi vanno in conclusione accolti. L’accoglimento dei primi tre motivi assorbe il quarto.

Ritenuto che:

La sentenza va cassata e poichè non vi è necessità di ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa anche nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c.. Infatti è pacifico che il G., quale dirigente Enel, risultava iscritto al Fondo previdenziale denominato P.I.A. già in epoca antecedente al 28 aprile 1993; emerge peraltro come dato incontestato che la documentazione dalla quale il contribuente e il giudice del rinvio hanno fondato, il primo la presunta prova, il secondo il proprio convincimento in ordine al rendimento del fondo PIA con applicazione del trattamento agevolato al 12,5% (certificazione rilasciata a firma del Dott. B.), non è invece idonea a far ritenere raggiunta la prova che il rendimento ottenuto sulle somme accantonate nel fondo di previdenza integrativa sia stato ricavato dal loro investimento sul mercato (Cass. n. 10285 del 2017; Cass. n. 4941 del 2018). Di conseguenza non è possibile fare applicazione del regime fiscale agevolato, ossia dell’aliquota del 12,5% prevista dalla L. 26 settembre 1985, n. 482, art. 6.

In conclusione dunque va rigettato il ricorso introduttivo del contribuente avverso il silenzio rifiuto all’istanza di rimborso.

Quanto alla regolamentazione delle spese processuali, nonostante la soccombenza del contribuente, la circostanza che la giurisprudenza si sia consolidata solo in tempi recenti impone di compensare integralmente tra le parti le spese relative ai gradi del giudizio di merito e le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del G.. Compensa le spese processuali dei gradi di merito e del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 29 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2019

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