Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25478 del 26/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 26/10/2017, (ud. 15/06/2017, dep.26/10/2017),  n. 25478

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10174-2012 proposto da:

TELECOM ITALIA S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, L.G.

FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati ROBERTO ROMEI, FRANCO

RAIMONDO BOCCIA, giusta delega in atti

– ricorrente –

contro

SNATER REGIONALE DEL LAZIO, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE MILIZIE 34,

presso lo studio dell’avvocato MARCO GUSTAVO PETROCELLI, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2793/2011 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 19/04/2011 R.G.N. 3018/08;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/06/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato BARBARA SANTORO per delega verbale Avvocato ARTURO

MARESCA;

udito l’Avvocato MARCO PETROCELLI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza pubblicata il 19.4.11 la Corte d’appello di Roma rigettava il gravame di Telecom Italia S.p.A. contro la sentenza n. 7247/07 con cui il Tribunale capitolino aveva dichiarato antisindacale la condotta della società consistita nel negare all’associazione sindacale SNATER Regionale del Lazio la convocazione dell’assemblea dei lavoratori, chiesta con lettera del 3.5.06.

2. Per la cassazione della sentenza ricorre Telecom Italia S.p.A. affidandosi ad un solo motivo.

3. SNATER (Sindacato Nazionale Autonomo Telecomunicazioni e Radiotelevisioni) Regionale del Lazio resiste con controricorso, poi ulteriormente illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con unico motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 5, 6 e 7 dell’accordo interconfederale del 20.12.93 e della L. n. 300 del 1970, artt. 19 e 20 per avere la sentenza impugnata statuito il diritto della sola componente sindacale di una r.s.u. (vale a dire, nel caso di specie, dello SNATER Regionale del Lazio) di indire un’assemblea, nonostante che il carattere collegiale della r.s.u. medesima deponga per la soluzione contraria, considerato che il diritto di indire un’assemblea è un diritto non individuale, ma collettivo, in quanto tale estraneo alle facoltà della singola componente che della r.s.u.; nella logica della L. n. 300 del 1970 – si sostiene in ricorso – ogni r.s.a. è dotata di una propria soggettività destinata, in ipotesi di unificazione delle singole r.s.a. in un organismo che le inglobi, a dissolversi in quella del nuovo organismo; pertanto – prosegue il ricorso – il punto focale è valutare se la creazione d’un nuovo organismo rappresentativo come le r.s.u. implichi la perdita di soggettività delle sigle che lo compongono o se, viceversa, le stesse conservino intatta la propria soggettività, tenendo conto altresì del fatto che, ai sensi dell’art. 20, il diritto di indire l’assemblea non si configura come un diritto individuale, ma collettivo, che spetta non al singolo, ma alla r.s.a.

1.2. Il ricorso è infondato, dovendosi dare continuità all’indirizzo da ultimo espresso da Cass. S.U. 6.6.2017 n. 13978, il che supera la richiesta della società ricorrente di rimettere la questione alle S.U. medesime (per altro, in analoga controversia fra le stesse parti anche Cass. n. 17458/14 era giunta ad esito identico).

Tale recente sentenza delle S.U. muove dal tenore letterale della L. n. 300 del 1970, art. 20 secondo il quale l’indizione dell’assemblea può avvenire “singolarmente o congiuntamente” da parte delle r.s.a. di cui al precedente art. 19.

Dunque, nell’originaria ottica statutaria la legittimazione a chiedere l’assemblea è sicuramente (anche) della singola rappresentanza.

A sua volta l’art. 4, comma 1, dell’accordo interconfederale 20.12.93 stabilisce che i componenti delle r.s.u. subentrino ai dirigenti delle r.s.a. nella titolarità dei diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti per effetto delle disposizioni di cui al titolo 3^ della L. n. 300 del 1970 (la clausola si riferisce ai diritti dei singoli lavoratori dirigenti di r.s.a. e opera su un piano di tutele squisitamente personali), mentre il successivo art. 5, comma 1, prevede che alle r.s.a. e ai loro dirigenti subentrino le r.s.u.

Il precedente costituito da Cass. n. 2855/02 ricava il diniego del diritto della singola organizzazione (SLAI COBAS, in quel caso) di indire l’assemblea dal non essere tale sindacato firmatario di contratto alcuno applicato in azienda.

Dunque, si tratta d’un caso particolare maturato, per di più, in un contesto normativo ormai venuto meno a seguito della cit. sentenza n. 231/2013 della Corte cost.(in virtù della quale per poter costituire una r.s.a. basta che l’associazione sindacale abbia comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti collettivi applicati in azienda, sebbene poi – in ipotesi – da essa non sottoscritti).

