Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25500 del 12/10/2018

Cassazione civile sez. trib., 12/10/2018, (ud. 30/05/2018, dep. 12/10/2018), n.25500

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27335-2011 proposto da:

D.L.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA STIMIGLIANO

5, presso lo studio dell’avvocato FABIO CODOGNOTTO, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIOVANNI RIGANTE;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE in persona del Direttore

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI

12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 87/2010 della COMM.TRIB.REG. di BARI,

depositata il 25/08/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/05/2018 dal Consigliere Dott. PAOLO BERNAZZANI.

Fatto

RILEVATO

che:

Il contribuente D.L.A., titolare della ditta individuale “DI DI Strategia ed eventi” propone ricorso, affidato a due motivi, per la cassazione della sentenza della CTR della Puglia n. 87/05/2010, pronunciata il 13.7.2010 e depositata il 25.8.2010, con la quale è stato rigettato l’appello proposto dal contribuente avverso la decisione di primo grado della CTP di Bari, che, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento ai fini Iva, Irpef ed Irap per l’anno 2003, aveva parzialmente accolto il ricorso originario, abbattendo nella misura del 10% i maggiori ricavi non contabilizzati accertati dall’Ufficio ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d).

Resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso, il contribuente deduce vizio di motivazione ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il motivo è fondato nei termini che seguono.

La decisione impugnata, pur affermando la legittimità del metodo accertativo seguito dai verificatori e dall’Ufficio, fondato su una ricostruzione indiretta dei ricavi sulla base della quantità di materie prime utilizzate per la preparazione degli alimenti somministrati ai clienti del bar/ristorante gestito dal contribuente, ha rilevato, in ciò condividendo quanto evidenziato anche dai giudici di primo grado, che il p.v.c. da cui scaturiva l’avviso di accertamento aveva trascurato di valutare elementi di sicuro rilievo ai fini della determinazione dell’imponibile, quali le inevitabili dispersioni di merce dovute alle lavorazioni ed alla deperibilità della stessa, ed aveva, altresì, quantificato in modo eccessivo e non sufficientemente motivato il valore attribuibile ai pasti consumati dai dipendenti (quota di autoconsumo).

In tale prospettiva, secondo i giudici di appello, la CTP, pur muovendo da tali condivisibili premesse, aveva poi errato nel determinare, in via puramente forfettaria e “logicamente immotivata” sotto il profilo dei criteri di calcolo, una riduzione del 10% dei maggiori ricavi accertati dall’Ufficio.

Ciò posto, la stessa CTR, nell’evidente intento di “irrobustire” la motivazione sul punto censurato ha richiamato le risultanze emergenti dallo stesso p.v.c. (pag. 20) attestanti, in particolare, alcune discrepanze fra accertato e dichiarato con specifico riferimento al numero dei tovaglioli (“4300 in più rispetto ai pasti dichiarati nella contabilità ufficiale”) ed al numero dei pasti erogati al personale e consumati dal titolare (n. 1879, “con una differenza di pasti non contabilizzati di n. 1418”), per concludere che l’importo accertato andava ridotto “dei costi relativi ai cali e dispersioni, che può essere ragionevolmente contenuto entro il limite di Euro 5.484, pari alla percentuale stabilita dal primo giudice”).

2. In tale prospettiva, deve ritenersi fondato il motivo dedotto dal ricorrente, secondo cui la CTR, pur operando un richiamo a precisi elementi fattuali, non ha affatto reso intelligibile in che modo ed attraverso quale procedimento logico-ricostruttivo i medesimi elementi potessero esercitare una specifica incidenza sul piano del calcolo dell’entità delle dispersioni e della percentuale di autoconsumo e, quindi, sulla determinazione finale dell’imponibile accertato, per di più nella misura indicata, corrispondente al 10% dei supposti maggiori ricavi (accertati in Euro 54.838,00, come indicato nel ricorso, che sul punto richiama il foglio 16 del p.v.c.).

Conseguentemente, la sentenza impugnata, non esplicitando adeguatamente l’iter logico-giuridico seguito per pervenire alla decisione, ha finito per incorrere in carenze argomentative analoghe a quelle della decisione di primo grado, che pure intendeva censurare, proponendo un risultato valutativo – condensato e quantificato nella somma di Euro 5.484,00 a titolo di riduzione rispetto a quanto accertato dall’Ufficio – che fa appello ad un alquanto generico principio di ragionevolezza e che risulta sostanzialmente apodittico, o, in alternativa, ispirato ad un inammissibile criterio equitativo.

3. Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente deduce il vizio di violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d).

