Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25449 del 11/11/2020

Cassazione civile sez. I, 11/11/2020, (ud. 21/10/2020, dep. 11/11/2020), n.25449

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAGDA Cristiano – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

A.A., rappr. e dif. dall’avv. Giacomo Cainarca, elett.

dom. presso lo studio dell’avv. Valentina Valeri, in viale Regina

Margherita n. 239, come da procura spillata in calce all’atto;

– ricorrente —

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappr. e dif.

ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato presso i

suoi Uffici, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

per la cassazione del decreto Trib. Milano 9.4.2019, n. 3177, in R.G.

12465/2018;

udita la relazione della causa svolta dal Consigliere relatore Dott.

FERRO Massimo alla camera di consiglio del 21.10.2020.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Rilevato che:

1. A.A. impugna il decreto Trib. Milano 9.4.2019, n. 3177, in R.G. 12465/2018 di rigetto dell’impugnazione interposta avverso il provvedimento 29.1.2018 di diniego della tutela invocata dinanzi alla competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale e da tale organo disattesa;

2. il tribunale, dopo aver proceduto a sentire il richiedente, ha ritenuto: a) plausibile che la ricorrente, di incerte generalità e provenienza, sia comunque – come dichiarato – cittadina della Nigeria ed originaria di Akourè (Ondo State), allontanatasi perchè “da tempo soffriva di mal di stomaco” e così espatriata, su consiglio di un pastore e a seguito di cure inefficaci; b) la non inerenza dei fatti dichiarati ai presupposti della persecuzione, nè al danno grave D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, ex lett. a) e b), mancando, dalle stesse dichiarazioni, sia i motivi di cui al cit. D.Lgs., art. 8, sia gli elementi di pregiudizio di organi o enti statuali o gruppi fuori controllo; c) insussistente un conflitto armato generalizzato nell’Ondo State, in Nigeria, secondo le fonti consultate e ai sensi del D.Lgs. cit., art. 14, lett. c), non risultando segnalazioni in tal senso; d) infondata la richiesta di protezione umanitaria, per omessa allegazione e prova di elementi ulteriori rispetto a quelli recati a supporto delle prime due forme di protezione, essendosi limitata la ricorrente – quanto ai problemi di salute a produrre un certificato medico del 1995, attestante “gonfiori addominali da ingestione di intrugli a base di erbe”, senza evidenziare gravi situazioni di incompatibilità di cura al rientro e, quanto all’integrazione, non adducendo circostanze più significative, avendo praticato esperienze lavorative nel quadro del sistema di accoglienza ovvero saltuarie, convivendo con la nuova famiglia, mentre in Nigeria la richiedente conserva un radicamento familiare parentale, altre infine essendo le misure protettive a favore della minore figlia; e) infondata anche una autonoma domanda di asilo ex art. 10 Cost., trattandosi di misura ricompresa nel trattato sistema di triplice protezione;

3. il ricorrente propone due motivi di ricorso, il Ministero si è costituito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Considerato che:

1. con il primo motivo si lamenta la violazione dell’art. 10 Cost. e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, anche come vizio di motivazione, avendo il tribunale trascurato che si tratta di norma che conserva autonomia nel sistema delle fonti della protezione internazionale, almeno per quella cd. umanitaria, da riconoscere in ragione della vulnerabilità in cui è occorsa la richiedente, in rapporto alle condizioni d’insicurezza e salute, anche con riguardo alla famiglia nel frattempo costituita nonchè della figlia e tenuto conto del pregresso soggiorno in Libia;

2. con il secondo mezzo si deduce l’erroneità del decreto in punto di protezione sussidiaria, mal motivata per ogni aspetto considerato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, ed in particolare quanto al conflitto armato nella zona di provenienza;

3. il primo motivo, nonostante la genericità e l’assemblamento di due censure in una, appare scindibile quanto al profilo della violazione dell’art. 10 Cost.; sul punto esso è inammissibile, poichè in contrasto con consolidato indirizzo di legittimità, per cui “il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo “status” di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, ed al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, cosicchè non v’è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3″ (Cass. 16362/2016, 11110/2019);