In breve, la sentenza n. 2855/02, pur affermando la natura collegiale delle r.s.u. previste dal cit. accordo interconfederale 20.12.93, in realtà sfiora, ma non affronta direttamente il tema che si dibatte in questa sede.

Lo affrontano, invece, i successivi arresti giurisprudenziali.

In particolare, Cass. n. 1892/2005 e Cass. n. 15437/2014 esprimono un orientamento interpretativo che è stato condiviso dalla citata sentenza n. 13978/17 delle sezioni unite.

Osserva la sentenza n. 1892/05 che nel testo del cit. accordo interconfederale del 20.12.93 nulla autorizza a ritenere che il riconoscimento pattizio delle prerogative sindacali sia limitato solo a quelle (come le prerogative di cui alla L. n. 300 del 1970, artt. 22,23 e 24) attribuite alle persone dei singoli dirigenti delle r.s.a. e non si estenda anche a quelle riconosciute alle r.s.a. (quale il diritto di indire l’assemblea ex art. 20).

L’ampia formulazione dell’art. 5 cit. (“Le r.s.u. subentrano alle r. s. a. ed ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni ad essi spettanti per effetto di disposizioni di legge.”) suggerisce, anzi, il contrario.

Certa dottrina ha anche ipotizzato che il riconoscimento alla singola componente della r.s.u. – e non (solo) a quest’ultima come organismo a funzionamento collegiale – del diritto di indire l’assemblea possa ricavarsi dall’uso del plurale nell’art. 5 cit., là dove ci si riferisce alle rappresentanze sindacali unitarie.

Tuttavia è un argomento letterale abbastanza debole, ben potendo essere compatibile con il riferimento non al fenomeno del subentro in sè, ma alle numerose r.s.u. destinate ad essere presenti nelle varie realtà aziendali del Paese.

A sua volta, il combinato disposto dell’art. 20 cit. (là dove afferma che le riunioni sindacali possono essere convocate “singolarmente o congiuntamente”) e dell’art. 5 cit. (per cui le r.s.u. sono subentrate alle r.s.a. e ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni che la legge conferisce loro), non lascia emergere alcun aggancio letterale che possa far ritenere che tale subentro sia sì avvenuto, ma con contestuale mutamento di quella legittimazione ad indire l’assemblea che il cit. art. 20 espressamente prevedeva (e ancora oggi prevede) come non necessariamente congiunta.

Bisogna allora domandarsi – prosegue la sentenzxa n. 13978/17 – se tale legittimazione collegiale all’interno di una r.s.u., portato ineluttabile del summenzionato subentro e della natura elettiva delle r.s.u., risulti incompatibile con il permanere di quella legittimazione (anche) singola a chiedere l’assemblea che resta delineata all’interno dell’immutato art. 20.

La questione risiede non nella natura collegiale delle r.s.u. alla stregua di composizione, durata e rinnovo disciplinati dal successivo art. 6 stesso a.i., bensì nella verifica se, accanto alle competenze delle r.s.u. proprie di tale organismo, persistano prerogative proprie delle sue singole componenti, in quanto tali esercitabili anche singolarmente e non necessariamente congiuntamente.

In quest’ultimo senso – statuiscono le S.U. – deve ritenersi dirimente l’art. 4, comma 5 del cit. accordo interconfederale, là dove fa salvo (fra gli altri) in favore delle organizzazioni aderenti alle associazioni sindacali stipulanti il c.c.n.l. applicato nell’unità produttiva il diritto di indire, singolarmente o congiuntamente, l’assemblea dei lavoratori durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore annue.

Si consideri la scansione dell’articolo.

Il comma 1 prevede il subentro dei componenti delle r.s.u. ai dirigenti delle r.s.a. nella titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti per effetto delle disposizioni di cui al titolo 3 della L. n. 300 del 1970.

Tutti i commi che seguono prevedono eccezioni e puntualizzazioni rispetto a tale generale subentro.

I commi 2, 3 e 4 si occupano delle condizioni di miglior favore eventualmente già previste a livello contrattuale nei confronti delle associazioni sindacali dai c.c.n.l. o accordi collettivi di diverso livello, in materia di numero dei dirigenti della r.s.a., diritti, permessi e libertà sindacali e delle successive armonizzazioni negoziali nell’ambito dei singoli istituti contrattuali.