Il ricorrente lamenta, in particolare, che la CTR avrebbe posto alla base dell’accertamento elementi presuntivi privi dei requisiti di legge o, comunque, insufficienti e parziali, posto che, innanzitutto, non avrebbe considerato gli elementi di valutazione forniti dal contribuente: in particolare, si evidenzia la mancata considerazione, da parte della CTR, degli “esempi numerici” elaborati dallo stesso contribuente “a dimostrazione della modificabilità dei risultati raggiunti dall’amministrazione finanziaria”, ovvero di “un prospetto di rideterminazione dei ricavi presuntivi” con il quale la parte modificava alcuni degli elementi di calcolo rispetto a quelli fatti propri dagli accertatori, sì da pervenire a risultati diversi ed indicati come più conformi alla situazione economica reale dell’impresa.

Sotto un secondo profilo, dopo aver premesso, in linea generale, che la motivazione dell’accertamento su base analitico-induttiva non può esaurirsi nel mero rilievo dell’esistenza di uno scostamento rispetto alle risultanze dei parametri e degli studi di settore, il ricorrente lamenta che l’Ufficio non avrebbe neppure evidenziato le ragioni che lo avevano indotto, nella specie, a disattendere i dati relativi agli studi di settore, rispetto ai quali il contribuente risultava congruo, come previsto dalla L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, comma 4-bis con conseguente nullità dell’avviso di accertamento.

4. Il motivo è, nel suo complesso, inammissibile per plurime ragioni.

4.1. In primo luogo, lo stesso risulta carente sul piano del rispetto del principio di autosufficienza, il quale impone che il ricorso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti atti e documenti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass. Sez. 6 – 3, 03/02/2015, n. 1926, Rv. 634266 – 01).

Nella specie, quanto al primo profilo argomentativo dedotto, va registrato che il ricorrente non riporta in alcun modo, neppure in forma sintetica, il “prospetto di rideterminazione dei ricavi presuntivi” dallo stesso elaborato, nè illustra gli specifici elementi di valutazioni che la CTR non avrebbe considerato; nè, ancora, esplica le ragioni per cui gli elementi ivi introdotti e le modificazioni con esso apportate risulterebbero, in ipotesi, più aderenti all’effettiva realtà economica dell’azienda.

Analogamente, con specifico riferimento al secondo profilo, concernente la violazione dei presupposti per l’accertamento D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), con particolare riferimento al dettato della L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 4-bis ratione temporis applicabile, il ricorso non riporta in alcun modo il contenuto della motivazione dell’avviso di accertamento dell’Ufficio che si assume essere carente sul piano motivazionale per non aver enunciato le ragioni che avrebbero indotto l’Ufficio a disattendere le risultanze degli studi di settore, in tal modo non consentendo di apprezzare e verificare, in base al solo ricorso, la censura prospettata. Parimenti, non viene indicato neppure in quali atti del giudizio di merito tale questione sia stata eventualmente proposta, al fine di permettere al Collegio di verificare che non si tratti di questione nuova.

4.2. Ciò posto, va, altresì, aggiunto che l’inammissibilità del motivo di ricorso in esame – quantomeno in relazione al primo dei profili sopra esaminati – emerge anche sotto un distinto e convergente profilo. Come più volte affermato da questa Corte, “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa”. (ex multis, cfr. Cass. Sez. 6 – 2, 12/10/2017, n. 24054, Rv. 646811 – 01; Sez. 5, 30/12/2015, n. 26110, Rv. 638171 – 01).

E tale è proprio il caso di specie, nel quale le violazioni dedotte dal ricorrente sono, piuttosto, riconducibili in via astratta al vizio di insufficiente motivazione (sotto un aspetto diverso ed ulteriore da quello dedotto con il primo motivo), posto che ciò che viene censurato non è l’erronea individuazione o interpretazione della fattispecie astratta, ma una carente ricostruzione della fattispecie concreta, con particolare riferimento alla dedotta mancata o insufficiente valutazione degli elementi contenuti nel “prospetto di rideterminazione dei ricavi presuntivi” elaborato dal contribuente. Nello stesso tempo, inoltre, la doglianza dedotta, diversamente da quanto avviene con il primo motivo di ricorso, non si limita a censurare la decisione impugnata sotto il profilo della sua correttezza giuridica e coerenza logico – formale, ma finisce per sollecitare un riesame del merito della intera vicenda processuale; riesame che è del tutto precluso al giudice di legittimità.

5. In conclusione, deve essere accolto il primo motivo, mentre deve essere dichiarato inammissibile il secondo motivo di ricorso. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio alla C.T.R. della Puglia, alla quale si demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara inammissibile il secondo motivo; cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata con rinvio alla C.T.R. della Puglia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 30 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2018

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