4. l’esame del secondo profilo del primo motivo e di una parte del secondo motivo, va a sua volta preceduto dal rilievo dell’omessa censura, ad opera del richiedente, del puntuale accertamento delle reali ragioni di cura che avrebbero indotto l’espatrio, motivato dal giudice di merito in termini di irrilevanza ai fini del giudizio di vulnerabilità (per mancata allegazione di un’impossibilità oggettiva terapeutica, anche a fronte dell’inconferenza dei documenti prodotti e dell’assenza di riscontri medici all’attualità); nello stesso motivo, inoltre, fa difetto l’enunciazione specifica di quali conseguenze attuali sarebbero residuate in capo alla richiedente a seguito del soggiorno in Libia e tali da essere state trascurate dal tribunale, circostanze non riportate in ricorso, mentre il tribunale stesso non ne ha specificamente dato conto rilevando che nulla era stato allegato in più rispetto agli elementi portati a sostegno del chiesto rifugio e della protezione sussidiaria, ritenuti non fondati;

5. il tribunale, con complessa ratio decidendi non impugnata, rivolta al diniego del rifugio e della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), ha accertato il difetto di persecuzioni di ogni genere rilevante in materia e di provenienza di minacce da gruppi connotati da forza statuale o parastatuale o comunque di spessore organizzativo cospicuo e non contrastato dalla polizia;

6. circa il secondo profilo del secondo motivo, il ricorso è poi inammissibile, per plurime ragioni; esso contrasta con il principio per cui, si ripete, “ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia” (Cass. 18306/2019); in ogni caso, l’accertamento “implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5” (Cass. 30105/2018); inoltre, il ricorrente per cassazione che intenda denunciare in sede di legittimità la violazione del dovere di cooperazione istruttoria da parte del giudice di merito non deve limitarsi a dedurre l’astratta violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ma ha l’onere di allegare l’esistenza e di indicare gli estremi delle COI che, secondo la sua prospettazione, ove fossero state esaminate dal giudice di merito, avrebbero dovuto ragionevolmente condurre ad un diverso esito del giudizio; la mancanza di tale allegazione – che, nella specie, difetta di ogni puntale riferimento allo Stato di provenienza del richiedente – impedisce alla Corte di valutare la rilevanza e decisività della censura, rendendola inammissibile;

7. quanto infine al secondo profilo del primo motivo e comunque alla censura sul mancato conseguimento della protezione umanitaria, il decreto, dopo aver valorizzato la mancanza di documenti di identificazione come lo stesso passaporto (e dunque l’incertezza su generalità e provenienza esatta, oltre la cittadinanza della Nigeria e dalla zona di Akourè), ha giudicato insufficiente il percorso integrativo allegato, posta la sua sostanziale coincidenza, per un verso, con le mere attività allestite dalla struttura di accoglienza e così, per altro, ponendo in dubbio la stessa integrazione – che di per sè non rappresenta comunque il fatto costitutivo di un diritto pieno alla misura protettiva – poichè realizzata mediante un rapporto di lavoro non stabile, a fronte di riferimenti familiari parentali ancora presenti nel Paese d’origine;

8. a sua volta, la nascita – prima dell’arrivo in Italia – di una figlia e la convivenza attuale con la stessa costituiscono situazioni cui il tribunale ha fatto esplicito riferimento con riguardo al diverso istituto di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 31 e alla competenza riservata, in tema di permanenza a tempo determinato e in deroga del familiare, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore, al tribunale dei minorenni, senza che tale statuizione sia stata qui idoneamente censurata;

9. appare così rispettato nella decisione il principio, con Cass. 23778/2019 (pur sulla scia di Cass. 4455/2018), per cui “occorre il riscontro di “seri motivi” (non tipizzati) diretti a tutelare situazioni di vulnerabilità individuale, mediante una valutazione comparata della vita privata e familiare del richiedente in Italia e nel Paese di origine, che faccia emergere un’effettiva ed incolmabile sproporzione nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, da correlare però alla specifica vicenda personale del richiedente… altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 cit., art. 5, comma 6″; l’indirizzo è stato ribadito da Cass. s.u. 29460/2019, facendo nella specie difetto i termini oggettivi di un’effettiva comparabilità, al fine di censire la vulnerabilità della ricorrente, negata dal decreto, che ha appunto escluso, per la insufficienza e genericità dei richiami offerti, la rilevanza più specifica di altri fattori; si tratta di prospettazione tanto più necessaria a fronte della perentoria valutazione d’irrilevanza operata dal giudice di merito, anche in relazione alla svalutazione delle ragioni dell’allontanamento dalla Nigeria; si può allora ribadire che l’odierna censura è nel suo complesso inammissibile per genericità e perchè si risolve in un vizio di motivazione, oltre però il limite del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

10. il ricorso va dunque dichiarato inammissibile; sussistono i presupposti per il cd. raddoppio del contributo unificato (Cass. s.u. 4315/2020), oltre a quelli per la condanna alle spese, secondo soccombenza.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.100, oltre ad accessori di legge e alle spese prenotate a debito; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 21 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2020

 

 

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