Assai significativo è il comma 4, che prosegue in tale regime di eccezione stabilendo che le parti definiranno in via prioritaria soluzioni in base alle quali le singole condizioni di miglior favore dovranno permettere alle organizzazioni sindacali, con le quali si erano convenute, di mantenere una “specifica agibilità sindacale”.

Il mantenere una “specifica” agibilità sindacale delle singole organizzazioni e il salvare, al successivo comma 5, il diritto di indire, singolarmente o congiuntamente, l’assemblea dei lavoratori durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore annue, delinea un quadro di esplicite eccezioni rispetto al comma 1, esplicite eccezioni che smentiscono l’ipotesi ricostruttiva secondo cui le prerogative delle singole r.s.a. si sarebbero tutte confuse e dissolte all’interno del principio di maggioranza che regge le r.s.u.

Ciò vuol dire che nell’ottica del cit. accordo interconfederale una data associazione sindacale, malgrado la sua presenza all’interno della r.s.u., può anche singolarmente indire l’assemblea, ovvero che non tutti i diritti attribuiti dalla legge alla singola r.s.a. sono stati attratti e si sono disgregati all’interno delle r.s.u.

Anche il successivo art. 5 cit. (“Le r.s.u. subentrano alle r.s.a. ed ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni ad essi spettanti per effetto di disposizioni di legge.”) va letto tenendo presente il regime di esplicite eccezioni di cui al comma 5 del precedente art. 4.

L’esplicita eccezione in tema di assemblea (oltre che di permessi non retribuiti e di diritto di affissione) prevista in tale ultima clausola non è una sorta di infortunio lessicale, ma una soluzione di compromesso (all’interno dello schieramento dei sindacati dei lavoratori) perfettamente spiegabile proprio alla luce della matrice storica dell’accordo interconfederale in discorso.

Infatti, la logica unitaria posta a monte dell’accordo poteva comportare un arretramento di spazi di “specifica agibilità sindacale” per quelle associazioni che – essendo stipulanti il c.c.n.l. applicato nell’unità produttiva e, in quanto tali, già munite del diritto di costituire r.s.a. e, conseguentemente, di indire singolarmente l’assemblea ai sensi del combinato disposto dell’art. 20, comma 2, e dell’art. 19, comma 1, lett. b) – avrebbero potuto nutrire più d’una remora rispetto al subentro delle r.s.u., remore superate una volta assicurata la salvaguardia di già acquisite condizioni di miglior favore di origine sia negoziale che legislativa.

Non tragga, poi, in inganno il riferimento alle associazioni stipulanti il c.c.n.l. applicato nell’unità produttiva, poichè esso ben si spiegava alla luce del previgente L. n. 300 del 1970, art. 19 che, prima della cit. sentenza n. 231/13 della Corte cost., vedeva ancora l’essere l’associazione firmataria di contratti applicati all’interno dell’unità produttiva come uno dei criteri attributivi del diritto di costituire una propria r.s.a., tale da far godere, grazie al combinato disposto con il successivo art. 20, del diritto (esercitabile anche singolarmente da parte della rappresentanza medesima) di indire l’assemblea.

Insomma, il riferimento alle associazioni firmatarie di contratti applicati all’interno dell’unità produttiva è una mera riproduzione del criterio legislativo contenuto nell’art. 19, comma 1, lett. b), dello Statuto dei lavoratori.

Ma ora che la sentenza n. 231/13 ha previsto un ulteriore criterio di rappresentatività (non più soltanto l’essere la singola organizzazione firmataria di contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, ma anche il solo aver partecipato alla relativa negoziazione), è del tutto naturale che esso si riverberi pure sull’interpretazione dell’art. 4 cit., comma 5 che ha lo scopo dichiarato di salvaguardare condizioni di miglior favore maturate in via di contratto collettivo o di disposizione normativa.

Nessuna delle obiezioni mosse alla dirimente portata interpretativa della clausola di cui al cit. art. 4, comma 5, regge ad un’approfondita disamina.

Sotto un profilo strettamente letterale è neutra la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 8 stesso accordo interconfederale, secondo la quale le organizzazioni di cui all’art. 19 cit., firmatarie dell’accordo medesimo o comunque ad esso aderenti, partecipando alla procedura di elezione della r.s.u. rinunciano formalmente ed espressamente a costituire r.s.a. ai sensi del medesimo art. 19.

Infatti, la clausola può avere tanto il significato di evitare che le organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo interconfederale o che comunque vi aderiscano finiscano, mantenendo proprie r.s.a., con il far proliferare in maniera incontrollata organismi di rappresentanza sindacale all’interno dei luoghi di lavoro (con sovrapposizione di competenze e sostanziale impossibilità di far funzionare quelle stesse r.s.u. cui pure hanno deciso di partecipare), quanto quello di rinunciare alle prerogative che la legge (v. ad esempio l’art. 20 cit.) riconosce alla singola rappresentanza sindacale (ormai confluita nella r.s.u.).

Ma quest’ultima esegesi sostanzialmente collide con il summenzionato art. 4, comma 5, dello stesso accordo interconfederale, così dando luogo ad una insolubile aporia all’interno del medesimo testo negoziale: infatti, non si vede come far convivere la legittimazione ad indire l’assemblea anche in capo alla singola associazione firmataria di contratti applicati all’interno dell’unità produttiva con la rinuncia alle prerogative (compresa quella dell’art. 20) che la legge riconosce alla singola rappresentanza sindacale e, quindi, al sindacato di cui è emanazione.

La prima opzione interpretativa, invece, consente di mantenere, sotto un profilo sistematico, quella coerenza interna dell’accordo doverosa in un approccio ermeneutico che rispetti l’art. 1363 c.c..

Nè la clausola dell’art. 4, comma 5, cit. può riferirsi, come pure si è supposto in dottrina, alle organizzazioni “esterne” alla r.s.u., ossia a quelle che, pur munite di rappresentatività (perchè firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva o, oggi, perchè anche soltanto – partecipi della relativa negoziazione), tuttavia non facciano parte (per le più svariate ragioni) della r.s.u. presente in azienda.

Siffatta esegesi attribuirebbe all’accordo interconfederale 20.12.93 una valenza, appunto, esterna, vale a dire quella di “riservare” il diritto di indire, anche solo singolarmente, l’assemblea (per 3 delle 10 ore annue retribuite), nonchè di godere dei permessi retribuiti e del diritto di affissione, alle confederazioni non firmatarie dell’accordo del 20.12.93 e/o alle organizzazioni che, pur aderendo a tali confederazioni firmatarie, nondimeno in concreto restino al di fuori di una o più delle r.s.u. costituite all’interno delle varie aziende.

Ma una valenza esterna, proprio perchè tale, mal si concilia con un testo avente natura pur sempre negoziale.

Infatti, le parti stipulanti dell’accordo interconfederale del 20.12.93 non avrebbero mai potuto riservare diritti (peraltro già esistenti a livello legislativo) a parti non stipulanti, cioè a terzi, perchè res inter alios acta, tertio neque nocet neque prodest.

Neppure si può dire che l’abbiano fatto in favore delle organizzazioni che, pur aderendo a tali confederazioni stipulanti, nondimeno in concreto siano rimaste al di fuori di una o più delle r.s.u. costituite all’interno delle varie aziende: in realtà l’intero contesto dell’art. 4 cit. è, invece, quello d’una armonizzazione del passaggio da r.s.a. a r.s.u. e delle modalità di mantenimento di eventuali condizioni di miglior favore, affinchè tale passaggio non si risolva in un decremento di prerogative già per altra via acquisite.

Neppure convince l’obiezione che, con la ricostruzione qui accolta, il tema dell’indizione di assemblea, prevedendo legittimazioni concorrenti sia della r.s.u. (quale organismo collegiale che delibera a maggioranza) sia della sua singola componente, risulterebbe disciplinato in maniera non coincidente con l’impianto della L. n. 300 del 1970, artt. 19 e 20: quand’anche ciò fosse, ad ogni modo resterebbe insuperabile il rilievo, già evidenziato fin da Cass. n. 1892/05 cit., che l’autonomia collettiva garantita ex art. 39 Cost. può prevedere prerogative diverse o ulteriori rispetto a quelle riconosciute a livello legislativo, ben potendo anche tracimare dalla relativa cornice di riferimento, con gli unici limiti della L. n. 300 del 1970, art. 17 e dell’esistenza d’una effettiva rappresentatività (cfr. Corte cost. n. 492/95 e Corte cost. n. 975/88), limiti che in nessun caso risulterebbero varcati.

Una consistente parte della dottrina interessatasi del tema in oggetto obietta – in estrema sintesi – che l’affermazione di legittimazioni concorrenti (sia della r.s.u. quale organismo collegiale che delibera a maggioranza sia della sua singola componente sindacale) urta contro il principio democratico, necessariamente maggioritario, spezza il legame tra rappresentanza, rappresentatività e democrazia sindacale, riduce la r.s.u. ad una mera sommatoria di distinte rappresentanze associative.

E’, invece, agevole notare che la limitata eccezione di cui al cit. art. 4, comma 5, non solo non svaluta nè snatura la r.s.u., ma neppure pregiudica il principio maggioritario implicitamente evocato dal successivo art. 6, comma 3 (che stabilisce la decadenza della r.s.u. in caso di dimissioni e conseguenti sostituzioni dei relativi componenti in numero superiore al 50% degli stessi), e dall’art. 7 (in forza del quale le decisioni relative a materie di competenza delle r.s.u. sono assunte dalle stesse in base ai criteri previsti da intese definite dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori stipulanti l’accordo).

In altre parole, ben possono un organismo elettivo come la r.s.u. e il principio di maggioranza convivere con limitate prerogative di singole componenti dell’organismo medesimo.

Inoltre, il richiamo dottrinario al principio maggioritario come inscindibile da quello democratico muove, ad avviso delle S.U., da una falsa prospettiva.

Il principio di maggioranza è sicuramente proprio di quello democratico nel momento decisionale, ma è estraneo al momento del mero esercizio di diritti che non importino decisioni vincolanti nei confronti di altri.

Invero, sempre per restare nell’ambito delle libertà sindacali, è sintomatico che, mentre nella L. n. 300 del 1970, art. 21 si legge che l’indizione di referendum deve essere effettuata “da tutte le rappresentanze sindacali aziendali”, nel precedente art. 20, comma 2, la richiesta di assemblea risulta poter essere avanzata “singolarmente o congiuntamente”.

Non è un caso: il referendum, a differenza da un’assemblea (che può anche limitarsi a mera discussione e confronto), importa sempre un contarsi, una votazione; e il referendum in tanto ha un senso in quanto dia un determinato esito numerico, esito che non può che emergere a maggioranza, conformemente appunto – al principio democratico.

Ma la democrazia, se richiede pur sempre decisioni a maggioranza, al di fuori del momento decisionale presuppone – anzi – il conflitto dialettico (o confronto) degli interessi e delle idee, conflitto pur sempre governato da regole e destinato poi a comporsi in decisioni adottate a maggioranza, ma la cui potenziale fecondità è connaturata alla democrazia medesima.

In breve, è proprio l’insistito richiamo (che si legge in larga parte della dottrina) al principio di maggioranza o di democrazia sindacale maggioritaria a dimostrare, invece, che là dove si parli di (mere) assemblee, vale a dire di momenti di confronto che precedono e preparano quelli decisionali propriamente detti, la tutela delle voci singole (ed eventualmente dissenzienti) è irrinunciabile.

La citata sentenza n. 13978/17 precisa che la conclusione cui perviene non muta neppure alla luce dell’accordo interconfederale 10.1.2014, c.d. testo unico sulla rappresentanza sindacale, siglato da Confindustria e da CGIL, CISL e UIL in applicazione dei precedenti accordi siglati dalle stesse parti il 28.6.2011 e il 31.5.2013.

Si tratta d’un accordo – la cui immediata applicabilità è stata già esclusa (ratione temporis) nella controversia in oggetto – che in dottrina è stato evocato a sostegno dell’asserito funzionamento a maggioranza delle r.s.u.

Si è infatti notato che mentre l’art. 4, sezione seconda, sostanzialmente riproduce quasi alla lettera l’art. 4 dell’accordo del 20.12.93, così come il successivo art. 5 fotografa il tenore dell’art. 5, comma 1, del suo omologo del 1993, l’art. 7, comma 1, stabilisce invece che “Le decisioni relative a materie di competenza delle r.s.u. sono assunte dalle stesse, a maggioranza, in base a quanto previsto nella parte terza del presente accordo che recepisce i contenuti dell’accordo interconfederale 28 giugno 2011.”, così introducendo un esplicito richiamo al funzionamento a maggioranza della r.s.u. che (pur se da considerarsi come implicito) non si leggeva nel testo del 20.12.93.

Ma a prescindere dal fatto che tale richiamo abbia natura meramente ricognitiva o innovativa e che, pertanto, possa o non confermare ex post l’opzione interpretativa in questa sede non condivisa, resta il rilievo che la ricostruzione sopra delineata non nega affatto che le r.s.u. funzionino secondo il principio di maggioranza: nega soltanto che esso sia incompatibile con la concorrente legittimazione (anche) singola a richiedere l’assemblea, legittimazione desunta da quell’art. 4, comma 5, dell’accordo del 1993 che lo stesso accordo interconfederale del 10.1.2014 ha espressamente ribadito.

1.3. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare in favore di parte controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 26 ottobre 2017

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